Trattativa, gip si riserva su distruzione intercettazioni Mancino Napolitano1 Febbraio 2013 di Redazione Saranno distrutte le conversazioni, intercettate nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, tra Nicola Mancino e Giorgio Napolitano? Lo potrebbero essere già martedì 5 febbraio anche se il giudice per le indagini preliminari non è vincolato dalla sentenza della Corte Costituzionale che ha sancito l’inviolabilità delle conversazioni del presidente della Repubblica e ordinato alla Procura di Palermo la distruzione. I magistrati inquirenti, dopo il verdetto della Consulta, avevano presentato l’istanza al magistrato competente, ma è un giudice che deve decidere. Il giudice del tribunale di Palermo che dovrà decidere, Riccardo Ricciardi, ha convocato il perito che dovrebbe procedere all’eliminazione dei supporti magnetici e delle tracce informatiche contenute nei server della Procura. Il gip si è riservato pero’ anche qualche giorno di riflessione,dopo avere ascoltato i dialoghi registrati nell’ambito dell’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Il giudice Ricciardi, che non è vincolato dalla decisione della Consulta (valida solo per le “parti”, dunque la Procura e il presidente della Repubblica), potrebbe anche stabilire di sollevare una nuova questione di costituzionalità. Lo scopo, in prima battuta, sarebbe una sorta di richiesta di chiarimento, di fissare cioè regole generali e astratte, valide per tutti i casi simili, con una sentenza “additiva” del contenuto della legge sulle intercettazioni, quando queste riguardino il presidente della Repubblica. La Consulta finora ha ordinato la distruzione delle conversazioni, vietandone qualsiasi valutazione ai pubblici ministeri e soprattutto l’udienza con la partecipazione degli altri imputati. Stando al dettato della Corte costituzionale, poi, il giudice, dopo avere ascoltato i colloqui in maniera molto riservata, deve verificare se quanto Napolitano e Mancino si dicevano fra di loro possa mettere in discussionevalori superiori all’integrità del presidente, e cioè quelli che riguardano la tutela della vita, della libertà personale e la sicurezza dello Stato. Ricciardi potrebbe ritenere che ci siano anche altri valori costituzionali da tutelare, come il diritto di difesa di altri imputati. Anche se i giudici della Consulta hanno stabilito che il presidente della Repubblica, in quanto “supremo garante dell’equilibrio dei poteri dello Stato”, non è mai intercettabile. Le sue conversazioni sono inviolabili anche in presenza di reati comuni. Del resto il capo dello Stato, hanno ricordato i giudici, è stato“collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”. Entro martedì, comunque, dovrebbe arrivare la decisione finale. Sul verdetto della Consulta oggi ritorna ancora Antonio Ingroia: “Non ho avuto torto: la Consulta mi ha dato torto, ma io ho ragione” dice a Omnibus su La7. Allora, quella della Corte Costituzionale fu una sentenza politica? “Intendiamoci, non nel modo in cui – risponde Ingroia – lo direbbe Berlusconi, però ogni interpretazione di diritto e Costituzione ha un suo tasso di politicità. In questo caso, non c’è dubbio che il codice di procedura penale prevedeva la procedura seguita dalla Procura di Palermo. Per la Consulta bisognava seguirne un’altra e scegliendo è prevalsa quella politica, detto tra virgolette, di circondare il Capo dello Stato di maggiori garanzie di quanto fosse previsto fino a prima di questa sentenza”. Ingroia aggiunge allora che “ritengo anche impropria la scelta della Consulta di farlo in sede di conflitto di attribuzione, quando bisogna invece dire chi ha ragione e chi torto a legislazione vigente”. Gli strani aiutini di Fini e Tarantola alla banca rossa Ma chi controlla i controllori? Ultimamente parecchie procure, non solo quella di Siena, sono al lavoro sui misteri miliardari di Mps. Da ieri c’è anche Roma, che indaga per aggiotaggio. Nell’atto conclusivo dell’inchiesta ci si rifà a una vecchia nota del 2 marzo 2007 inviata alla Consob dove la Tarantola affermava di non procedere a sanzioni «per l’inesistenza di presupposti per l’emissione di qualsiasi provvedimento a carico del controllato » che così – sostiene la procura di Trani – «se ne avvantaggiava ». Un modus operandi anomalo, a detta degli inquirenti. Che ha costretto Mps ha risarcire gran parte dei risparmiatori danneggiati nel tentativo, «riuscito finora per l’80 per cento dei ricorrenti truffati » – spiega un investigatore – di far loro ritirare le querele e far abortire l’inchiesta. «Un triangolo omertoso tra Abi, Bankitalia e Consob », ha tuonato al riguardo il parlamentare Lannutti «che ha determinato il buco di 15,4 miliardi di euro di buco del Monte dei Paschi ». Al di là dei rapporti pericolosi emersi nella precedente scalata Antonveneta con Giampiero Fiorani che a Lady Vigilanza regalò servizi da te, orologi Cartier, vassoi e posate d’argento, bracciali di Tiffany e Pomellato, in una delle 22 interpellanze sulla Tarantola, Lannutti si chiede se sia stata «nominata in Rai dopo aver inviato una ispezione alla Banca Popolare di Milano, allora gestita da Ponzellini, a cui Grilli chiedeva i buoni uffici per ricoprire la carica di governatore. Non è strano che poco dopo venga scelta dalla Rai, il cui azionista è il Tesoro, cioè proprio lo stesso Grilli? Bisogna rompere l’intreccio incestuoso tra banche e Bankitalia, nel senso che le banche sono azioniste di Bankitalia, che poi dovrebbe controllarle ». Quanto basta per chiedere almeno una audizione dei vertici di Bankitalia, dopo quella di Grilli. Richiesta fatta (audizione della Tarantola, ma anche del governatore Visco e del predecessore, Draghi), in commissione Finanze della Camera, dal deputato Franco Barbato, ma senza successo. Di traverso si sono messi il Pd, che ha chiesto tempo (sarà forse l’imbarazzo per la vicenda Mps?), ma soprattutto i deputati di Fli, nella persona del capogruppo Della Vedova, finiano candidato con Monti. E siccome la norma prevede che la richiesta di audizione passi soltanto se c’è l’unanimità, niente da fare, la presidente Rai può restare in Rai senza spiegare nulla. «È stato Fini a dire di no alla audizione di Bankitalia, me lo ha detto una fonte molto autorevole in Commissione » rivela Barbato al Giornale. Un cadeau per Mario Monti, casualmente unica speranza dei finiani di rivedersi in Parlamento. Il Pd non spiega e minaccia chi fa domande Un partito serio, che si candida a guidare il Paese, non invierebbe l’annuncio diunaque- rela ai quotidiani, accusandoli di aver pubbli cato clamorose bugie. Un partito che tiene, come dice, alla propria onorabilità, invece di anticipare azioni giudiziarie a mezzo stampa, per prima cosa si preoccuperebbe di chiarire l’oggetto delle accuse e, nel caso, di corregge re le informazioni non veritiere. Un partito che non avesse nulla da temere o da nascon dere, ma che anzi avesse dalla sua la certezza di non aver nulla di cui vergognarsi, di fronte a notizie prive di fondamento le contesterebbe, rendendo noti dati e fatti a suo favore. Tutto ciò però nel caso del Partito democrati co non è avvenuto, ma anzi è capitato il con trario. Il segretario del Pd invece di obiettare con forza i suoi argomenti a ciò che ritiene sia stato ingiustamente pubblicato, ha lanciato obliqui e minacciosi avvertimenti. Prima di cendo che non si farà sbranare, poi comuni cando di aver dato mandato all’ufficio legale senza spiegare in che cosa consistano le «cla morose bugie », quindi, con stile intimidato rio, avvertendo che il suo non è un partito di «mammolette » e reagirà agli attacchi. Ma se è pacifico che il Pd non abbia nulla del partito serio, e men che meno democratico, e dunque si possa permettere di in viare ai giornali oscuri e minatori messaggi invece di spiegare quali fossero i suoi concreti rapporti con il Monte dei Paschi di Siena, altrettanto poco serio è un Paese che si lascia scivolare addosso tut to senza far nulla, salvo punire i giornalisti per una virgola fuori posto. C’è da stupirsi perciò che, una volta fatto fuori Berlusconi, ovvero colui che a sinistra hanno descritto per anni come il male as – soluto per definizione, l’Italia continui a restare al 57 ° posto nel la classifica mondiale della libertà di stampa? C’è da sorprendersi se, proprio mentre il Partito demo cratico minaccia Libero e il Gior nale, viene a galla la storia del li cenziamento del direttore della Nazione, colpevole solo di aver pubblicato un comunicato ri guardante il Monte dei Paschi di Siena? La storia risale a circa due anni fa e a rivelarla è stato un sito on line, ripreso da Dagospia. A guidare lo storico quotidiano to scano all’epoca era Mauro Tedeschini, già direttore di varie testate nazionali, tra le quali Quattroruo- te. Che fa Tedeschini per meritarsi il 16 aprile del 2011 l’immediata rimozione dopo solo nove mesi ai vertici del giornale? Semplice, pubblica una nota inerente il Monte dei Paschi di Siena che in fastidisce il sindaco della città in cui ha il suo quartier generale la banca. Franco Ceccuzzi, l’uomo che ora si atteggia ad eroe per aver allontanato dai vertici Mps Giu seppe Mussari (suo testimone di nozze), a quanto pare non avreb be gradito un articolo riguardante ¡rapporti trail Monte e il Comune. E allora Tedeschini viene liquida to su due piedi. Spiega ora il diret – tore licenziato: noi non sapevamo dei derivati e del resto, ci eravamo limitati a riportare un comunica to, ma anche questo ha dato fasti dio. Ci fossero stati dubbi sulle reali intenzioni del Pd dopo lo scoppio del caso che riguarda la sua ban ca, il racconto di Tedeschini li fu ga. Il partito che si dice democra tico e che esprime esponenti co me Ceccuzzi, come Mussari e tan ti altri che nella vicenda Mps han no avuto un ruolo di primo piano, i giornali li vorrebbe al suo servi zio, imbavagliati e ammaestrati a riportare solo le veline e i docu menti ufficiali. Dà fastidio ai «de mocratici » che qualcuno si per metta di fare domande o che sot tolinei la commistione tra affari e politica, gli intrecci perversi che sono stati costruiti a Siena e sono all’origine dello scandalo. Gli in terrogativi posti ai dirigenti del Pd dalla stampa vengono liquidati come operazioni di sciacallaggio. È ciò che ci siamo sentiti rispon dere l’altra sera in tvper bocca del presidente del partito, l’onorevole Rosy Bindi. La quale, alla denun cia dell’esistenza nello statuto del Pd dell’obbligo per funzionari pubblici e privati di ripagare chi li ha nominati, invece di promette re di cancellare la norma, ha scel to di negarla. Provate a riflettere : il Pd nomina i vertici della banca e per il disturbo da questi si fa dare ogni anno il 30 per cento dello sti pendio, per un totale di oltre due milioni. Però, quando scoppia lo scandalo delle truffe bancarie messe a segno nel mentre la ban ca era governata dai vertici indi cati dal Pd, lo stesso partito se ne lava le mani. Finge di non cono scere chi ha nominato, ignora che sono iscritti al partito da anni, che lo hanno sovvenzionato per cen tinaia di migliaia di euro e che fino a ieri erano amati e coccolati ad ogni manifestazione di partito. Ma in compenso minaccia chi ri corda come stavano le cose. Per anni i nipotini di Enrico Berlinguer hanno agitato la ban diera della questione morale, autoproclamandosi custodi della legalità, dei diritti, della trasparen za. Oggi, dopo quel che è successo e dopo le pressioni per mettere a tacere la libera stampa, è bene che tale bandiera la ammainino. Per ché se ne vogliono issare una in sostituzione, l’unica che si addice loro è quella dell’immoralità. Su Tedeschini si veda anche qui. Ingroia dà ragione a Berlusconi: “Uso politico delle intercettazioni” “Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica”. Che sostanzialmente ha ammesso l’esistenza (per non dire l’appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: “Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico”. L’ex pm ha poi affermato che “ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo”. Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché “mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto”, ha aggiunto Ingroia. Ma il magistrato siciliano è tornato a parlare anche del caso delle intercettazioni sul Colle e della decisione della Corte Costituzionale sul conflitto di attribuzione, rivendicando la legittimità del suo operato. “È stata una sconfitta della Costituzione repubblicana e del rapporto dell’equilibro fra i poteri, perché è stato incrementato lo statuto delle prerogative del Capo dello Stato a discapito del potere giudiziario. Non ho avuto torto: la Consulta mi ha dato torto, ma io ho ragione”. Insomma, anche quella della Consulta sarebbe stata una decisione politica. Ma “intendiamoci, non nel modo in cui lo direbbe Berlusconi, però ogni interpretazione di diritto e Costituzione ha un suo tasso di politicità. In questo caso, non c’è dubbio che il codice di procedura penale prevedeva la procedura seguita dalla Procura di Palermo. Per la Consulta bisognava seguirne un’altra e scegliendo è prevalsa quella politica, detto tra virgolette, di circondare il Capo dello Stato di maggiori garanzie di quanto fosse previsto fino a prima di questa sentenza”, ha precisato Ingroia. Che infine ha commentato così le critiche che hanno accompagnato la sua entrata in politica: “Mi rendo conto che la mia scelta avrebbe determinato polemiche, anche interne alla magistratura, ma ho fatto un ragionamento politico che sapevo mi avrebbe esposto anche a questo tipo di rischi. Nel calcolo costi-benefici ho ritenuto fossero maggiori i benefici. L’Italia aveva bisogno, e mi scuso se può sembrare autogratificante, che una parte del Paese venisse rappresentata”. Letto 1958 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||