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LETTERATURA: I MAESTRI: Gadda risponde a Moravia

6 Gennaio 2008

[dal Corriere della Sera di giovedì 23 novembre 1967]

All’ indomani dell’assegnazione del Premio Montefeltro a Carlo Emilio Gadda, Alberto Moravìa è andato a fargli visita, per parlare del suo lavoro e della sua vita. Ecco il testo delle domande e delle risposte.


MORAVIA. E’ bene che uno scrittore si guadagni la vita con il mestiere dello scrittore? Oppure è preferibile che eserciti un’altra professione e riserbi alla letteratura le sue ore più disinteressate?

GADDA. Poiché allo scrit ­tore si domanda ormai dal pubblico e dai critici un vasto magazzino di idee e di infor ­mazioni, quasi il possesso men ­tale della interminata enciclo ­pedia, più esperienza di vita (Vissuta (eventualmente in un lager), più attitudini e abilità di carattere pratico esecutivo quali condotta della macchina, tennis, alpinismo, guida velica su mare agitato, pronto soccor ­so al morso dei serpenti vele ­nosi, gioco degli scacchi e della scopa maggiore o scopone, galuppamento di cocktails o sorbimento di long drinks, foto e riprese cinema, golf, pallacorda e ping-pong, così opino sia bene che lo scrittore impari di buon’ora l’arte del saper tutto, frequenti i filosofanti Geronti e le dive quindicenni, ammesso che Platone e Frine non disdegnino di intrattenersi con lui. Guadagnare o mendicar sua vita a frusto a frusto con ulteriore occupazione o com ­mercio oltrepassa la misura or ­mai colma della pena e della fatica accettabile.

MORAVIA. Qual è il nes ­so interno, dialettico, tra il tuo primo periodo « milanese » e quello posteriore non milane ­se? Linguistico, sentimentale, contenutistico ?

GADDA. E’ la mia residen ­za obbligata nella vivida, gene ­rosa, fattiva città già « rasa al suolo » dal buon Barbarossa co ­me lo rimemorava nel 1310 l’a ­bate di San Zenone, ben retri ­buito portinaio degli Svevi; in ­di l’accostamento affettivo della mente al suo popolo e alla par ­lata di codesto popolo così po ­co ortodossa dal punto di vista di eccellenti puristi.
Mio padre leggeva, non male, le sestine di Carlo Porta, pri ­ma che mia madre mi leggesse il primo Dante o mi porgesse da leggere il Manzoni. L’obbli ­go di risiedere a Milano era fi ­glio della povertà oltreché d’una elezione imperterrita esclusiva d’altre residenze urbane, anche occasionali.

MORAVIA. II Pasticciacciaccio e La cognizione del dolore sono due romanzi non finiti. Che significato ha nella tua opera questo frammentismo, o meglio questo rifiuto del fi ­nito?

GADDA. L’incompiutezza, il frammentismo, hanno avuto le solite, forse riprovevoli, più probabilmente ineluttabili cau ­se. Sono stati anzitutto un pres ­soché disperato tentativo di re ­cuperare il tempo che s’era dissolto nella dis’opera e nel dis lavoro, ove comprendo in essi anche la fatica inutile e la pena inflittami da strutture educati ­ve inadeguate alle mie naturali attitudini, operanti contro di me, secondo la regola feroce ­mente obbligatoria di una mor ­bosa crudeltà del castigo o di vessatoria costrizione delle fa ­coltà mentali dell’alunno. Otti ­me, per altro, nel 1904, le scuole elementari del Comune di Mi ­lano, le maestre e il maestro a cui serbo memore gratitudi ­ne nel cuore.
Ebbi docenti buoni e ottimi al liceo, ma vietati dall’istituto familiare i peccati di desiderio nei confronti di Virgilio e di Orazio. Ricordo un mio irrive ­rente distico latino venutomi troppo breve di mezza sillaba e subito medicato dall’insigne poeta mio maestro in gara col Pascoli ad Amsterdam: Gallina satanae caliceque vendita perit nsidens monstris anima laeta uis. Il buon maestro emendò caliceque con atque calice. Corresse il zoppicante esametro, non l’irriverenza blasfema d’aspetto epicureo gallinaceo. Certo comprese e compatì.
Il rifiuto del finito, nel caso del giallo, trainant per riprovevoli divagazioni e per alcuni eccessi verbali, è dovuto al con ­sapevole desiderio di chiudere in apocope drammatica il rac ­conto che tendeva a deformar ­si. Nel caso della Cognizione, l’incompiutezza ebbe momenti lirici, affettivi (passaggio, suo ­ni dell’ora), o più apertamente sociali (povera gente) che con ­trastano il canone estetico e strutturale della narrativa pu ­ra, la quale, secondo me, non esiste come non esiste la stra ­tegia pura.

MORAVIA. Pensi che conservatorismo e umorismo siano sempre collegati? e per ­ché?

GADDA. Nel senso da te chiaritomi e precisatomi ver ­balmente, l’umorismo si fonde ­rebbe su un dato, su un giudi ­zio estetico e morale già acqui ­sito, procedendo a un ulteriore giudizio che risulterebbe in con ­trasto ironico e morale col già fermo e coagulato dal « conser ­vatorismo ». Posso concedere, anche se penso che la casistica dello humour può comprendere molte combinazioni: e chiedo tempo di pensarci su.

MORAVIA. Si parla da qualche tempo della fine della parola come mezzo espressivo. Saremmo all’inizio di una civiltà dell’immagine, del segno? Che ne pensi ?

GADDA. Superi la mia possibilità di seguirti. Rifuggo dall’insicurezza dell’avvenire: sono una scatola cranica del perento Ottocento, del vecchio positivi ­smo di Saint Louis Pasteur, come lo chiamò Bernard Shaw, nella prefazione della sua San ­ta Giovanna.

MORAVIA. II tuo plurilinguismo (dialetti, gerghi di mestieri, lingua classica) sta a denotare in te la sfiducia nella lingua della cultura? Op ­pure corrisponde a una sen ­sualità o « furore » linguistico di cui sono alcuni precedenti nella nostra letteratura? O in ­fine indica una implicita po ­lemica contro il monolinguismo induttivo della classe dirigente?

GADDA. L’uso di un idio ­ma composito mi è derivato dalla tema di perdere qualcosa della dovizia o dell’esattezza o del vigore espressivo delle gen ­ti parlanti, o di taluni « aspetti regionali » delle loro parlate. Nel caso italiano, i dialetti e le espressioni popolari si sono ar ­ricchiti e intorbidati nei secoli fino a risultarne incomprensi ­bili all’orecchio di chi è straniero alla regione e magari al ­la provincia o al circondario o al mandamento. Non è questa una buona ragione per obiurgarmi d’un tentativo forse ar ­dito e troppo volonteroso per le mie forze. Nella vicenda ita ­liana, « dialetto » significa par ­lata popolare stretta, chiusa, ermetica, cifrata. Nella lingua greca, si distinsero rispettati e chiari dialetti, quasi altrettante lingue a forma autonoma e nes ­sun greco arrossì, direi, del suo dialetto o della sua nobile parlata.

MORAVIA. Tra umorismo verbale (c’è anche un umorismo non verbale, per esempio Swift) e nevrosi c’è un nesso e quale?

GADDA. Che cosa esiste che non sia nevrosi al dì d’og ­gi? Una nevrosi può essere cu ­rata e guarita da uno sciroppo ricostituente o calmante, da una dieta appropriata, da qual ­che doccia tiepida. Altro caso è la psicosi, anticamera del ma ­nicomio, e i pazzi non sono sempre umoristi. Se per nevro ­si intendi un cedimento mo ­mentaneo della consapevolezza, quasi uno svenire del senso lo ­gico, un fading della ragione, dovuto per esempio a polemi ­ca, ad aspra irrisione, a sarca ­smo, a un moto di difesa o di aggressione, a uno spirito di ingiuria smodata, posso conce ­dere. In tal caso l’umorismo è nell’accento, nella pronuncia, nella struttura della frase, nel tono.

MORAVIA. Credi che la rivoluzione scientifica debba avere dei riflessi diretti nella letteratura? Non parlo di fantascienza, parlo di rapporto con il reale, del rapporto fra l’artista e la materia.

GADDA. Mi hai fatto ver ­balmente l’esempio di Einstein, ma qual è il « letterato » che può riflettere direttamente nel ­la sua opera contenuti einstei ­niani o quell’altro che può leg ­gere Einstein? No, non credo a riflessi diretti della rivoluzione scientifica sulla ormai insop ­portabile letteratura. Bisogne ­rebbe che il Creatore ricreasse l’uomo col cervello di un ro ­bot. Preferisco credere nei ri ­flessi dell’impiego al consolato francese di Giuseppe Gioacchino Belli sul sonetto « Fra tutti quanti l’ommini assortati / pa ­pa Gregorio ce po’ fa’ er cam ­pione ».

MORAVIA. E’ possibile scrivere in Italia? Se non è possibile, di chi è la colpa? di che cosa?

GADDA. Non è possibile, a parer mio, scrivere un unico e a tutti leggibile italiano. La colpa è d’ognuno e di tutti, scriventi o leggenti italiani. Ognuno d’essi, come un pas ­sante distratto, urta quello che incontra. D’altronde una im ­pensabile « buona educazione », in questo caso, equivarrebbe alla tirannide del simbolo.


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Bart