LETTERATURA: I MAESTRI: Maupassant, testimone e vittima25 Aprile 2008 di Carlo Bo [da: “La religione di Serra”, Vallecchi, 1967]Raramente viene spontaneo come nel caso di Maupassant di parlare di natura, di « narratore nato » e di trovare ogni volta una precisa conferma della formula nella lettura. Accuse avventate, anche perché è molto arduo stabilire quale sia il metro per misurare questa fedeltà alle cose reali, alle cose e agli uomini. Bisognerebbe che ci fosse un metro è, per di più, metro unico. Lo stesso Flaubert, quando raccomandava al suo giovane discepolo di perdersi nell’os Âservazione, suggeriva un argomento per evadere e fuggire alla soggezione delle cose. Se Maupassant ha seguito, – come infatti ha seguito, – il consiglio flaubertiano non può non essersi accorto che, insistendo su un oggetto o su un fatto, cadeva vittima di un’esaltazione interiore che per forza di cose rinnovava gli strumenti di avvicinamento e di valutazione. Ora se fra il consiglio di Flaubert e la meccanica applicata dallo scrittore di racconti Maupassant c’è un abisso, è proprio perché a chi si apprestava a tradurre dalla voce sulla pagina la storia di Boule de suif deve essere risultato che la realtà va aggredita, va mangiata e inghiot Âtita nel più breve tempo possibile. Così, quando si dice che il Maupassant ha ben poco a che fare con gli amici di Médan e in genere con la scuola dei naturalisti, si dice una verità piena ma una verità che ha bisogno di essere con Âfrontata nel libro delle diverse applicazioni e delle diverse tecniche. In genere, la realtà per lo scrittore naturalista tipico è un documento che va interpretato, assolto dal suo stato di confusione e quindi letto con tutti i soccorsi della scienza. La partita è giocata fra lo spettacolo di un certo fatto o di una situazione a episodi e la chiave critica di chi si appresta a vedervi soltanto un documento. In parole povere, si parte da un testo aperto a tutte le letture per arrivare a dei risultati concreti e che evidentemente escludono altre confuse sollecitazioni e naturalmente altri modi di lettura. La filosofia è per il naturalista un punto d’arrivo, anche se apparentemente egli parte in guerra contro le spe Âculazioni del sentimentalismo e le incrostazioni delle ideologie perniciose; la filosofia è una riprova, e si divide in due: prima la tesi, dopo la prova e la dimostrazione. In Maupassant nulla di tutto questo: c’è, sì, una visione della vita all’inizio ma è proprio questa visione a rendere inu Âtile il tessuto delle dimostrazioni. Se la vita ha quel carat Âtere negativo, ciò non toglie che i casi singoli possano se Âguire un’altra direzione e sfruttare un margine di libertà insoluta, quel tanto di libertà che viene assegnato dal caso a « quel » fatto di cronaca. Si dirà che in questo modo i suoi  personaggi non sono mai autonomi e l’osservazione è giu Âsta ma fino a un certo punto. Non lo sono perché a priori lo scrittore ha spinto tutti i suoi possibili personaggi, tutto il mondo possibile verso un unico destino, ma per tutto quello che riguarda il comportamento del momento, del tempo minore essi godono della più ampia libertà . Anzi, questo giuoco libero nell’economia della commedia acqui Âsta un altro valore, ha un senso polemico e porta a far vedere che il corso dell’esistenza nasconde sempre un finale unico, ugualmente tragico e disperato. In quei momenti lo scrittore è libero, apparentemente acconsente al giuoco, lascia andare dove vogliono i suoi personaggi, ma mantiene fermo il suo occhio per la stretta finale, per il colpo im Âprovviso della soluzione. Così ci spieghiamo perché il re Âgistro dei temi sia piuttosto ricco e non sia lecito parlare di univocità per Maupassant. Anzi, direi che alla infinita disponibilità dei fatti di cronaca che colpiscono la sua imma Âginazione,  Maupassant  opponga  senza  fatica  altrettanti modi di leggere la realtà e quindi di mettere l’accento sul tragico come sul comico, servirsi dell’ironia come della più cupa e grave disperazione. La vita del narratore precipita e tutto sta nel cogliere il senso fulminante delle sue allusioni nell’attimo stesso della caduta. Ha la struttura e il destino d’una meteora, in quanto è un’idea della realtà , più che la realtà stessa, una forma e un’immagine. Il narratore deve quindi nel giro di poche parole portarsi a quel grado di calore che consente la trasfusione dei poteri, e direi che il suo compito è dop Âpio. Non basta avere l’occhio pronto, occorre avere anche un’altra forma di immediatezza e trovare le parole adatte, le parole che non tradiscono il tempo, non rallentandolo mai. Non per nulla gli inizi di Maupassant costituiscono da questo punto di vista un vero risultato di eccezione e non sono più stati superati. Maupassant vi mette subito a vostro agio, gli basta nulla per mettervi al corrente, e qui non c’è dubbio che debba essergli stata sommamente utile la tradizione del racconto orale. Per conto suo lo scrittore ha creduto opportuno sfrondare, ridurre al minimo e dare per scontata tutta la parte delle premesse. Maupassant entra di colpo nel tema con una domanda implicando il lettore nella storia che sta per raccontare, facendone un testimone attivo. Egli veramente vi chiama in causa e sembra aver concentrato su di voi tutta l’attenzione della possibile pla Âtea. Naturalmente l’uso della novella corta, del racconto gli ha col tempo insegnato a variare in cento modi questi attacchi straordinari, ma qualunque forma adoperasse, il principio dell’invocazione diretta non è mai venuto meno. Del resto soltanto così egli poteva creare l’atmosfera neces Âsaria a escludere qualsiasi altra realtà dalla scena evo Âcata. Prima di tutto chiamare lo spettatore-lettore alla ri Âbalta insieme col fatto che stava per raccontare, e imme Âdiatamente dopo ottenere il silenzio assoluto. Sarà un pro Âcedimento teatrale, ma non dimentichiamo che l’immagine naturale del racconto – proprio per questa sua derivazione orale, – appartiene alla storia del teatro. Ma lo stratta Âgemma non si arresta a questo punto: sulla scena resta il lettore-spettatore e il fatto di cronaca intorno al quale si sono raccolte le luci di tutti i riflettori, e verrebbe fatto di dire che a questo punto lo scrittore ha finito il suo compito. Ed è invece in quel momento che comincia la sua opera. Intanto lo scrittore non si mette mai in mostra, difficilmente sentirete la sua voce, gli stessi commenti sono ridotti all’osso, e apparentemente è sempre il fatto che domina la scena. Lo scrittore resta nascosto e muove i personaggi, ma non deve farsene accorgere, anzi deve dare l’impressione di annullarsi di fronte allo spettacolo in corso. Il punto vivo da conquistare è questo senso della recitazione libera e che nessuno può più fermare. Così all’attenzione eccitata del lettore corrisponde il movimento della favola che corre al suo destino, nel più breve tempo possibile. Su questo tronco gli scrittori che hanno letto Maupassant hanno inne Âstato infiniti rami, a volte hanno potuto operare delle correzioni che hanno dato delle piante inedite e sconosciute al libro della botanica narrativa. E allora, dove si coglie il senso vero di Maupassant, dove si può conoscere il timbro della sua voce? La domanda ha una base assai solida, anche perché da quello che finora abbiamo detto si poteva pensare che tanta abilità portasse all’esclusione della sua persona e quindi all’annullamento dei suoi interventi. No, gli interventi ci sono e sono estremamente sensibili; a co Âminciare dalla voce che rispecchia tanto da vicino il modo di concepire l’esistenza che era il suo. Ogni volta che prende a raccontare si scopre in Maupassant un tipico atteggia Âmento della sua psicologia, quello di far la voce grossa o di apparire più forte di quel che in realtà non fosse. E forse non si sbaglia se all’origine di questo suo comportamento leggiamo ancora una volta il nome di Flaubert. Contemplare, sì, deve essersi detto il narratore, ma restare padrone della propria voce, non accettare mai la spersona Âlizzazione. Tanto più che questa coscienza dei suoi diritti ha ottenuto come primo risultato quello di lasciare Maupassant con la sensazione finale di dominare il fatto di cro Ânaca e, con il fatto raccontato, di poter disporre di un giudizio finale. Un giudizio che, comunque, non diventa mai negativo o, se da l’impressione di esserlo, viene condi Âviso per primo dallo stesso scrittore: alla fine d’ogni rac Âconto, anche quando il lettore crede di assistere a una rap Âpresentazione di costume, il fatto viene ricondotto su una scena generale ed è il genere umano a farne le spese. Di qui l’impressione che i personaggi siano delle vittime, anche se vittime cieche, vale a dire non dotate di vera autonomia. Il mondo condannato di Maupassant ha dei confini ben pre Âcisi e risponde a un destino senza possibilità alcuna di ridu Âzione; non c’è scampo, tutti corriamo, – nelle lacrime o nei riflessi della commedia, – alla terra, siamo affascinati dalla morte e dal nulla. L’idea di « passaggio » è un’idea centrale di Maupassant, anche se nella definizione non si trova nessuna traccia di cristianesimo. Il cristiano deve ri Âcordare di essere sulla terra di passaggio e questa memoria gli dovrebbe servire di regola: il personaggio maupassantiano ne è la riprova ma non ne ha coscienza. Nel momento in cui sta in scena da al contrario la sensazione di cre Âdere alla eternità , quindi crede ai suoi abiti, alle sue funzioni, accetta di entrare liberamente nel giuoco delle pas Âsioni umane. Ma per ogni passo che egli crede di muovere nella più assoluta libertà c’è il controcanto del destino: sol Âtanto lo scrittore sa quando scatterà quella molla, e il lettore avvertito lo sa, fino al punto di esserne affascinato ma, ciò nonostante, nel corso della rappresentazione crede alla fin Âzione, fa parte anche lui dello spettacolo. Di tutto il teatro straordinario che Maupassant mette in moto dobbiamo dire che soltanto lui, il narratore, quello che apparentemente sposa il corso della realtà , non crede alla durata della rappresentazione e in un certo senso neppure allo spettacolo di cenere che suscita. Questa convinzione fa sì che il Maupassant resti per molti anni disponibile di fronte alla realtà , un mostruoso lettore di cronaca. Gli attori si moltiplicano al Âl’infinito si cambiano le parti, si muovono sul deserto di fondo che è l’esistenza umana, ma nessuno ha la forza di incidenza necessaria per restare e durare. In lui il termine di « commedia » acquista un significato ridotto rispetto alle grandi ambizioni di Balzac, e se quel teatro poteva godere di tempi molto larghi, classici per Maupassant la vita dura un’ora, non ha conseguenze, non fa storia. Naturalmente queste concezioni non si hanno senza pa Âgare un certo scotto, e chissà che la perfezione raggiunta da Maupassant nell’eseguire i suoi pezzi brevissimi di teatro quotidiano non dipenda anche dai limiti posti al suo lavoro. Non per nulla il narratore, lo scrittore di racconti precede il romanziere, e non basta a spiegarci la trasformazione il fatto che a suggerirgli questo allargamento sia stato il Taine. Vogliamo dire che lo scrittore arrivato a un certo punto di questa moltiplicazione all’infinito di possibilità umane deve avere avvertito che non ci sarebbe mai stato un ordine in questo giuoco di molecole e che la dimostra Âzione del destino non poteva non diventare meccanica. Si ba Âdi, per un attimo, alla forza limitata dei suoi titoli: lo scrit Âtore in partenza tiene a mettere bene in chiaro i suoi propo Âsiti e per questo si presenta come un esecutore a termine, co Âme uno che crede alla religione bruciata della cronaca. Pro Âprio come fa il lettore di giornale quando mette l’occhio sulla pagina degli avvenimenti minuscoli e immediata Âmente si ritaglia una vacanza nel giuoco dei suoi interessi, allo stesso modo il Maupassant, di fronte al fiume dei casi che la vita gli sottopone, si limita a scegliere e a presentare. Non di più, e per questo non da mai un senso superiore alla rappresentazione in se stessa, caso mai sposta il suo gioco sull’abilità e sulla capacità di consenso e di partecipazione dal di fuori. Quante volte non sentiamo la sua voce vera accompagnare le gesta minuscole dei suoi personaggi, quan Âte volte non siamo portati a credere a una partecipazione effettiva : ma andate sotto le cose, vedete come si comporta veramente e avrete la prova del suo distacco di fondo. Maupassant, quando racconta, si immedesima nella favola che ha strappato alla realtà , ma non mai al punto di rica Âvarne una morale o una lezione qualunque. Egli è con Âvinto al contrario che i suoi gesti durano quel tanto che è sufficiente alla soluzione della commedia, ma che a nessuno è concesso di servirsene né di interpretarli. Di qui certi toni sostenuti, certe sue risate, certe battute che appar Âtengono alla storia grossa di chi racconta qualcosa a voce; sembrano avere un peso o oltrepassare i limiti di chi si rac Âconta qualcosa ma non è così, tutto è fatto, – caso mai, – per sottrarsi al tempo dei confronti ultimi e decisivi e ha il carattere di congedo. Un congedo relativo, perché ogni volta che Maupassant chiude una storia, mette bene in chiaro la continuità della sua presenza. Anche se non crede alla traducibilità dei fatti in esempi, alla trasformazione della realtà in moralità , egli pur sempre crede alla presenza assoluta delle cose e degli uomini che accompa Âgnano la nostra vita. Se sottintende l’inutilità della com Âmedia umana per questo non ne misura affatto la sua per Âsistenza, la sua inalterabile recitazione. A volte si pensa che proprio grazie a questa fede nella realtà egli arrivi a sfiorare una specie di pietà per gli uomini o, per lo meno di sguardo bagnato di pietà , di umiltà . Eppure non man Âcano esempi di spietatezza e di crudeltà proprio in questo Maupassant dei racconti e delle novelle, ma le volte che affonda con più coraggio il coltello nel male e sembra voler accusare il nero gorgo della coscienza umana da invece l’impressione di trovare un ostacolo insuperabile. In questi casi, Maupassant non ha più parole e fa a meno di spiegazioni psicologiche o di ragioni sociali. Non si dice nulla di nuovo riportando alla luce la capa Âcità critica di Maupassant: da molto tempo ormai si va infatti con maggior cautela nel fare di questi processi a uno scrittore che ha voluto dimostrare, anche in questo campo, una certa sobrietà . Del resto è proprio questo con Âtrollo, questa misura di propositi e di ambizioni a fornirci delle preziose conferme su quella che a nostro avviso resta la dote maggiore del narratore; il non perdersi nei parti Âcolari, quando i particolari non siano dei ponti indispen Âsabili del discorso, e l’affrontare di petto i problemi, i temi, la materia stessa della vita. Non per nulla, – e questo va detto senza tener conto delle componenti della malattia e del decadimento psichico dello scrittore, – tutta l’opera del Maupassant obbedisce a una sola vocazione. A volte di fronte alla ricchezza della materia, al numero senza fine delle suggestioni il lettore potrebbe essere indotto nella ten Âtazione di credere a una specie di dispersione e quindi alla impossibilità di stringere e di tenere in mano il filo del racconto stesso della vita, ma deve essere proprio la fedeltà delle soluzioni, il blocco finale delle sue storie a farci cre Âdere in un’unica direzione, in una sola volontà . Anche per Âché se noi facciamo astrazione da questo dato, siamo co Âstretti a vedere il Maupassant soltanto come un esecutore a freddo su un piano pratico come un semplice produttore di letteratura per il grosso pubblico. È invece vero il contra Ârio: Maupassant è estremamente parco per quello che ri Âguarda la natura e la storia della sua poetica, è diffidente quando deve parlare di teorie e di dottrine letterarie, è insofferente di fronte all’orchestrazione regolata della scuola naturalista, ma ha una visione netta, chiara di quello che è il suo lavoro. E questa chiarezza è frutto di una naturale valutazione della realtà , dal momento che egli ha stabilito l’assoluta necessità di far consistere il senso fulminante della realtà in un giuoco di difficilissimi equilibri. In questo egli si distingue dagli scrittori che lo hanno preceduto, come da quelli che hanno lavorato con lui. Gli stessi grandi profeti della realtà , dico Balzac e Stendhal, hanno affron Âtato questo problema nel corso di diverse e contrastanti ricerche, e i risultati che hanno ottenuto appartengono non alle loro prime prove, ma alle grandi stagioni della maturità . Flaubert che ha sempre bruciati incensi sull’altare della realtà , ha reso per conto suo ancora più difficile la strada e il processo d’avvicinamento: per lui la realtà era un og Âgetto da inserire nel corso di una storia raccontata e quindi i suoi testi erano compositi e suscettibili di infinite aggiunte. Maupassant abbandona completamente questi schemi e giuoca a carte scoperte, compone in un senso solo, senza compromessi fra quelli che sono i suoi ideali e i suoi programmi, magari a patto di restare o di perdersi nella cro Ânaca. Ma ecco che proprio su questo punto va registrata una delle sue grandi vittorie. Maupassant non resta som Âmerso o travolto dalle correnti di vita che intende ripren Âdere, per questo la sua autonomia ha il sapore della forza, della resistenza. Senza aggiungere che iniziando questa let Âtura del mondo, per primo metteva il narratore fuori delle tentazioni e dei pericoli delle speculazioni psicologiche. Purtroppo la sua lezione non ha avuto in Francia quella eco che sarebbe stata augurabile, e stupisce che a capire Maupassant siano stati scrittori d’altri paesi e di diversa formazione. Ma c’è una ragione profonda per spiegarci il successo del narratore in America e per capire in che senso la sua lezione sia stata ripresa e allargata. I lettori del suo paese hanno preferito seguire le complicazioni psicologiche di un Bourget, cedendo alla suggestione dello scenario e all’idea di una maggiore completezza di quadro, e si può anche ammettere che nelle intenzioni di Bourget aveva un suo posto quel bisogno di rompere la stretta naturalista e di adoperare altre armi di conoscenza. Probabilmente l’illusione era data dal fatto che allo scrittore era assegnato il compito di interpretare il proprio tempo, il lettore della realtà doveva essere prima di tutto un lettore della storia. Sono stati forse proprio questi due termini contrapposti a ridurre l’eco del lavoro di Maupassant. Zola, Bourget, lo stesso France lavoravano per la storia, mentre Maupassant veniva relegato nella cronaca. Non più una questione di restituzione né di intensità , soltanto una questione di pro Âpositi, di teorie. Anche perché c’è una precisa corrispondenza fra perso Ânaggi e senso della storia. Spesso il lettore ha l’impressione di avere a che fare con un’unica massa di motivi o, meglio ancora, con un movimento solo che lo scrittore favorisce ih i  ottenere quel ritmo particolare che distingue la sua visione artistica. Da questo punto di vista, i mezzi di cui m serve il narratore sono estremamente semplici e tutto è impiegato per ottenere la partecipazione piena dello spet Âtatore. Per questo non si può dire davvero che il Maupas Âsant sia uno scrittore moderno, nel senso che le nuove tecniche esigono l’intervento attivo del lettore. Maupassant crede alla partecipazione, non alla collaborazione: di qui la sua preoccupazione di dire tutto o almeno quelle cose che egli ritiene necessarie e indispensabili a stabilire un ideale verbale del fatto. È, – come abbiamo già detto tante volte, – il fatto a richiamare su di sé tutte le luci disponi Âbili, al punto che gli stessi personaggi – per quanto forti e prepotenti essi siano, – quasi scompaiono nel corso della rappresentazione. E qui riscontriamo appunto uno dei mo Âtivi centrali dello scrittore, quello di restare fedele a una economia chiusa del racconto. Nessuna evasione, nessuna amplificazione marginale, tutto deve restare compatto nell’ambito della costruzione. Se ci fosse consentito di servirci di un’immagine dovremmo davvero dire che il Maupassant è stato il primo ad adoperare la tecnica del cemento ar Âmato. Le sue strutture sono lineari e ogni movimento è calcolato per quello che può dare, per il suo significato immediato. Chi legge ha molte volte la sensazione di assi Âstere a una operazione matematica:   lo scrittore non di Âchiara il teorema, ma si mette subito all’opera, elencando quelli che diventeranno i dati del problema. Appena finita la dichiarazione, ci si accorge che l’azione è già comin Âciata e che tutto dipende dalla serie di scatti che porteranno alla soluzione finale. La riprova l’abbiamo al momento delle prime stanchezze di fronte all’esercizio prolungato delle « historiettes », e non per nulla da quel momento allo spirito di sfida si sostituisce lentamente quello dell’angoscia. A forza di battere la testa contro gli ostacoli della realtà , Maupassant conosce finalmente la paura, e non gli ci vorranno molti anni per sentire dentro di sé questa paura crescere e trasformarsi in terrore. Nasce allora uno degli spettacoli più allu Âcinanti di tutta la letteratura. L’artista sente che la preda non è più docile e facile come prima, e che quando gli sfugge subito nell’ombra c’è un’altra figura ma questa volta mostruosa, gigantesca, con la voce alterata. Anche se non è stato il solo naturalista a subire i contraccolpi della realtà , Maupassant è però quello che ha avvertito in maniera più autentica questa seconda presenza delle cose, e a un certo punto ha veduto precipitare il capitale di conoscenze umane che egli riteneva accertabile, in uno stato di confusione e di depressione eccezionali. Non si tratta di scivolamento parziale, di contraddizioni limitate: no, quello che si veri Âfica ai primi colpi della realtà inafferrabile è una trasfor Âmazione totale. Quasi che lo scrittore capisse che non basta prendere la realtà nei suoi primi riflessi, alle sue prime voci, che soprattutto non serve il possesso delle cose, ma che il centro della vita stesse altrove, disposto su un equilibrio che non dipende da noi né dalla nostra abilità , né dal fatto di essersi premunito contro il dolore. Questo capitolo della mitridatizzazione del primo Maupassant che i suoi biografi hanno illustrato con tutto il soccorso delle notizie fornite dalla cronaca del tempo (va raccomandata a questo propo Âsito la stupenda Vita di Maupassant del Morand, apparsa negli anni dell’ultima guerra e che resta un modello insu Âperato del genere e un prezioso ritratto dell’uomo che stiamo studiando), potrebbe più rettamente essere intito Âlato all’illusione che il narratore ha preferito alzare fra il suo cuore e la realtà . La vendemmia che l’uomo e l’artista hanno consumato fino in fondo, con una forza fuori del nor Âmale, potrebbe essere interpretata con moduli diversi da quelli usati di solito a questo proposito. Chissà che la voglia pazza di vedere e prendere che l’ha dominato non fosse in realtà il primo segno della paura e un modo di vin Âcere la paura gettandosi a capofitto fra le cose e gli uomini. Così come il narratore credeva in perfetta buona fede di vincere la realtà aggredendola e restandone però al di fuori, probabilmente anche l’uomo affascinato dallo spet Âtacolo della vita deve aver sperato di passare il fiume dell’esistenza salvando, portando a terra asciutta la propria anima. Se non fosse stato così, le feste, le stagioni pro Âlungate di vendemmia sarebbero avvelenate dal disprezzo, dal desiderio di offendere l’altro, la creatura umana. Ora in Maupassant non c’è né disprezzo né abitudine, c’è sol Âtanto con la volontà di difendersi un senso iniziale di smar Ârimento, una mancanza di calcolo. La sua non è stata una lotta preordinata; per questo, proprio quando pensava di avanzare liberamente nella corrente, tra i vortici, in mare aperto, non si accorgeva di consegnarsi in mano al nemico, di trasformarsi a sua volta in preda. Tutta la parte di pate Âtico che c’è nella sua vicenda, – ed è molta, come si sa, – dipende da questo errore di calcolo, dal fatto di essersi illuso di poter sostenere da solo tutta la responsabilità del Âl’equilibrio. Ora, perché accadesse questo, era necessario che la mano fosse sorretta da un cuore imperturbabile; e qui si svela uno dei suoi segreti : proprio là dove Maupas Âsant fa la voce grossa, alza la voce, si presenta come cam Âpione della imperturbabilità , proprio in quei casi con Âfessa la sua straordinaria fragilità . La sua voce non rico Ânosce né pericoli né insidie d’alcun genere, ma si sente benissimo che il discorso vero si arresta di fronte alla realtà senza risposte. D’altra parte era così onesto da non accettare compromessi, vie marginali, soluzioni parziali. Pensate ancora alla storia dei suoi amici naturalisti, a quello che ha potuto fare Huysmans con lo stratagemma di Des Esseintes e prima ancora con le risorse delle sue visioni di natura surrealistica: pensate a quello che Zola non ha tirato in ballo e messo al fuoco per dare un senso allo spet Âtacolo di una realtà che nei momenti liberi doveva apparir Âgli mostruosa e indomabile. No, Maupassant non cede agli inviti della fantasia, non crede, come si è detto, a teorie di nessun genere, anzi accresce la sua solitudine e col tempo la sua lotta si fa ostinata, caparbia, ed è allora che avverte i limiti della sordità intesa come mezzo di difesa e sente che intorno, sopra e sotto le cose, si moltiplicano le voci inquietanti, le domande, l’angoscioso interrogativo dell’esistenza. Certo, in quel momento lo schema bruciato del racconto, l’immagine fragile della novella devono es Âsergli apparsi in tutta la loro miseria e, da ultimo, non riuscì più a frenare le sue storie su una battuta, ma fu atti Ârato nel gorgo delle domande insistenti, ripetute, delle do Âmande eterne. Non che fosse cambiato lo scenario o che il suo calendario non andasse più d’accordo con quello dei suoi vicini: il curioso è che in un mondo che sembrava destinato a una specie di immobilità eterna, Maupassant sente che ci sono altre cose, altri movimenti, insomma che c’è qualcosa d’altro da osservare e restituire il frutto di questa osservazione nel miglior modo consentito dall’arte. La realtà , – quel suo dio degli inizi, – gli si sbriciola in mano, ma con un’azione inquietante, fino a diventare col tempo tormentosa, disperante. Si dirà che anche la sua prima realtà era disperante, ed è vero, ma lo scrittore si illudeva di poterla bloccare, di tenerla ferma. Tutta l’ultima parte dell’opera di Maupassant è così tenuta dalla trasformazione della realtà . All’amore furioso per la vita si sostituisce, come si è detto, l’ossessione per la morte. Ma qui bisognerebbe vedere quando è cominciato vera Âmente tale disperante passaggio. Con grande probabilità lo scrittore alla fine d’ogni libro e l’uomo al termine d’ogni nuova avventura dovevano già avere avvertito l’inutilità dell’impresa; senonché per arrivare a questo fatale corteg Âgiamento della morte, il Maupassant ha puntato prima su un’altra illusione, quella della follia. Così come da un certo momento ha riconosciuto, nella folla degli uomini che incontrava nella realtà quotidiana e nella folla degli uomini che ricavava dalle sue esperienze e trasferiva sulla pagina gli è risultata una folla di morti, di cadaveri in at Âtesa dell’ultimo scatto per la decomposizione finale, ha sen Âtito che le domande capitali erano inevitabili e che la voce si faceva sempre più vicina, sempre più spietata. I tempi della vicenda, lo sappiamo, sono tempi bruciati, avendo dovuto lo scrittore risolvere col dato dell’intensità il pro Âblema della rapidità delle sue indagini. Per tutte queste ragioni, quando lo storico cerca di fissare su una scena ideale l’avventura dello scrittore, Maupassant non può prescin Âdere dall’altra avventura determinante dell’uomo. La se Âconda parte del suo lavoro è in un certo senso la sconfes Âsione della prima, anche se Maupassant non ha mutato né tempi né mezzi della sua ricerca. La lotta è avvenuta in tutte le occasioni fra l’apparente baldanza dell’uomo e l’insidia delle cose. Maupassant in partenza non ha dubbi, ignora le perplessità della restituzione artistica, essere scrit Âtore per lui vuoi dire soltanto fare un mestiere, farlo me Âglio che si può ma senza andare oltre. I dubbi li avrebbe incontrati in seguito e non già dal punto di vista dell’ese Âcuzione, ma li avrebbe trovati di fronte a un primo bilan Âcio del suo lavoro che intendeva essere soprattutto «ma Ânuale ». Quella zona d’ombra, di dubbi, di grandi domande che con un gesto azzardato aveva scartato dal piano dei suoi studi gli si sarebbe improvvisamente presentata agli occhi, quando aveva già messo insieme un grosso capitale di piccole verità . Se al primo scrittore non restavano dubbi sul naturale comportamento dell’uomo, visto e giudicato come un animale, il secondo avrebbe dovuto conoscere una crisi ben diversa, la crisi che viene direttamente dalla realtà . Forse davanti al rapporto di tutte quelle esperienze, Maupassant deve essersi accorto che non si poteva passare in archivio un materiale che, nonostante tutto, conservava una sua specialissima vitalità . Se veramente il mondo obbe Âdiva alle leggi del teatro, quale senso avevano tante recite particolari, tanti atti minimi? Zola, sollecitato dalla scienza e dalla filosofia, poteva credere che alla base d’ogni nostra azione si dovesse fissare un’interpretazione meccanica. Quel Âla che è stata la Philosophie de bordel di Maupassant, nonostante tutto, conservava una sua autentica ragione, non gio Âcava sulle apparenze e sui riflessi : era una filosofia in blocco. Una volta stabilito questo principio dell’inutilità , nasceva per forza una prima domanda: perché, se tutto è inutile, gli uomini si ostinano a recitare delle storie senza senso? Ora proprio in questa domanda c’è la radice dell’altra po Âsizione determinante dello scrittore: allora siamo dei pazzi? Su questo tema Maupassant ha toccato, – è il caso di dirlo ancora una volta, – i suoi momenti più alti. Momenti che sarebbe ingiusto volere soltanto imputare alla malattia e spiegare con  i progressi  del  suo  decadimento  psichico. Tant’è vero che egli in un primo tempo reagisce a questo bisogno e cerca di risolvere la tentazione dell’irrazionale allargando lo studio della realtà e arrivando perfino alla idea di costruire. Il romanziere non nasce soltanto sulla sponda di una stanchezza del narratore, del lettore di fatti di cronaca; no, nasce dal bisogno di trovare delle soluzioni più larghe e complete alla storia della nostra esistenza. Senonché tale allargamento non ottiene il risultato sperato, lo specchio della solitudine resta intatto anche nel nuovo mondo del romanziere. « La solitude m’emplit d’une angoisse horrible… », ecco dove sta la chiave di tutto Maupas Âsant; perché non gli sono bastati le centinaia di personaggi creati, visti e letti con rapidità fulminea per allontanare dal suo ultimo sguardo il vuoto, la caduta nel vuoto. E al con Âtrario di quanto è stato detto, anche da spiriti critici auto Ârevoli, il risultato finale nel vuoto non è stato mai solleci Âtato dal Maupassant. No, nel suo affondare nel gorgo delle cose senza voce, non c’è mai traccia di partito preso:  al contrario, l’ostinarsi nella vita con tutti i mezzi vuoi dire che sua intenzione era rifiutare qualsiasi ripetizione mecca Ânica del destino. « Je crois a l’anéantissement définitif de chaque être qui disparaît », è un credo a cui non verrà mai meno ma che tuttavia farà scattare quelle domande che da principio si era illuso di non doversi mai porre. Anche qui uno spirito interessato potrebbe scorgere quell’eterno rapporto fra mo Âtivi estremi che ha regolato la vita dell’uomo e l’opera dello scrittore. Ricapitoliamo: alla lucidità , alla limpidità delle prime cose corrispondono la confusione e le domande angosciate della fine. E lo stesso vale per l’uomo: alla sa Âlute della giovinezza risponde la malattia totale, accettata liberamente e neppure come espiazione, termine che per lui non avrebbe alcun senso. E infine, alla coscienza piena, coraggiosa, quasi altezzosa Maupassant avrebbe sosti Âtuito il desiderio di sprofondare nel nulla, nell’indistinto della coscienza. Naturalmente senza riuscirvi; ma che peso hanno certi suoi gridi, che cosa non vogliono dire certe sue confessioni dopo la visita fatta al manicomio di Tunisi. Je m’en vais troublé d’une émotion confuse, plein de pitie peut-être d’envie, pour quelques-uns de ces hallucinés qui contiennent dans cette prison, ignorée d’eux, le rêve trouvé un jour, au fond de la petite pipe bourrée de quelques feuilles jaunes. Guardate le date: la commedia si è tramutata in dramma nel giro di pochi anni. L’occhio limpido e allegro di Boule de suif non ha dovuto aspettare molto per intorbidarsi e scoprirsi sul fondo una inquietudine che nulla al mondo avrebbe potuto placare. Fra queste due date, l’ingresso trion Âfale del 1880 e la pubblicazione nel 1887 di Le Horla, documento premonitore della catastrofe, sta dunque racchiusa una delle avventure palpitanti della letteratura fran Âcese. E a prima vista si potrebbe aggiungere avventura di pochi movimenti, se non si dovesse subito dopo tener conto della purezza di queste operazioni che hanno segnato la trasformazione. Maupassant non ha avuto tempo per fare della letteratura, per servirsene: caso mai, dovremmo dire che l’occhio letterario lo ha portato a passare il limite dell’ombra e del nulla con maggiore coraggio. Allo stesso modo la straordinaria ricchezza della sua capacità di osser Âvazione gli si è a un certo punto tramutata in peso, in causa di impaccio. Di qui la necessità di buttare tutto a mare e di considerare lo stesso lavoro letterario come zavorra, di cui sarebbe stato ingiusto e disonesto tener conto. Guardate pure nella storia del suo tempo, andate fuori di Francia, non ci sono stati altri casi così disperati, così assoluti nella negazione. Eccezion fatta per Mallarmé che, pure nell’ambito del più nero nulla, ha trovato un riscatto nel segno dell’intelligenza assoluta, nessuno ha provato nella carne come Maupassant il richiamo del vuoto, dell’inutile, della condanna immediata e legata a ogni nostro minimo gesto. Questo straordinario evocatore di stati vi Âtali, questo creatore autentico, questo inventore letterario del senso dell’esistenza è stato paralizzato, sin dai suoi primi tentativi, dal gusto della cenere, della corruzione, del sangue che non da vita. Beninteso, questo stato d’animo non lo ha convinto a istruire un vero processo, a chiamare in causa nessuna immagine di Dio, lo ha soltanto portato a scendere in campo contro queste ombre di carne, contro questi eterni simboli del nostro inutile viaggio sulla terra. Mondo fatto di gesti ma negato all’azione, all’idea di pro Âgresso, alla suggestione del riscatto cristiano, a un certo punto è apparso al suo cronista impassibile come il regno della follia che non si interroga, che non è evasione ma soltanto specchio deformante delle nostre illusioni. 1964. Letto 4690 volte.  Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||