LETTERATURA: I MAESTRI: E se rivalutassimo la letteratura?
10 Gennaio 2008
di Geno Pampaloni
[da “Il Mondo” del 30 ottobre 1969]
Si ascoltano di tanto in tanto, nella nostra società letteraria, rintocchi di timbro cimiteria Âle: i giorni sono contati per tutti, i narratori sono i più morti tra i morti, è tempo di salvarci l’anima in qualche « altrove » fuori dalla lette Âratura.
Se lo scrittore è invitato a sentirsi inutile, il critico è il parassita dell’inutilità . Per quanto fastidiose e deprimenti risuonino codeste geremiadi, è il caso di indagare brevemen Âte le cause. Che cosa sta all’origine del ricorren Âte sconforto?
Le insidie che oggi minacciano la vita lette Âraria si possono raggruppare in quattro categorie. La prima, proveniente in genere da sinistra, è quella di chi pretende che l’arte si riduca a ideologia. Partendo da tale ipotesi, se ne de Âduce che: a) la letteratura rientra nell’ideologia del sistema, è mistificazione « integrata » e perciò conservatrice; b) la capacità di conoscenza propria dell’arte è subalterna e può es Âsere efficacemente sostituita dalla conoscenza « scientifica » (sociologica, politica, economica). In questa direzione, i più coerenti arrivano a chiedere che la « critica della letteratura » si trasformi in « critica alla letteratura ». E buona notte.
La seconda insidia, proveniente da destra, è portata dall’idolatria del successo. Si misura la qualità letteraria dalla quantità delle copie vendute. Il giudizio è la tiratura. La prova della verità sta nel successo. L’orchestrazione mon Âdana posta a sostegno di questo scambio è mol Âto potente e si allea nel profondo a tutte le spinte demagogiche da cui la nostra società è sballottata. E’ infatti demagogia ridurre quello che è il naturale compimento dell’opera lettera Âria, il suo necessario carisma di dialogo, cioè la lettura, a « consumo »; ma è altrettanto demagogia, se pure di segno contrario, risalire dalla quantità del consumo al valore.
Una terza insidia è squisitamente professionale, ed è lo snobismo intellettuale per cui lo scrittore in molti casi capeggia la propria resa, presiede il tribunale della propria condanna. La teoria di Maurice Blanchot, per cui l’essenza della letteratura è la sua sparizione, è riecheggiata in infiniti esercizi di raffinatissimo ma Âsochismo. La protesta, talora nobile, contro le ipocrisie dell’ordine, si eccita in una comoda estetica del disordine nella quale condanna e assoluzione si confondono in una generale ambi Âguità .
La  quarta  insidia  infine  nasce  dal  mondo  stesso della cultura (scrittori, editori e soprattutto critici ne sono i complici) e può chiamarsi l’insidia corporativa, per cui uno scrittore, buono o cattivo, per il solo fatto di partecipare a congressi, banchetti e premi letterari sembra avere acquisito il diritto di essere considerato uguale a tutti gli altri. I va Âlori non sono discriminati, le differenze scom Âpaiono, manca il puntiglio della scelta, manca la tendenziosità positiva del giudizio, il rischio dell’errore, e i conti letterari sono fatti, come nelle cene di massa, un tanto a coperto. Da una simile uniformità « democratica » nasce fatalmente  l’indifferenza,  che  è  l’immagine  vera della morte.
Esistono dunque obiettivamente molti ele Âmenti di crisi, che rendono ragione del pessimi Âsmo pronunciato da cui siamo partiti. Eppure, mai come di questi tempi si avrebbe bisogno di scrittori liberi, non frustrati. Viene in mente una pagina molto bella di Mario Soldati, quan Âdo scendeva in bicicletta, a gran velocità , giù per via Veneto, e il pizzardone fascista lo guardava con sospetto, minacciato da quel fresco vento della corsa che era già libertà , provoca Âtoria proprio perché innocente.
Ho sempre pensato alla letteratura come a una simile libertà interiore, determinata e lieve, disciplinata soltanto dalla propria certezza vi Âtale; e ringrazio Dio di essere stato giovane quando quel tipo di apprezzamento fiducioso era naturale viverlo insieme con la speranza. Mi sono abituato ad accogliere un buon libro come un evento amichevole, e a metterlo all’at Âtivo della mia vita. Ingenuità , forse. Ma sono convinto che allo storico di domani la lettera Âtura di questi anni apparirà migliore della so Âcietà letteraria di cui è figlia. Le manca, è vero, una vera capacità di movimento, una linea di ricerca che incida nel tempo i segni di una cultura unitaria.
Generi e forme letterari sono incalzati da un lato da una sempre più invadente necessità di espressione, dall’altro lato dai contenuti imposti da una società che travolge vertiginosamente i suoi schemi. Se i figli si rivoltano ai padri, nello stesso istante i padri di continuo divorano i figli. La nostra civiltà è insieme edipica e saturnina. E in un tale trambusto, che in Italia coinvolge e fa rimbombare antiche sacche di provincialismo, non è possibile che la letteratura conservi una sua armonica ca Âdenza. Ma l’eclettismo, lo svettare capriccioso e individualistico dei nostri scrittori dal pano Ârama di una cultura incerta nei suoi valori è, in concreto, ricchezza.
L’anno letterario si è aperto poco fa con il romanzo-poema lasciato incompiuto da Elio Vittorini: alto esempio di « impotenza procu Ârata » di uno scrittore che ha optato per l’ideologia nemica della propria arte, ma anche, nelle ormai famose « cento pagine », raggiunta poesia. E chi vada a cercare notizie presso gli editori, saprà che scrittori come la Manzini, Landolfi, Piovene, Cassola, d’Arrigo, Cancogni, annuncia Âno nuovi libri, e anche di Gadda leggeremo pagine inedite. Da ciascuno di essi ci aspettia Âmo che ci riveli qualche nuovo frammento del nostro tempo, di noi, e del suo segreto umano.
Mi sia concesso di insistere sulla vecchia, dileggiata parola di « umanità ». Perché (e forse questa è la quinta, più sottile insidia contro la letteratura) se a qualcuno sembra lecito, sulla scia strutturalista, mettere da parte l’autore per considerare soltanto l’« opera » nell’oggettualità della sua struttura, io sto ancora con il poeta, per cui l’artista è « un modo di essere, non un modo di fare ».
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