Libri, leggende, informazioni sulla città di LuccaBenvenutoWelcome
 
Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

STORIA: I MAESTRI: Dante e Bonifacio

9 Maggio 2008

 di Mario Tobino
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 29 maggio 1968]
Come è noto, due furono le grandi passioni letterarie di Mario Tobino: Dante e Machiavelli. “Biondo era è bello” è il libro che ha dedicato a Dante, uscito nel 1974. Esso accoglie nel capitolo VII, con qualche leggera variante, il presente elzeviro. (bdm)

Era un uomo altissimo, di statura superiore. Arnolfo di cambio lo ritrae con in testa la mitra che corre su, anche lei, verso il cielo. Lo ritrae sul trono seduto. Eppure ancora meglio si immagina come sarà quando si mette in piedi. Sporgono dal trono le appuntite ginocchia.
Il volto   deciso,   un   avido che non si leva mai la fame. La Chiesa aveva il vento in poppa e lui ne approfittava. Nel trecento si credeva in Dio, nel purgatorio, nel pontefice, nell’inferno. Una     scomunica avvelenava, bruciava. Bonifacio poteva tutto e accumulava per sé e i Caetani.
All’apice del trionfo, era solito riunire gli imporporati cortigiani in una grande stanza. La porta si apriva e lui, il Papa, Bonifacio, si avanzava, non col gran manto ma vestito da imperatore, la corona imperiale calcata in testa, nella mano stretta la spada, e, come fosse il   Duce, chiedeva:
– Oltre   che     Papa,     sono imperatore?
– Sì – rispondevano   inchinandosi i porporati.
– Sono il successore dei Cesari,  il re dei re?
– Sì – tremulava la   pa ­vida voce del coro.
Si considerava Dio sulla terra e, logicamente – maestro di diritto canonico – gli imperatori, i re, i principi, si dovevano inginocchiare con assoluta umiltà davanti a lui, offrirgli tutto ciò che possedevano.
Insaziabile per sé e i suoi Caetani.     Implacabile   nemico dell’altra famiglia   romana,   i Colonna, che sognava ridurre sul lastrico, sterminare.
Il suo piacere è la sua legge e trova chi lo serve.

*

Chi è talmente avido e superbo ha segrete debolezze. Infatti Bonifacio è superstizioso, stringe nelle palme gli amuleti, al dito porta un anello capace di magìa. Si vanta di essere un razionalista alla Averroè, ma tiene nascosta dietro una tenda, vicino al trono, una statua protettrice e non si contano le corna di serpenti che manovra contro il veleno, come usano gli egiziani.
Formicola di suggestioni pa ­trie ed è scatenato a ingrandire la sua famiglia e la materia della Chiesa.
In quel 1301 Bonifacio era al massimo della signoria. Soltanto i   fiorentini   c’erano   rimasti a infastidire, a resistere alle sue grinfie, a voler essere indipendenti, parlare   di «Ordinamenti   di   giustizia », combattere i privilegi, i magnati, amare la libertà del Comune. Solo quei Guelfi bianchi – adesso al potere – si permettono   di   rispondere   di no alle sue ingiunzioni.
Però il fiorentino barone Corso Donati è venuto segretamente a Roma a offrire il suo braccio, pronto a vendere Firenze al papa. Non ha pregiudizi, è un magnate, bolle contro quei democratici, ed è ardito, ama i piaceri, la prepotenza ed anche la guerra, è un valoroso come si vide a Campaldino. E’ un uomo del suo tempo, non nelle nuvole come i reggitori del Comune di Firenze.
Bonifacio continua a bussare, minacciare, esigere dai priori ubbidienza anzi servitù. I priori resistono e il più infiammato per la libertà, per la legge al di sopra delle fazioni, per la giustizia, contro le lotte fratricide, per una sua ideale Chiesa, è Dante Alighieri. Ogni giorno nei comizi raduna, incoraggia, accende la fede. Ma il papa è potente;   l’esercito francese è in Italia ed è pronto ad accoppiarsi con lui. Chi comanda le truppe è il principe   Carlo di Valois, avido d’oro;   e Firenze ne è ben fornita.
Le ore per il Comune si tingono di scuro. Riusciranno i priori   a     difendere   l’indipendenza?

*

Per tentar di calmare Bonifacio i fiorentini mandano a Roma tre ambasciatori che rassicurino il papa sul loro ardore religioso e insieme si adoperino per conservar libera la città, lo preghino che non sia invasa  da  un  esercito straniero.
Gli ambasciatori sono Maso Minerbetti, Guido Ubaldini e Dante Alighieri.
Il viaggio è stato lungo e silenzioso per i tanti interrogativi.
Il pontefice in quanto tale non dovrebbe essere contro di loro, severi di costumi, giusti davanti a tutti, cristiani, contro le fazioni, le lotte fratricide. Ma è arrivata voce della libidine di Bonifacio, tutto per la sua famiglia e superbo, travolto da improvvisa e selvaggia collera.   Si     racconta   che abbia     ferocemente     insultato un fraticello che gli si era inginocchiato     davanti     per   comunicarsi. « Ti riconosco. Vattene! Sei un alleato della famiglia   Colonna ».
E poi ci sono i banchieri fiorentini, padroni dell’industria e dei commerci. A loro interessano gli affari negli stati della Chiesa, assecondare le mire del papa, andarci d’accordo, non la libertà, non «gli ordinamenti di giustizia ».
Bonifacio riceve gli amba ­sciatori. Macché collerico! Sor ­ride, promette; ed ha una luce strana come covasse un pia ­cevole interno pensiero.
Il tradimento è già in cor ­so. Bonifacio ha dato via li ­bera a Carlo di Valois. L’e ­sercito francese entrerà in Fi ­renze e vi farà gozzoviglia. I Neri saliranno in Comune e offriranno Firenze alle voglie di Bonifacio e dei Caetani.
Il     pontefice     rassicura     gli ambasciatori, stiano tranquilli, tornino a casa, non ac ­cadrà nulla. Dante è bene ri ­manga, per intendersi su qualche particolare. Gli altri ambasciatori rivadano in pace.
Bonifacio sa che l’Alighieri è colui che infiamma i comizi, un francescano, illumina le anime, appassionato di giustizia. È prudente trattenerlo. Rientrato a Firenze, all’avvicinarsi di Valois, potrebbe sferzare all’ardire, gridare alle armi, salvare il Comune.

*

Comincia la tormenta. Dante è rimasto solo a Roma. Finora la lotta politica lo ha te ­nuto occupato. La speranza di uno stato ideale, la legge superiore alle fazioni, il sogno di libertà e giustizia, lo han ­no distornato dalle comuni vicende.
Nelle prime ore, intorno non ha nessuno. Unica compagna la fantasia. A Firenze ci sono i suoi piccoli e la moglie, la ­sciati in balìa dei nemici.
Un poeta deve soffrire due volte: prima quando imma ­gina e poi quando la immagi ­nazione si fa carne.
Ore interminabili queste di Roma, che ritorneranno in tanti versi del poema.
I rappresentanti dei ban ­chieri fiorentini hanno sul vol ­to la stessa luce obliqua di Bonifacio.
Entrerà a Firenze l’esercito francese? Consegnerà il Comu ­ne ai Neri, alla parte selvag ­gia?
E’ distante Firenze da Ro ­ma, ma frustando i cavalli, più spesso cambiandoli, le notizie arrivano presto. Sono dapprima avvolte dal fumo; poi nette, vergate con l’inchio ­stro nero.
I francesi sono entrati. Cor ­so Donati a cavallo, alla te ­sta di una avvinazzata schie ­ra, ha dato l’avvio ai delitti, alle depredazioni, agli incendi.
Dante si rappresenta tutto, i Bianchi insanguinati nei lo ­ro letti, vecchi in fuga, le ca ­se depredate, ode i pianti del ­le donne, i gemiti degli in ­fanti, la bestiale voce degli stupratori. E i suoi bambini? sua moglie? Inamovibili, lim ­pide, violente, gli appaiono le scene.
Presto arriverà la notizia del processo, accusato di essere ladro, raggiratore, ignobile cittadino.

*

Che è successo in quel fata ­le anno della nostra storia, nel 1301, negli ultimi giorni di quell’anno?
Lasciamo stare il nuovo po ­destà, Cante dei Gabrielli da Gubbio, che firma la condan ­na e ordina al battitore di gridare per le strade dell’amata città l’infamia contro Dante. Quello è il burattino di una tragica vicenda.
Ma Bonifacio VIII? Lui è il Papa e manda in esilio Dan ­te Alighieri, il nostro poeta. Accordandosi con Carlo di Va ­lois, con i Neri, condanna Dante a non vedere mai più Firenze, mai più il suo bel San Giovanni.
Gli era capitato di avere Dante davanti a sé, la fortu ­na, la gloria di parlargli, rice ­verne consiglio, e non avverte, non indovina, non sospetta, non usa neppure prudenza. Solo avvinto dalla superbia e dalla ingordigia, solo lieto del ­la sua astuzia.
Aveva davanti il viso di Dante, che pur doveva tra ­sparire una luce, il riverbero di una fiamma, e si limita a fare delle promesse che già sa di non mantenere.
L’unica scusa che potrebbe accampare – quanto da po ­co – è l’imprevedibile. Un grande poeta è un cataclisma che non si può prevedere, un fenomeno inarrestabile che dura nei secoli e, più trascor ­re il tempo, con maggiore dolcezza convince e conquista sia i cuori semplici che le ani ­me elette. Possiede la serena folgore della giustizia, illumi ­na la verità, svela i peccati, le vergogne. E, certamente, mentre è in vita, difficile scoprire che lo si ha davanti, arduo indovinarlo, prevedere quel cataclisma.
Sì, imprevedibile. Però lui era il Papa. I tre ambascia ­tori fiorentini non gli chiedevano di prodigarsi per il be ­ne, gli domandavano soltanto di non fare il male.
E lui, non solo non fa nem ­meno il minimo del suo dove ­re, ma cura così poco i suoi interessi – è così sprovveduto, così cieco – che da sé si bolla con un sigillo infuocato che tutt’oggi continua a friggere la sua carne.


Letto 3138 volte.


Nessun commento

No comments yet.

RSS feed for comments on this post.

Sorry, the comment form is closed at this time.

A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart