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LETTERATURA: I racconti del dottore: Il monastero di suor Angelica

1 Novembre 2007

di Dino La Selva


[Da “Lo specchietto retrovisore” Ed . Guido Milano. Milano 1986]

Sono le nove di una limpida e fredda sera di febbraio; in automobile sto macinando la strada che conduce al Monastero delle Agostiniane di Vicopelago, a circa tre chilometri da Lucca, sperando che sia l’ultima visita di questa laboriosa giornata.

Le strade sono ormai semideserte dopo la “bagarre” del rientro serale. Il Viale San Concordio, intasato dal traffico a tutte le ore del giorno, sembra quasi ritornato una tranquilla strada maestra d’altri tempi: qualche auto ritardataria, fiochi e radi lampioni.
    Appena superato Pontetetto e imboccato a destra il bivio per Vicopelago il buio diventa completo. I fari della macchina illuminano ancora qualche fabbrica, qualche capannone; poi la campagna invernale mi viene incontro e mi circonda col suo silenzio e la sua solitudine totali, assoluti. Alberi spogli, campi nudi, qualche casetta dalle luci spente. Una strana sensazione mi colpisce. E’ come se la mia automobile procedesse a ritroso nel tempo, verso un mondo remoto e tranquillo ormai scomparso. Ed ecco laggiù, come nelle nostre fiabe di bambini, un fioco lampione che illumina un alto muro giallo, bucherellato da tante finestre quadrate tutte uguali. Posteggio la macchina e scendo rabbrividendo nell’aria fredda e ventosa. A fianco al cancello, sempre aperto, un pezzetto di lamiera dipinto di nero con su scritto a mano con la vernice bianca: MONASTERO DELLE MONACHE AGOSTINIANE. Dopo il cancello, un cortiletto in discesa lastricato di antiche selci irregolari, e in fondo il piccolo ma robusto portone. Suono e rimango pazientemente in attesa. Da dove sono intravedo il campanile della chiesa di Vicopelago, seminascosto da un vecchio abete, e un quarto di luna che ammicca, bianca, spettrale, dietro gli oscillanti rami nudi di un tiglio. “Quelle donne! Una volta, molti anni fa, ce n’erano tante, una trentina – mi ha spiegato un contadino del paese -. C’era anche la suora portinaia che apriva subito il portone! Poi si sono ammalate, gli è presa la morìa… e sono rimaste in poche!” Sembrava che parlasse di galline invece che di suore.
    Finalmente il portone si apre con uno scatto ed entro nella stanzetta fredda e spoglia che fa da anticamera. Nulla è cambiato da quando vi entrai per la prima volta, forse venti anni fa: la stessa ruota di legno con la piccola grata, il portafiori di ferro battuto, il tavolinetto con la rivistine religiosa, il quadro, dipinto alla buona, di Sant’Agostino con la tiara e i paramenti bianchi da vescovo che regge in mano un libro aperto su cui è scritto a stampatello: “De Trinitate”. Un passo affrettato, uno spioncino che si apre e una monastica voce femminile che dice: “Sia lodato Gesù Cristo!”   “Buonasera, suora, sono il dottore” “Oh, il dottore! – esclama la voce lieta e sommessa – Chiamo subito la Madre”.    

Ora sono finalmente in Convento, in una vasta, altissima stanza grigia, spoglia, fredda. Su una parete, un immenso dipinto molto sciupato, di stile barocco, che rappresenta l’estasi di una Santa. “Oh, dottore! Poverino, sempre in giro a quest’ora!” accorre la Madre. Io mi schermisco; non è ancora tanto tardi per le mie abitudini, e non mi sento poi tanto “poverino”. Seguo la Madre che mi precede per gelidi corridoi semibui, svelta come una ragazzina nonostante i suoi anni.
    Le prime volte, al mio passaggio, mi capitava di intravedere la fuga di una nera tonaca svolazzante che scompariva entro una porta precipitosamente richiusa. Ora non più: mi sorridono gentilmente mentre continuano le loro occupazioni. Passo accanto alla cucina: odore di verdure lesse e di umile minestrina. La madre mi precede svelta su per una larga scala di pietra grigia.
    Nella piccola cella imbiancata a calce, un tavolino, un inginocchiatoio, un crocifisso ed un lettino di ferro dipinto di bianco con dentro la suora malata. Un’altra le fa da infermiera. “Parlavamo della santità, della dedizione completa a Dio, alla sua volontà!”   “E’ molto difficile!” – sospira la suora ammalata.
    Dopo la visita ridiscendiamo a pianterreno, in una saletta semplice ma accogliente, tenuta nell’ordine e nella pulizia   assolute che è rigido costume delle suore. C’è qualcosa di soprannaturale in questo loro ordine, qualcosa di prossimo alla divina perfezione. Sono quasi tutte lì ad aspettarmi: “Oh! Buonasera, signor dottore!”   “Buonasera, suore!”   “Dottore, noi non siamo suore, siamo monache!” mi corresse una volta la più anziana di loro. Ma ci deve essere un po’ di confusione in proposito perché fra di loro si chiamano suore, e così continuerò a chiamarle: suor Maria, suor Rita, suor Chiara, suor Candida, nomi che odorano di semplicità, di santità, di bucato. Mi offrono un caffè, servito in maniera angelica. Una volta mi raccontarono che un mio predecessore soleva dire: del caffè delle suore se ne può bere quanto se ne vuole tanto è leggero! Ma questo è discreto; mi sembra che abbiano imparato a farlo.
   

Come al solito do inizio al mio piccolo ambulatorio. Controllo pressioni, faccio rapide visite, ascolto mali veri o immaginari, do consigli, prescrivo medicine. Visito anche suor Paolina, la Madre anziana, ormai 84enne, che ha   conosciuto Giacomo Puccini. “Povero signor dottore, quanto da fare le diamo!.., lo ricordiamo sempre nelle nostre preghiere!” Ai tempi di Puccini suor Paolina era una giovane conversa, incaricata di assistere e di fare da infermiera alla suora sorella del Maestro, già anziana e dalla salute malferma. “In questa stanza, là in fondo, c’era il piano; era a rotelle e quando il Maestro veniva a trovare la sorella lo spingevamo in loggia.” La loggia è lì a fianco, una stanza molto alta e vasta che si apre sul chiostro. “Puccini si metteva al piano, e voleva che noi suore giovani, che eravamo in cinque, ci mettessimo attorno a lui  e lo accompagnassimo col canto. A me diceva: “Peccato che tu sia stonata come un asino!” Suonando canticchiava. Si faceva musica sacra, ma ogni tanto il Maestro, continuando a canticchiare, sconfinava nel genere profano. Allora la sorella che gli sedeva a fianco ed era anche lei molto esperta, era professoressa di musica, lo tirava per la giacchetta e gli diceva a voce bassa ma decisa: “Giacomo! Ricorda che qui non siamo nel mondo, siamo in un Monastero!” “Allora è qui, in questo Monastero, che Puccini ha avuto l’ispirazione per la sua ‘Suor Angelica!'”   La Madre fa cenno di no col capo: “L’hanno detto ma non è vero. Può darsi che dalle sue visite abbia tratto qualche idea, qualche spunto, ma nient’altro”. “Ah! Io credevo che la sorella del Maestro fosse suor Angelica!” “No – interviene suor Paolina -,   la sorella di Puccini era di parecchio più anziana di lui e già malata. C’era una suora giovane che si chiamava Angelica. Era molto bella!
    Suor Paolina continua, sull’onda dei ricordi: “Finito di suonare prendeva noi suore giovani e si faceva accompagnare per una passeggiatina sul vialetto fino in fondo all’orto. Gli piaceva scherzare, ci prendeva in giro, rideva volentieri. Quando tornavamo si sedeva su una sedia nel Chiostro e vi rimaneva a lungo, le gambe accavallate ed il sigaro in bocca: “Sorelle, che pace avete qui! – diceva – Com’è lontano di qui il mondo! Come mi piacerebbe restare!”    

La notte che la sorella di Puccini morì io ero con lei, e l’assistetti fino alla fine. Il Maestro non c’era. Sentendo che stava peggiorando volle scrivere una lettera per il fratello. “Mio amato fratello – scrisse – non ti rivedrò più su questa terra. Ma ti lascio questo ammonimento. Voglio che tu cambi la tua vita frivola e corrotta, che tu lasci il peccato! Se tu continuerai a vivere così, io non potrò vederti mai più; se tu verrai sulla via del bene, io ti aspetterò e ti vedrò per sempre in Paradiso.” Morì durante la notte. Puccini arrivò dopo due o tre ore, il mattino seguente. Entrò nella stanza della morta e vide sul comodino la lettera che gli aveva lasciato. L’aperse e si volse verso la finestra per leggerla. Allora, avesse visto quest’omo!… Cominciò a piangere e a singhiozzare, ma così accorato, così disperato, che io non ho mai più visto   piangere nessuno così… Noi si cercava di fargli animo: su, Maestro, gli si diceva, non faccia così, si faccia coraggio! E’ Dio che l’ha voluto, sua sorella ora la guarda dal Paradiso! Ma lui, voltandoci le spalle, continuava a piangere e a singhiozzare senza cessare un istante. E noi ci guardavamo in faccia desolate perché nessuna era capace di calmarlo, di far cessare quel pianto.”
      Ormai le mie visite son finite e mi preparo ad accomiatarmi. La Madre mi porge un vassoietto di biscottini fatti da loro, confezionati con la solita grazia e perfezione monacali. “Povero signor dottore! Come le abbiamo fatto far tardi. Anche sua moglie, aspettarlo così a lungo, poverina! Dio le renderà merito; noi la ricordiamo sempre nelle nostre preghiere!” Esco di nuovo nella fredda notte di febbraio; il vento agita ancora i rami nudi del tiglio, la luna invece è coperta da nuvole nere. Risalgo in macchina e mi avvio finalmente verso casa. Guidando ripenso alle monachine di Vicopelago, alla musica di Puccini, al suo pianto impotente e accorato, a questo senso di rasserenante calma che mi pervade dopo la faticosa giornata. E mi sorprendo a pensare che veramente potrebbe esserci qualcosa di miracoloso nelle loro umili preghiere.

   


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Bart