I sondaggi fanno tremare i partiti. Lo scenario di una valanga grillina22 Febbraio 2013 di Maria Teresa Meli ROMA – Si fanno ma non si dicono. E si sfornano in continuazione. Tre alla settimana, almeno per quanto riguarda il centrosinistra. E raccontano tutti – punto in percentuale in più, punto in percentuale in meno – la stessa storia. Grillo è in salita, costante e, apparentemente, inarrestabile. Il Movimento 5 Stelle si è piazzato al secondo posto, giusto dietro il Partito democratico. La forbice tra le due forze politiche è ampia. E non colmabile, ma i dati rivelano che mentre il trend del Pd tende al ribasso, quello dei grillini, al contrario, è in rialzo. Peccato che questi numeri non siano, almeno al momento, una sicurezza. I sondaggi infatti raccontano che nelle regioni chiave i montiani arrancano e non riescono a sottrarre voti consistenti al centrodestra. I dirigenti del Pd si sono guardati in faccia con un certo sconcerto, l’altro giorno, quando hanno esaminato i dati segretissimi forniti loro dai sondaggisti. Per forza. Quelle cifre hanno confermato tutti i loro timori: lì dove il Partito democratico va bene, il listone del premier è in affanno. Ergo: non è al centrodestra che il premier toglie i voti. Perciò, detto in parole povere, un Monti che non riesce a fare argine nei confronti delle truppe berlusconiane rischia di servire poco o niente al centrosinistra. Di più, e di peggio: nelle regioni chiave, quelle in cui centrosinistra e centrodestra combattono la battaglia campale per il Senato, i montiani rischiano di essere ininfluenti. In Lombardia è testa a testa. In Sicilia pure. In Veneto Bersani e i suoi alleati perdono senza possibilità di sorprese dell’ultima ora, mentre in Campania la vittoria è saldamente nelle loro mani e di lì non si sposterà. Ebbene, in queste regioni Monti rischia di non fare comunque la differenza. Il che significa che tutti i calcoli che sono stati fatti finora al Partito democratico vanno rivisti. «Non avremo mai il mito dell’autosufficienza: i problemi del Paese sono gravi e non si può pensare di risolverli governando con il 51 per cento »: erano queste, fino a qualche settimana fa, le parole che Bersani amava ripetere in tutti i suoi conversari con amici, collaboratori e compagni di partito. Il segretario pensava al Professore, ovviamente. E al suo movimento. E nel Pd si ragionava sulle poltrone da affidare ai cosiddetti centristi. Quella della presidenza del Senato in primis, che un giorno spettava a Monti e quello dopo a Casini. Ma soprattutto quella del Quirinale. Ora è «tutto da rifare », come avrebbe detto Gino Bartali. Per questo Bersani ha lanciato l’occhio sui grillini. «Nessuna apertura – spiega il segretario, pragmatico come sempre – ma, comunque andranno le elezioni, loro saranno in Parlamento. Perciò, come sta già accadendo in altre regioni dove governiamo, ci rivolgeremo a tutti, e quindi anche a loro. Porteremo i nostri provvedimenti in Parlamento e in quella sede ci confronteremo con le altre forze politiche, grillini inclusi ». È un ragionamento, quello di Bersani, che non fa una piega, stando alle dichiarazioni di D’Alema e Renzi. Solo gli ex ppi frenano. Rosy Bindi continua a sparare a palle incatenate contro il comico genovese e Beppe Fioroni spiega: «Grillo è di destra, quella è la sua cultura, quella è la sua deriva e noi con lui non c’entriamo proprio nulla ». Un segnale all’indirizzo di Bersani? Già, ma anche di quel Romano Prodi che, stando alle voci dei palazzi della politica, punterebbe sull’apporto dei grillini per arrivare al Quirinale. Il dilemma dell’asinodi Buridano Quasi nessuno crede alle promesse dei politici. Quindi andremo a votare al buio, consapevoli che – chiunque vinca – non farà quello che si è impegnato a fare. Il fatto che sia irrazionale, irragionevole o quantomeno ingenuo credere a quello che i politici ci raccontano in campagna elettorale, non impedisce però di fare delle previsioni sul loro comportamento futuro. L’elettore, infatti, ha almeno un vantaggio sui politici: ormai li conosce. E, conoscendoli, sa che cosa aspettarsi da ciascuno di essi. Può usare il loro passato per indovinare il futuro che ci potranno riservare. E’ questo l’esercizio di traduzione che vorrei proporre oggi, un esercizio personale ovviamente, ma che ognuno può ripetere in proprio prima di mettere la crocetta sul simbolo sbagliato. Per capire che cosa ci aspetta davvero, la prima domanda da farsi è la seguente: qual è la stella polare di Bersani, Berlusconi e Monti? (di Grillo non parlo, perché la sua stella polare è chiara: «mandarli a casa tutti »). Bene, secondo me la stella polare di Bersani è, come sempre per la sinistra, la spesa pubblica. Si tratta di trovare il modo di farla crescere, allentando il patto di stabilità interna (tradotto: lasciando che i Comuni che hanno soldi li spendano). E rinegoziando i vincoli europei (tradotto: lasciateci fare un po’ più di deficit), nella speranza che l’economia riparta. La diagnosi è chiara: abbiamo avuto troppo rigore, è giunta l’ora di varare qualche stimolo all’economia. Il che, nella mentalità della cultura di sinistra, significa sempre «trovare » le risorse, piuttosto che liberarle, nell’illusione che il Pil cresca perché lo Stato spende di più, e non perché lascia più soldi nelle tasche dei produttori. Quanto alle tasse, una patrimoniale sui ceti medio-alti non è esclusa (specie se ci fosse necessità di una manovra aggiuntiva), mentre è esclusa una significativa riduzione della pressione fiscale. Si potrebbe pensare che la mia sia una lettura maliziosa del programma del Pd, ma in realtà è la conseguenza aritmetica di una cosa che a sinistra è stata ripetuta fino alla noia: le tasse diminuiranno nella misura in cui riusciremo a farle pagare agli evasori. E’ strano che nessuno lo faccia notare, ma diminuire le aliquote prendendo i soldi dagli evasori significa una cosa soltanto: che la pressione fiscale resta costante, e quel che cambia è solo la sua ripartizione fra economia sommersa ed economia emersa. Un fatto senz’altro positivo, ma che si fonda sull’idea (secondo me erronea) che l’Italia possa tornare a crescere con una pressione fiscale elevata come quella attuale. Passiamo al centro-destra. Qui le stelle polari sono due. C’è la stella polare personale di Berlusconi, che è salvare sé stesso dai processi e le sue aziende dalle possibili conseguenze di leggi «contra personam » minacciate dalla sinistra, ad esempio in materia di conflitto di interessi e concessioni pubbliche. E poi c’è la stella polare dei governi guidati da Berlusconi, che è sempre stata la riduzione delle tasse, senza però ridurre la spesa, e dunque creando deficit pubblico. Con l’aggravante che oggi i mercati ci punirebbero senza pietà, mettendo a rischio la stabilità finanziaria dell’Italia e quindi i nostri risparmi. Naturalmente so benissimo che esiste anche il «vasto programma » di Brunetta: tagliare in cinque anni 80 miliardi di spesa pubblica e restituirli ai cittadini sotto forma di minori tasse. Ma non lo prendo in considerazione perché la sua attuazione richiederebbe un vero governo di unità nazionale, tipo quello con cui Merkel e Schröder salvarono la Germania dal declino cui fino a pochissimi anni fa sembrava avviata (molti si sono scordati che, fino al 2007, era la Germania «the sick man of Europe », ovvero l’economia europea più in difficoltà). Resterebbe Monti, di cui per fortuna abbiamo un ricordo sufficientemente fresco da spegnere ogni illusione. Monti è stato l’unico leader che la possibilità di fare quel che ora promette – un governo che tagli le ali estreme e faccia le riforme – l’ha avuta sul serio. Quando venne chiamato a «salvare l’Italia » avrebbe potuto fare cose impensabili per i suoi predecessori e, temo, anche per i suoi successori. Ha sciupato quasi del tutto quell’opportunità, muovendosi con una prudenza eccessiva, un rimprovero questo che in questi mesi gli è stato ripetutamente rivolto dai suoi stessi allievi bocconiani. Nemmeno sull’abolizione del valore legale del titolo di studio, tipico cavallo di battaglia della cultura liberale, il suo governo ha avuto il coraggio di prendere una posizione, preferendo nascondersi dietro una consultazione pubblica destinata a finire nel nulla. Ora ci racconta che quel che di buono ha fatto è stato nonostante i partiti, e quel che non è riuscito a fare è a causa delle loro resistenze. Può darsi (anzi sicuramente è), ma come può pensare che la forza che i partiti non gli hanno dato ieri, quando erano terrorizzati e intimiditi, gliela possano dare oggi, che sono tornati ringalluzziti e protervi più che mai? Che cosa potremmo dunque aspettarci, realisticamente, da un governo Monti, o da un governo molto condizionato da Monti? La stella polare di Monti è il rigore, ossia l’equilibrio dei conti pubblici imposto dall’Europa. I comportamenti passati del suo governo fanno pensare che Monti sia convinto che la via maestra per fermare la crescita del rapporto debito-pil sia azzerare il deficit, o meglio azzerare il deficit «corretto per il ciclo », il che in buona sostanza significa chiedere all’Europa di poter sforare un po’. Questa visione e la linea di condotta che ne deriva hanno alcune conseguenze positive e altre negative. La conseguenza positiva più importante è che, con il rigore sui conti pubblici, diventa meno probabile un collasso finanziario immediato, che finirebbe per provocare una forte riduzione della ricchezza delle famiglie. Quel rischio è invece molto forte in caso di ritorno al governo di Berlusconi, e non è assente nel caso Bersani si trovasse a ripetere la triste commedia dell’ultimo governo Prodi, paralizzato – come l’asino di Buridano – dalle «diverse sensibilità » dei suoi ministri (per inciso: un governo Bersani-Monti-Vendola ci regalerebbe l’asino di Buridano perfetto). Ma non mancano, purtroppo, anche le conseguenze negative. L’ossessione del deficit fa indubbiamente i conti con l’Europa (o meglio con la visione economica della signora Merkel) ma non fa i conti né con i mercati né con gli interessi di lungo periodo dell’Italia. Non fa i conti con i mercati perché sottovaluta due elementi cruciali. Primo, lo spread dipende più dal deficit nominale che da quello «corretto per il ciclo »: ai creditori dello Stato italiano interessa il deficit pubblico effettivo, non «quello che sarebbe stato se non fossimo in recessione » (è questo, in buona sostanza, il senso della «correzione per il ciclo »). Secondo, lo spread è fortemente influenzato dalle attese di crescita del Pil, come si è visto la primavera scorsa, in pieno «governo dei tecnici », quando le previsioni di crescita dell’Italia sono state drammaticamente riviste al ribasso e lo spread è ricominciato a salire pericolosamente. Ma l’ossessione per il deficit non fa i conti, soprattutto, con gli interessi futuri dell’Italia. I quali sono di aumentare stabilmente la torta da ridistribuire, più che accontentarsi di suddividere «in modo più equo » una torta che continua a restringersi di anno in anno. Un obiettivo, quello di far ripartire il Pil, che realisticamente si può raggiungere solo con riforme coraggiose, e tenendo i conti in ordine dal lato della spesa, anziché dal lato delle tasse come Monti e Bersani hanno mostrato finora di preferire. Ed eccoci al paradosso finale. A mio parere la politica economica che meglio tutela gli interessi futuri dell’Italia è una versione più realistica, o meno talebana, della rivoluzione liberale annunciata da Renato Brunetta o da Oscar Giannino (la cui lista e le cui idee restano in campo, a dispetto delle dimissioni del fondatore). Ad essi mi sento di fare un solo vero appunto, quello di dimenticare che il nostro Stato sociale, oltre che inefficiente e sprecone, è anche largamente incompleto, visto che mancano asili nido, ammortizzatori sociali universali, politiche per gli anziani e le persone non autosufficienti: ridurre la spesa pubblica si può e si deve, ma non nella misura in cui i liberisti puri pretenderebbero. Purtroppo, però, non vi è alcuna possibilità che una seria e realistica rivoluzione liberale venga attuata da un governo di centro-destra, perché quel genere di politica richiederebbe due ingredienti che ad esso mancano del tutto: la credibilità davanti all’Europa e ai mercati (cha ha solo Monti) e la credibilità davanti alle forze sociali (che ha solo Bersani). Sembra un ossimoro, ma quello di cui a mio avviso l’Italia avrebbe oggi bisogno è una politica di destra fatta dalla sinistra. O, per essere più precisi, di una politica liberale, e perciò automaticamente e superficialmente bollata come «di destra », attuata e garantita dall’assai meno screditato personale politico di centro-sinistra. Una politica che ridia un po’ di ossigeno a chi produce ricchezza e al tempo stesso sia capace di incidere profondamente sulla spesa pubblica, non già per smantellare lo Stato sociale bensì per completarlo, perché di un welfare che funziona c’è oggi più bisogno che mai. Quel che invece avremo, verosimilmente, sarà un governo che dirà di battersi per «un paese più giusto », ma finirà per restituirci un paese forse anche più giusto, ma sicuramente più povero. Come direbbe Bartleby lo scrivano, «avrei preferenza di no ». “In fila per i rimborsi Imu” La bufala targata Pd-Cgil Roma – «È una montatura, non è successo niente di rilevante, io stesso ho telefonato a una dozzina di nostri Caf nelle città più importanti e ho contato 15-20 segnalazioni in tutta Italia, qualcuno che magari passava di lì e già che c’era ha chiesto dell’Imu, una percentuale ridicola per farne un caso », spiega Valeriano Canepari, responsabile nazionale dei patronati Cisl. Le «code chilometriche » di anziani e pensionati «ingannati » dalla lettera sul rimborso Imu in caso di vittoria Pdl, ci sono state sì, ma sui giornali. O nelle dichiarazioni turbo elettorali di Casini, leader Udc, che parla addirittura di «migliaia di vecchiette che si stanno presentando in fila alla posta per colpa di Berlusconi », mentre Bersani compiange «il pensionato che si mette in fila ingannato dalla lettera di un imbroglione ».
Povero Nichi Vendola. Non più tardi dell’altro ieri, in quel di Napoli, davanti ai cronisti che gli chiedevano un parere sullo scivolone di Oscar Giannino, aveva risposto con una parola secca: “Chapeau”. E così dicendo, aveva elogiato la prontezza con la quale il fondatore di Fare per Fermare il declino aveva rassegnato le dimissioni: “In un paese che è stato governato dalla menzogna eletta a sistema, il peccato veniale di Oscar Giannino e come lo ha affrontato gli fa onore”. Doveva avere forse un brutto presentimento il governatore della Puglia, alleato principe di Pier Luigi Bersani alle elezioni di domenica prossima. Perché ieri, nel teatrino delle patacche e delle bugie – un teatrino che si recita nel ridotto di questa turbinosa campagna elettorale – è precipitato purtroppo anche lui. Andiamo ai fatti. “Io non ricordo di avere mai conosciuto la dottoressa De Felice”, aveva dichiarato Nichi il 15 febbraio scorso dopo avere letto un articolo di Panorama nel quale si faceva riferimento a una fotografia che lo ritrae a una festa, seduto accanto a Susanna De Felice, il giudice barese che il 31 ottobre dell’anno scorso lo ha prosciolto da un’accusa di abuso di ufficio. E, puntualmente, aveva lasciato indendere che lo scoop di Panorama altro non era che il braccio armato della solita, insopportabile macchina del fango. Pensava di cavarsela con una bugia, con un peccato veniale, con il piccolo azzardo di una smentita. Ma i giornali hanno un’altra narrazione, parola tanto decantata dall’epica vendoliana, e difficilmente cedono al fascino della poesia o alle ragioni di una competizione elettorale. E così, ieri mattina, Nichi è stato messo davanti all’evidenza. Il sito di Panorama ha pubblicato la foto che lo inchioda: un ritratto di gruppo, una festa privata e famigliare della primavera del 2006, con le immagini nette e sorridenti di Vendola, seduto accanto al suo compagno, e subito dopo lei, la dottoressa De Felice, giudice per le indagini preliminari, venuta a brindare, assieme agli altri convitati, per i quarant’anni di Paola Memola, commercialista e cugina del governatore. Una tavolata allegra e spensierata, dove la politica si abbraccia col fior fiore della magistratura barese: oltre alla De Felice, nella foto si vede l’ex pm Gianrico Carofiglio, scrittore e senatore del Pd, con la moglie Francesca Pirrelli, pubblico ministero e amica cara di Patrizia Vendola, sorella di Nichi; c’é Emma Manzionna, giudice civile a Trani e c’é pure Teresa Iodice, anche lei pm alla procura di Bari. Comunque una tavolata innocente, vissuta alla luce del sole. Per quale motivo Vendola vorrebbe cancellarla dalla memoria? Ai poeti, si sa, sono concesse distrazioni o leggerezze e si può perdonare di tutto, anche una caduta di stile. Ma la bugia no. Perché Nichi, oltre a essere un poeta, è un uomo politico che, come candidato a far parte del nuovo governo, predica rigore e trasparenza. Giannino, dopo le mattane su lauree e master e Zecchino d’oro, ha ammesso i suoi errori e ha tratto le conseguenze. Il leader di Sel, invece, continua solo a minacciare querele: un vecchio metodo per appannare bugie e verità e per dimostrare che uno “chapeau” va bene, ma solo se si dimettono gli altri. La campagna fallimentare di Monti Se qualcuno lo consiglia vuol dire che ha sbagliato consigliere. Ma se non lo consiglia nessuno vuol dire che ha sbagliato mestiere. Si parla, ovviamente, di Mario Monti. Che dopo aver condotto una campagna elettorale senza azzeccarne una, l’ha conclusa fallendo clamorosamente anche l’ultima mossa. Le battute del presidente del Consiglio sulle attese e speranze della Cancelliera tedesca Merkel riguardo le elezioni italiane vanno considerate come una sorta di incredibile capolavoro in negativo. In un colpo solo Monti si è confermato “l’uomo della Germania” agli occhi degli elettori del centrodestra e si è scoperto “l’alleato impossibile” agli occhi di quelli della sinistra. Il ché, per essere l’esponente di un centro che vorrebbe far saltare la logica dei due poli e conquistare consensi sia su un versante che sull’altro, rappresenta un vero e proprio atto di autolesionismo elettorale. Può anche essere che il risultato del voto smentisca questa considerazione. E che il “Professore” ottenga un buon risultato. Ma se c’è un dato su cui tutti gli osservatori non asserviti ed indipendenti concordano ad urne ancora chiuse è proprio quello relativo al sostanziale fallimento della “salita in campo” del presidente del Consiglio. L’unico risultato politico ottenuto fino a questo momento da Monti è stata la cannibalizzazione degli alleati dell’Udc e di Fli. Per il resto due mesi di campagna elettorale non adeguata gli hanno impedito di compiere quello sfondamento al centro che alla partenza era considerato come un evento scontato e gli hanno fatto progressivamente disperdere il gigantesco patrimonio di credibilità che tutti i grandi media , il Quirinale, gli ambienti economici e finanziari e le Cancellerie europee gli avevano assicurato durante l’anno del governo tecnico. Si discuterà a lungo sulle ragioni di questo fallimento. Consiglieri fasulli? Inesperienza personale? Gli interrogativi perdono d’interesse di fronte al dato politico complessivo rappresentato dal fatto che l’ondata di antipolitica prodotta dal governo tecnico non ha portato allo “tsunami” di Monti ma a quello di Grillo. E, soprattutto, ha bruciato in maniera definitiva quella formula dell’esecutivo affidato ai tecnici che nella storia della Repubblica ha rappresentato la tradizionale soluzione a cui ricorrere nei momenti di ingolfamento o di vuoto della politica. La campagna elettorale, in sostanza, si chiude con la prospettiva di una maggiore ingovernabilità a causa di un Parlamento segnato da una forte presenza di oppositori di sistema come i grillini e dalla impossibilità di ricorrere alla formula tecnica per dare un governo al paese durante il tempo necessario a realizzare una qualche stabilizzazione del quadro politico. Tutto questo riporta in campo l’ipotesi di una grande coalizione che, partendo da una elezione concordata tra Pd e Pdl del nuovo Presidente della Repubblica, si fondi su un accordo per qualche indispensabile riforma costituzionale e preveda una fase di tregua (fino a nuove elezioni anticipate) gestita all’insegna dell’emergenza da un governo con i leaders dei partiti. Ma apre anche un diverso scenario di cui incominciano a parlare quegli esponenti del Pd che, per non perdere la propria base elettorale con le grandi intese, pensano alla formazione di un nuovo Ulivo con Prodi al Quirinale ed Ingroia e Grillo al governo al fianco di Bersani. C’è il rischio, in sostanza, che il fallimento del centro spiani la strada ad una inquietante e pericolosa radicalizzazione della vita politica italiana. Grazie Monti. Ma anche grazie Napolitano! «Togliere il ticket è possibile ». Marino, Pd: ecco come faremo Via la «tassa sulla malattia ». L’aumento dei ticket sulle visite specialistiche scattato nel 2011 – una «delle tasse più odiose e ingiuste perché ricade su chi è più malato », come ha detto Pier Luigi Bersani annunciando la proposta del Pd – si può davvero cancellare. Niente a che fare con la restituzione dell’Imu promessa da Berlusconi. I conti li hanno già fatti, sulla scorta del lavoro della commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale. Basta azzerare la spesa annuale che nella sanità pubblica registra 790 milioni di euro utilizzati per consulenze esterne – nella maggioranza dei casi inutili, ma molte volte anche ai limiti della legalità – per recuperare quasi tutti gli 834 milioni di euro che dal 2011 gli italiani spendono in più, sui ticket per prestazioni specialistiche. «Questa spesa è stata quantificata dal ministero dell’Economia. Nelle due finanziarie del governo Prodi – ricorda Ignazio Marino, il senatore Pd presidente della commissione d’inchiesta sulla sanità – e fino al 2010 questa cifra era stata assorbita nel volume della manovra finanziaria. Poi con la giustificazione della crisi economica si è deciso che dovesse ricadere sulle spalle dei cittadini che hanno bisogno di prestazioni specialistiche ». Circa dieci euro in più per prestazione (modulati in vario modo, da Regione a Regione), tornati a carico dei cittadini, oltre al vecchio ticket che prevedeva un massimo di 36,15 euro a ricetta. Per chi non gode di esenzioni, questo aumento ha significato una spesa media di 99 euro l’anno in più a persona. Una media, appunto. Perché chi più si ammala, più paga. «La nostra idea è di non procedere con i tagli lineari messi a punto dal governo Monti e, studiando le inefficienze e gli sprechi nel sistema sanitario azzerare le spese inutili, a vantaggio dei cittadini », spiega Marino, ora capolista del Pd in Piemonte e testa di lista nel Lazio nella corsa per Palazzo Madama, citando i dati che la Corte dei Conti ha fornito a suo tempo alla commissione d’inchiesta per un’indagine sulle consulenze esterne. «E’ agli atti – precisa Marino – che circa il 10 % delle sentenze emesse dalla magistratura contabile e relative all’amministrazione sanitaria riguardano consulenze e incarichi esterni. Il più delle volte casi in cui si è riscontrato un illegittimo conferimento di incarichi libero-professionali, illegittimi affidamenti di consulenze in materia contabile e tributaria, ingiustificate proroghe di contratti di consulenza, mancata attuazione di procedure selettive nella scelta dei consulenti e infine il ricorso a consulenze anche in presenza di professionalità interne alle aziende sanitarie ». In sostanza, soldi spesi per affidare all’esterno del lavoro che avrebbe dovuto essere svolto dal personale interno. Il tesoro nascosto di Gianni Agnelli, qui. Monti non rispetta la legge sulla trasparenza, qui. Letto 5294 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||