Il piacere della scrittura
28 Ottobre 2008
di Carlo Capone
Che scrivere sia un piacere lo trovo discutibile. Scrivere non è un piacere, è un’ossessione, originata da un principio che definiamo esso sì di piacere. E’ cioè la trasposizione, mediata dall’Io, di un’urgenza libidica in cerca di oggetti. Il piacere, allora, consiste nella buona resa di questa mediazione, in genere testimoniata dall’affiorare di un senso di pienezza. Accade, ad esempio, quando giudichiamo che un dialogo abbia messo in luce un aspetto cruciale di un personaggio (magari grazie a una semplice battuta mai affiorata prima). Oppure se stimiamo, ma è corretto dire ‘sentiamo’, che la descrizione di un ambiente o di un paesaggio contribuiscano a una certa efficacia narrativa, non siano insomma il pretesto per autopiacersi. O ancora, nel caso in cui l’apparizione di una nuova figura illustri meglio il personaggio principale. A questo proposito espongo un esempio.
A me autore è chiaro che Tramaglino debba essere un bravo giovanotto, timorato di Dio e della legge, e in fin dei conti capace di difendersi dalle insidie dei tempi, tant’è che lo munisco alla cintura di un coltello dal manico intagliato. D’accordo, ma secondo i piani Tramaglino deve anche essere un po’ sempliciotto, nel senso affettuoso del termine, insomma un credulone (è una necessità imposta dai fini ultimi per cui scrivo il romanzo, al di là delle contingenze di racconto).
E’ tutto pronto. Gli aspetti principali del carattere li ho delineati (consulto legale, sera delle beffe e così via) ma manca il tocco decisivo, l’espediente che ne illustri la creduloneria. E perciò lo induco a farsi coinvolgere dai tumulti provocati dalla carestia e lascio intendere al lettore che quanto meno è un soggetto influenzabile (specie trattandosi di un provincialotto nella metropoli tentacolare). Ma non basta, occorre qualcosa di esaustivo: la pirlata. E qui c’è da soffrire, ascrivendo tale pena allo scrittore in quanto persona. Intanto perchè, poniamo, Tramaglino gli sta dannatamente simpatico e poi perchè intuisce che vestirlo da raggirato indurrà lui autore in resistenza. Il preconscio, voglio dire, farà le bizze, giudicherà la manovra in contrasto col principio di piacere, col risultato di precludere all’Io il flusso mediato dall’azione creativa. Blocco, frustrazione, autore che si avverte inadeguato, e se affllitto da istanza punitiva sofferente di insanabile angoscia. In alcuni casi l’impasse può durare parecchio, se non proprio condurre a una rinuncia del progetto. Nel nostro caso dobbiamo supporre che l’autore trovi un compromesso, tra principio di piacere, ragioni dell’Io e permeabilità del preconscio. L’attuazione di un simile accordo prende forma in Ambrogio Fusella. Che è un viscido (dunque, il suo raggiro non svaluta il personaggio) ed ha il pregio di assumere funzione descrittiva del tal difetto di Tramaglino.
Secondo me il piacere di scrivere, se esiste, sta tutto qui. Un po’ come lo slogan pubblicitario della Miscela Lavazza: “Il caffè è un piacere, se non è buono che piacere è?”.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 29 Ottobre 2008 @ 19:42
Sono pienamente d’accordo con te, Carlo, quando dici che scrivere non è un piacere. A questo proposito, in un precedente mio commento su una pagina di questa rubrica, avevo già evidenziato questo aspetto. Spesso noi che ci dedichiamo a scrivere, quando qualcuno ce lo chiede, siamo soliti impropriamente dire (a me succede): “Ci dilettiamo a scrivere racconti e poesieâ€. Ma tale impegno è tutt’altro che un dilettarsi. Talvolta è anche sofferenza. Ci coinvolge fino a star male, per trovare le motivazioni, le tematiche, le parole giuste, per creare situazioni e personaggi da adattare anche al nostro modo di vedere e di sentire (calzante è il riferimento a Renzo Tramaglino), per sviluppare la trama in modo coerente e creativo, per dare, soprattutto alla poesia, il valore lirico e sostanziale necessari, perché sia veramente Poesia. Tuttavia il nostro è un privilegio che ci tiene avvinti, che ci fa lavorare di fantasia, che allarga la mente ed il cuore, che ci fa crescere spiritualmente, facendoci sentire meno soli, allontanandoci un poco dalle banalità , dalle tristezze, dalle miserie del quotidiano
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 29 Ottobre 2008 @ 21:27
L’autore comincia come se lo scrivere fosse un gioco, un diletto dello spirito, un momento vivificante di creazione. Ma poi soffre le pene dell’inferno. Soprattutto quando il personaggio fa le bizze e gli prende la mano, va un po’ per conto suo…
Commento by Carlo Capone — 30 Ottobre 2008 @ 00:30
Sono d’accordo con entrambi. E mi spingo a dire che se l’inferno fosse così, solo così, beh…..
Ma poi, se l’inferno è questo, che sarà mai il Paradiso? un mirabile luogo dove il personaggio non ci fa più soffrire? e il nostro romanzo sin dal primo sviluppo rispetta tutte le simmetrie? oppure DomineIddio dirà a ognuno: “Hai patito troppo. Da ora e per sempre soltanto jogging.”?
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 30 Ottobre 2008 @ 14:20
Thomas Adams diceva: “Nessuno arriva in paradiso con gli occhi asciutti”. Ed Erich Fromm, nella sua lucida-amara psicanalisi della società moderna, scriveva: “L’uomo moderno, se osasse esprimere la sua concezione del paradiso, descriverebbe qualcosa di molto simile ai più ricchi ‘grandi magazzini’ del mondo, pieni di novità e gadgets, e se stesso con una quantità di soldi per comprare quella roba”.
Io sono fermamente convinto che l’eterna luce ci avvolgerà in una indescrivibile bellezza, in una immensa gioia, in un amore infinito. E a noi che ci impegniamo a scrivere, ne son sicuro, verrà riservato un posto speciale, in prima fila.
Gian Gabriele Benedetti