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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

James, Henry

7 Novembre 2007

Ritratto di signora    

“Ritratto di signora” (1881)

(Trad. Pina Sergi Ragionieri)

Non è mai il corpo a descriverci uno dei tanti personaggi di questo autore, bensì la complessa introspezione, sua cifra stilistica particolare, che consente ad essi di vivere. La loro intricata natura è ciò che li trasfigura nella mente di ogni lettore. Henry James è uno dei maggiori narratori di tutti i tempi. La sua scrittura, pur essendo, oltre che raffinata, assai difficile per una rotondità speciale che la contraddistingue, non gli ha impedito di conquistarsi un largo seguito di estimatori. Ecco un esempio della sua scrittura. Si riferisce alla descrizione del marito della contessa Gemini: “A Roma egli era soltanto un fiorentino molto scipito, e non fa meraviglia che non gli piacesse far visite frequenti in un luogo dove, per portarla a giro, la sua scipitaggine aveva bisogno di più spiegazioni di quanto non fosse conveniente.” E poco prima: “un fiorentino tutt’altro che accomodante, che si ostinava a vivere nella sua città natìa, dove godeva della considerazione che può attribuirsi ad un gentiluomo il cui talento nel perdere alle carte non abbia il merito di essere conseguenza di una disposizione alla cortesia.”

Nato a New York nel 1843, James si trasferì a Londra nel 1876, dove morirà nel 1916 assistito dall’amica, l’altra grande scrittrice, Edith Wharton. In occasione dello scoppio della Prima guerra mondiale ritenne suo dovere prendere la cittadinanza inglese.

L’elenco dei suoi romanzi, che influenzarono molti scrittori, tra cui Virginia Woolf, oltre alla stessa Wharton, è troppo lungo. Basterà citare qui i suoi maggiori: “Gli Europei”, 1878; “Daisy Miller”, 1879; “Washington Square”, 1880, “I bostoniani”, del 1886; “Le spoglie di Poynton”, 1897; “Ciò che sapeva Maisie”, 1897; “Le ali della colomba”, 1902; “Gli Ambasciatori”, 1903; “La coppa d’oro”, 1904.

“Ritratto di signora”, da cui Jane Campion ha ricavato il bel film omonimo nel 1996, è del 1881 e fu scritto in gran parte in occasione della sua permanenza a Venezia. Il romanzo fu riveduto poi dallo stesso autore nel 1908.

Quando scriveva il romanzo, James si era già trasferito in Inghilterra e, sebbene fossero trascorsi pochi anni, ne aveva già assorbito lo spirito raffinato e contemplativo, pur non rinunciando alla sua americanità. La descrizione che apre il romanzo ne è una prova assai convincente, ed è di una tale perfezione da poter affermare che non vi manchi nulla né del paesaggio inglese, né delle espressioni tipiche, legate ad una tradizione ferrea di quel popolo. Il vecchio Daniel Tracy Touchett, americano del Vermont, sofferente di gotta (“non lascia mai la sua poltrona”), rimasto legato alla sua patria d’origine, trasferitosi in Inghilterra – proprio come James -, che sta bevendo il tè in giardino e contempla estasiato la sua dimora di Gardencourt, avendo a fianco due cani fedeli, un collie e un terrier (di nome Bunchie), mentre due giovani signori (il figlio Ralph e Lord Warburton) gli passeggiano di fronte in su e giù in attesa di potergli parlare, riflette un profondo cammino di appartenenza tutta spirituale alla terra che lo ha accolto.

Anche se, da qualunque punto di vista la si osservi, la società, non solo quella inglese, non è più la stessa e sta cambiando in peggio: “Sono sicuro che ci saranno grandi mutamenti; e non sempre si cambierà in meglio.” La figura del giovane e ricco Lord Warburton è presa di mira dal vecchio Touchett per sostenere la tesi che i giovani aristocratici della “povera cara stupida vecchia Inghilterra” sono capaci solo di intessere idee progressiste, guardandosi bene dal realizzarle per non danneggiare se stessi: “Le loro opinioni radicali sono come un divertimento”.

James trasferisce nei romanzi il suo pessimismo innato. È un leit-motiv che accompagnerà sempre la sua opera letteraria. La tendenza a proiettarsi nel futuro ha, peraltro, un legame strettissimo con la sua tendenza all’analisi introspettiva dei personaggi, come se soltanto da essa dipendesse inequivocabilmente l’avvenire della società.

Isabel Archer è un tentativo riuscito di rappresentare questo futuro difficile, misurato su di una donna che ama “molto la mia libertà.” Anche la signora Lydia Touchett, “dalle labbra sottili, dagli occhi brillanti” che torna, non più di una volta l’anno, da Firenze, dove si è sistemata in un appartamento di Palazzo Crescentini, a visitare il marito, di cui cura anche gli interessi in America da che si è trasferito in Inghilterra, e giudica “che il sistema da lei adottato era quello giusto.”, percorre la stessa strada (“Il signor Touchett pensava sempre che la ragazza gli ricordava sua moglie, quando sua moglie non aveva ancora vent’anni.”), ma non con quella forza e quella determinazione tali da prefigurare un convincente mutamento: “se la signora Touchett un giorno aveva somigliato a Isabel, Isabel non somigliava per niente alla signora Touchett.” Isabel compare all’improvviso in giardino, mentre quei tre personaggi stanno discorrendo. Ralph si è allontanato per dirigersi verso casa quando alzando lo sguardo scorge una ragazza “alta, vestita di nero, che a prima vista sembrava graziosa.”; “snella e seducente”, “di manifesta intelligenza”, “mente candida e sensibile.” È sua cugina, venuta dall’America, condotta lì dalla signora Touchett, poiché orfana. Ha altre due sorelle, Lilion (Lily), la maggiore, e Edith, la mediana, entrambe sposate e rimaste oltreoceano.

È già da annotare, a questo punto, che più che la Woolf, è l’americana Wharton che ha preso buona parte del manierismo jamesiano. Le atmosfere in cui vivono i suoi personaggi, ad esempio, sono molto simili a quelle disegnate da James. Si pensi a “L’età dell’innocenza”, del 1920. La Woolf, invece, va oltre il maestro, la sua scrittura fa un passo avanti nella direzione dell’indagine introspettiva, consacrando definitivamente quella incorporeità del personaggio che ha in James il suo autorevole e antesignano rappresentante: Isabel “Portava dentro di sé una grande riserva di vita e il suo più profondo godimento consisteva nel sentire una continuità tra i moti della sua anima e l’agitarsi del mondo.”; “in lei il bisogno di pensare bene di se stessa era inestinguibile.”; “considerava detestabili paura e timidezza.”; “voleva essere come appariva, voleva apparire quella che era.”

Qualcosa di più, dunque, di quanto anima la zia Lidya o l’amica Henrietta, la giornalista che le forniva “la prova che una donna può bastare a se stessa ed essere felice.”

In ogni caso, non si deve dimenticare che Isabel, pur sospinta da una qualità innata, è una ragazza in formazione che, come tutti i giovani, si affaccia per la prima volta alla realtà piena di speranze, di desideri, di illusioni, ma con la quale deve ancora fare i conti. James è così che ce la fa conoscere, allorché scrive: “Molte delle sue opinioni erano senza dubbio di esile portata, molte delle sue emozioni sparivano parlandone; ma esse avevano lasciato la loro traccia, abituandola per lo meno a sembrare una che sente e che pensa, e infondendo inoltre alle sue parole, quando era veramente commossa, quel vivo ardore che tanta gente aveva stimato come un segno di superiorità.” Pare che con questo ritratto, James abbia voluto delineare i limiti anche della sua ricerca introspettiva, non riuscendo mai nessuno a comprendere fino in fondo gli altri, né se stesso.

Uno strumento di indagine è rappresentato dal cugino Ralph, anch’egli, come il padre, “malato e invalido e ridotto a semplice spettatore del giuoco della vita”, che intreccia con Isabel un’amicizia tutta tesa alla conoscenza reciproca. Ralph soffre di “una malattia polmonare”, giunta ad uno stadio avanzato. L’affetto che Ralph segretamente prova “per questa spontanea ragazza di Albany”, anche se non intuito subito da quest’ultima, alimenta una confidenza davvero provvidenziale. Non esiterà, infatti, in uno dei molti colloqui, a rinfacciarle: “Il fatto è che ritenete che niente al mondo sia troppo perfetto per voi.”

Poiché James avverte il nuovo che soffia nell’aria (“l’odore del Futuro”) intorno alle figure femminili piuttosto che intorno agli uomini, è per questo motivo che il ruolo di fine osservatore di Ralph andrà crescendo sempre di più. In questa operazione di ricerca e di indagine assume particolare importanza il dialogo, che in James interviene sempre nel momento in cui le diversità tra vecchio e nuovo mondo debbano manifestarsi con maggior impeto ed evidenza. Le differenze tra la signora Touchett, Isabel ed Henrietta, ad esempio, esplicitano una tendenza che ha le sue radici in un futuro che, sebbene già presente, è ancora tutto da delineare, legato com’è strettamente allo spirito avventuroso e in moto perpetuo dell’uomo. Henrietta dirà ad Isabel: “Sì, sei cambiata; ti sei fatta idee nuove, qui”.

Tuttavia, siano essi il frutto della sua permanenza in Gardencourt o, come più probabile, della sua natura che va rivelandosi ogni giorno di più, Isabel è soprattutto ciò che dice di essere quando Lord Warburton le chiede di sposarla ed ella indugia. Alla esclamazione di lui: “E allora, non so che cosa chiedete di più!”, così risponde: “Non si tratta di quello che chiedo, ma di quello che posso dare.”

Abbiamo a che fare, quindi, non tanto con una ragazza ambiziosa di conquistare una posizione al di fuori di se stessa, bensì una ragazza che vuole conoscersi, prima di ricevere qualcosa dal mondo. Già questo pone una rilevante novità nell’universo femminile letterario. Abbiamo incontrato figure di donne che hanno ricevuto in dono dalla vita la gloria o subìto le peggiori sventure del mondo, ma non ancora un personaggio che prima di affacciarsi al mondo desidera conoscere se stesso e il suo destino. Ciò resta importante a prescindere dalle lezioni che la vita darà ad Isabel: “Chi era, che cosa era lei, per ritenersi superiore?” E: “L’idea di una limitazione della libertà era per lei particolarmente sgradevole”.

La sua figura, pur di ragazza emancipata e libera, resta emblema di una tragicità annunciata, avvertita e temuta. A lord Warburton che non sa spiegarsi le ragioni del suo rifiuto a sposarlo, risponde: “È che non posso sfuggire al mio destino”, e subito dopo: “Non posso sfuggire all’infelicità”.

Isabel è la donna che vuole vedere con i suoi occhi, poiché solo ciò che lei stessa può vedere direttamente ha un sincero e sicuro collegamento con ciò che va scoprendo di sé. Crea un rapporto che ha nel suo intimo la sola ragione d’essere: “Non mi va di essere soltanto una pecora del gregge; voglio scegliere il mio destino e nella conoscenza delle cose umane andare un poco al di là di quanto la gente crede sia compatibile con la convenienza di farmi sapere.” Non è, con ciò, che il suo cammino abbia una rotta precisa, ben tracciata. Anche Isabel paga il pegno alla sua giovinezza e al suo primo apparire sulla scena di una società che ha fretta di accoglierla così com’è.

L’amica Henrietta le dirà: “Andrà a finire che farai qualche grosso errore.” E più avanti: “Per te il pericolo sta nel fatto che vivi troppo nel mondo dei tuoi sogni.”

Lo strumento di cui si servirà il destino per metterla alla prova e piegare in qualche modo la sua esuberante personalità è già pronto e si presenta nella figura di una signora di quarant’anni, “non bella”, colta da Isabel nel momento in cui sta suonando il piano a Gardencourt. È amica della zia Lidya, che trascorre molto del suo tempo a Firenze: si chiama Madame Serena Merle e si rivelerà tanto mai intraprendente e scaltra da ricordarci la signora de Merteuil, la protagonista della famosa opera di Pierre Choderlos de Laclos, “Le relazioni pericolose”, del 1782, che lascia tracce in questo romanzo più di quanto si è indotti a credere. La congiura intessuta tra Madame Merle e lo squattrinato e bell’imbusto Gilbert Osmond a danno di Isabel, come avremo modo di vedere, ha il suo precedente speculare in quella ordita dalla marchesa de Merteuil e il fascinoso visconte di Valmont a danno dell’irreprensibile Mme de Tourvel. Anche la figura di Pansy, la figlia di Osmond, ha una qualche aderenza con la giovane e timida Cecile Volanges.

Del resto, il mondo da cui Isabel vuole apprendere tutto per misurare se stessa ruota, come in de Laclos, intorno a poche cose, e soprattutto a poche persone, il cui grado, tuttavia, di rappresentazione della società è tale da fornirle quell’esperienza che va ricercando. Se si rifletta, i suoi rapporti sono limitati a figure come la famiglia Touchett, Lord Warburton, Henrietta, Bantling, Osmond e la figlia Pansy, Caspar Goodwood, lo spasimante americano che ha attraversato il mare per insistere nella sua proposta di matrimonio, ancora una volta respinta da Isabel, e infine Madame Merle, vedova di un commerciante svizzero che le ha lasciato una piccola rendita. Se si escludono Lord Warburton e il signor Bantling è il mondo degli americani trasferitisi in Europa, quello che si muove intorno a lei, tanto che non è difficile immaginare che in Isabel, come nel vecchio Touchett, e in Ralph, si annidi e si replichi la parte più intima e segreta di James. Lo stesso amore per l’Inghilterra di tutti questi personaggi può esserne una eloquente spia, il quale è un amore che si lancia nel futuro più di quanto si riesca ad immaginare esaminandoli singolarmente. Si potrebbe anche dire che la figura di Ralph si innesti su quella del vecchio Touchett, come s’innesti su Ralph la figura di Isabel.

James gioca l’avventura dell’esperienza reale di Isabel dentro rapporti così ristretti da renderci ammirati di come la sua profondità di introspezione riesca ad estrarre dai loro corpi l’universale. La tessitura e l’intreccio delle anime (“Un uomo o una donna isolati non sono una cosa che esista; ciascuno di noi è formato da un intrico di dipendenze”) sono così vasti da consentirci di astrarci agevolmente dalle persone, dalle loro fisionomie e dai loro caratteri umani, per trasfigurarli nei sottili fili di cui è intessuto il grande mistero dell’universo.

L’amore di Ralph per la cugina, ad esempio, è talmente speciale da configurarsi come qualcosa che va ben oltre l’amore che conosciamo. Una specie, ossia, di alone sensibile intorno alla figura di lei, percepito forse dalla stessa Madame Merle quando le dirà: “Voglio vedere che farà di voi la vita. Una cosa è certa: non vi potrà guastare. Potrà sbattervi orrendamente qua e là, ma la sfido a distruggervi.”

Madame Merle è la prima a minare e a mettere alla prova la sicurezza e la stessa complessa personalità di Isabel. Affabile, simpatica, galante, esperta del mondo, diventa un modello per lei: “Isabel era cresciuta nella propria stima per il fatto di godere il favore di una persona che aveva un campo così vasto per fare confronti”. Madame Merle è dotata, agli occhi ammirati di Isabel, di ogni qualità, al limite della perfezione. Isabel arriva a sentirsi, qualche volta, perfino impacciata, goffa, al suo confronto. Ne è infatuata.

La sua forte personalità è sottoposta continuamente ai dubbi e alle incertezze disseminati sulla strada della sua emancipazione. Considerata forte e decisa, coloro che la conoscono più a fondo, ne intravedono invece la sottile, quasi impercettibile, fragilità, come una incrinatura dalla quale può compromettersi il tutto. Ralph, ancora una volta, è uno di questi, allorché le confessa il suo desiderio di non vederla tormentarsi. La improvvisa ricchezza di cui si trova fornita alla morte dello zio, è a questo fine che le è stata donata: “Vivete come meglio vi piace, e il carattere ci penserà da sé a formarsi.” E ancora: “Frenate la vostra febbre. Aprite le ali; libratevi sulla terra. Far questo non è mai sbagliato.”

Si ha la palpabile sensazione che Ralph, malato di tisi, voglia per Isabel ciò che non potrà mai avere per sé.

Ma è nelle mani di Madame Merle che stanno più solidamente racchiuse le chiavi delle prove che Isabel è chiamata a sostenere. Una di esse ha il nome di Gilbert Osmond, che “non era bello, ma era fine”, che l’abile donna di mondo fa incontrare alla inesperta ragazza nella casa fiorentina della vedova Touchett. Contro di lui si pronuncia Ralph, che non lo può soffrire e lo definisce “un vago, indecifrato americano che da trent’anni, forse un po’ meno, vive in Italia.”, ma la ammonisce: “Giudicate ognuno e ogni cosa da voi.” Non può soffrire neppure Madame Merle, la cui modestia – esaltata da Isabel – considera “esagerata”.

Ci troviamo, dunque, di fronte ad un affettuoso protettore e ad una seducente tentatrice, che conducono un duello sottile a pro o contro Isabel, il cui destino, ad ogni modo, è già segnato dalla propria personalità. Il propendere di lei verso i suggerimenti di Madame Merle, infatti, non discende tanto dalla scaltrezza di quest’ultima, bensì dalla disposizione innata di Isabel ad accogliere le sue lusinghe. Se si deve ammettere che Isabel intuisce comunque il pericolo, bisogna anche riconoscere che non può sottrarvisi poiché la qualità di esso è tale da armonizzarsi con la propria natura.

La conversazione a casa Osmond tra Gilbert e Isabel ha tutto il miele, infatti, di una trappola ben tesa, verso la quale la giovane avanza con passo incerto ma irremovibile.

Come pure la conversazione successiva tra Madame Merle e la sorella di Gilbert, la contessa Gemini (Amy), rispecchia l’intricata selva delle relazioni cortigiane che dominano la società del tempo.

Sono due conversazioni parimenti importanti per capire e forse giustificare l’impreparazione della pur volitiva Isabel.

L’esemplarità, la brillantezza e l’acutezza di queste conversazioni (ne troveremo anche altre) devono essere state presenti, nella stesura di alcune loro commedie, ai due geniali scrittori irlandesi Oscar Wilde (1854-1900: “Il ventaglio di Lady Windermere”, del 1892 e “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, del 1895) e a George Bernard Shaw (1856-1950: “La professione della signora Warren”, del 1894)

Bisogna anche aggiungere che, da quando sulla scena del romanzo si è presentato il rapporto Gilbert Osmond-Isabel Archer, la vivacità ha preso largo spazio nella scrittura divenuta d’un tratto assai spumeggiante, a segno di una materia che James ama e sa sviluppare con particolare piacere. Mette in bocca alla signora Touchett, ad esempio, queste parole, riferite ad Isabel: “sarebbe capace di sposare il signor Osmond per la bellezza delle sue opinioni o perché possiede un autografo di Michelangelo.” Non si deve dimenticare che Isabel ha appena rifiutato uno dei migliori partiti d’Inghilterra, Lord Warburton (“Possiede quasi mezza Inghilterra”), che è anche, per sovrappiù, un bel giovane corteggiato da tutte le ragazze da marito. E ciò ha sorpreso e in qualche modo amareggiato la zia che, da quando Isabel è diventata ricca, si è messa in testa che Osmond voglia sposarla per spendere il suo denaro.

James si dimostra talmente raffinato da disegnare non solo l’anima dei suoi personaggi, ma anche quella delle città nelle quali si trovano ad agire. In particolar modo Firenze e Roma beneficiano di questa sua qualità, ed anche di una non dissimulata ammirazione (“È tutto così dolce e soave… ha il colore italiano.”) Roma, soprattutto, vi è ammaliatrice al pari di quanto lo fu negli scritti di Goethe (“Il viaggio in Italia”, del 1817) o lo sarà nelle musiche romane (composte tra il 1916 e il 1928) di Ottorino Respighi (1879-1936).

I dialoghi sono quanto di più sottile James metta in campo per analizzare i suoi personaggi. Non ve n’è uno che non raggiunga lo scopo ed appassioni il lettore per le schermaglie psicologiche che sottende.

Perfino il massiccio e spigoloso Caspar Goodwood, nell’incontro con Isabel, che ha appena deciso di sposare Gilbert, assume una fisionomia tutta interiore e sensibile.

Isabel pensa di lui che stava dando una sorprendente “prova di come la passione potesse aiutare delle percezioni che lei non aveva mai ritenuto fini.”

Sono, Lord Warburton e Caspar Goodwood, due corteggiatori sconfitti diversi uno dall’altro, cortese e aristocratico il primo, ostinato e risentito il secondo. E questa loro differenza emerge proprio nel corso dei rispettivi dialoghi che hanno con Isabel, allo stesso modo in cui affiora l’anima di un personaggio da un dipinto di un attento e squisito pittore.

Isabel è, in realtà, un’anima insicura e inquieta che, dietro la facciata della sua risolutezza, nasconde una maturità ancora acerba, incompiuta, tale da spargere solo dolore, e anche compassione. È lo scotto che deve pagare la ricerca della sua emancipazione. Il sentimento che crede di provare nei confronti di Gilbert, ad esempio, non si può essere così sicuri che sia amore e non piuttosto infatuazione di un vuoto dentro cui ha potuto per un breve istante deporre i suoi sogni e le sue illusioni e credersi in tal modo gratificata dalla vita. Ai rimproveri della zia Lydia che cerca di aprirle gli occhi e convincerla che si tratta di un intrico imbastito, ahimè a tradimento, dall’amica Madame Merle, che vuole gettarla nelle braccia di un cacciatore di dote, risponde cieca e convinta: “Se volete dire che Madame Merle ha avuto a che fare col mio fidanzamento vi sbagliate di grosso”, che dà il segno più rimarchevole della sua ancora acerba preparazione. Così pure allorché la zia ribadisce: “egli non si sarebbe mai permesso di pensare a te, se non ce l’avesse spinto lei.” Se è vero, cioè, che nella ricerca di se stessa, Isabel rifiuta le convenzioni e le convenienze sociali per affermare la propria personalità ribelle, è anche vero che è preda inconsapevole delle trame di chi, più esperto e più scaltro di lei, ne fa strumento dei propri fini.

Ancora una volta è il dialogo a mostrare le spigolosità di un modo di pensare diffuso nella società del tempo. Sapendo il tranello in cui sta per cadere Isabel, noi ci sentiamo di parteggiare per la più esperta zia Lydia, che ha saputo, pur nella sua mentalità frenata e ristretta dalle convenzioni, vedere molto più in là di Isabel. La zia Lydia diventa, così, per il lettore, la sola in grado di fronteggiare, anche se poi sconfitta, la malafede e la cortigianeria di Madame Merle, il suo doppio gioco. La sua personalità, pur strettamente legata al suo tempo, mostra un’emancipazione assai più volitiva di quella apparentemente pervicace ricercata da Isabel, più schiava del sentimento che della ragione, nonostante dica: “qualsiasi cosa io faccia la faccio con ragione.”, che è un altro segno della sua immaturità. Alla fine, ci ritroveremo davanti ad un personaggio che ostenta una sicurezza così stramba e fors’anche assurda da collezionare più sconfitte che successi. Sembra che James ci voglia suggerire di tenere presente questo aspetto di Isabel quando scrive: “Come avrebbe potuto criticarla bene lei, questa sua unione, se soltanto ci avesse posto mente!” Non c’è eroina di romanzo che non abbia ricevuto avvertimenti dei pericoli a cui va incontro più della nostra. Non solo la zia Lydia, ma anche il cugino Ralph ormai arriva a pensare che “la persona di cui più gli importava al mondo era perduta.” Così che l’autore ci costringe a riflettere se non sia giusto attribuire una qualche responsabilità ad entrambi i congiunti per non aver saputo evitare il pericolo, rinunciando in definitiva a proteggerla. Come vi è il dubbio che proprio la caparbietà di Isabel a sperimentarsi di fronte ai pericoli della vita, pronta a pagarne lo scotto, sia il lato migliore della sua emancipazione che l’autore desideri mettere sotto i nostri occhi.

Da una parte sta chi ha scoperto il gioco di Madame Merle e di Gilbert Osmond e mette in guardia Isabel, senza spingersi comunque oltre una forte disapprovazione, rispettando la libertà delle sue decisioni, e dall’altra una donna che, pure avvertita e messa in guardia, non desiste dal voler realizzare il suo proposito. Può anche considerarsi una forza positiva quella che sprigiona da Isabel, e talmente ostinata e sicura di sé, questa forza, da dominare lo stesso personaggio, da trascinarlo, ossia, nel vortice di una esperienza del tutto sconosciuta. Le dice Ralph in un interessante dialogo, forse il più rivelatore: “Eravate l’ultima persona che mi aspettavo di veder acchiappata.”; e ancora: “state per essere messa in gabbia.”, e soprattutto, significativamente: “Un anno fa stimavate la vostra libertà al di sopra di ogni cosa.”

Ma Isabel è ancora convinta del proprio percorso (“Io ho un solo interesse: essere libera di seguire un sentimento onesto.”) e accusa Ralph di non avere fiducia in lei: “E di quanto poco vi fidiate di me!” La sua, ci dice l’autore, era “una linea eroica”, ispirata da una “ardente buonafede”; “Aveva torto, ma credeva; era ingannata, ma in lei c’era una tremenda coerenza.” Isabel non si rende conto, ossia, che Ralph sta vedendo più chiaramente di lei il suo futuro. E, al contrario, “L’opposizione di lui aveva reso più chiaro a lei stessa il concetto della propria condotta.”

Si può dire che l’amore per Gilbert è una scoperta ambigua per Isabel, in bilico con l’infatuazione che avanza sempre di più a scompaginare il suo idealismo. È bastato così poco, l’incontro con un bell’imbusto di intelligente e piacevole conversazione, per produrre su di lei una inversione che ancora non si appalesa, ma sta nell’ombra pronta a ghermirla: “C’era una spiegazione sufficiente nel fatto che egli era l’innamorato suo, proprio suo, e che lei avrebbe potuto essergli utile.” Quell’ “essergli utile” è spia, come si intuisce, di una svolta in direzione di una concezione tradizionale del matrimonio come “gabbia” (per usare un’espressione di Ralph) nella quale Isabel andrà a mortificare ogni pretesa di indipendenza.

Al punto che James, senza tanti preamboli e segnature ci fa sapere, nel capitolo trentaseiesimo, che Isabel è diventata la signora Osmond, e che le previsioni di Ralph non erano affatto peregrine.

È un romanzo di eccellenti dialoghi, si è detto, anzi di eccellenti confronti, dai quali non solo emerge la società degli artifici e delle convenzioni tipica degli americani trasferitisi in Europa, ma affiora e si raffina il contrasto tra i propositi iniziali di una protagonista orgogliosa e sicura di sé e gli ostacoli e gli inganni che la sua giovane età e la sua inesperienza non riescono ad evitare. Lo stridore che ne consegue, e la sofferenza interiore, lancinante, fanno del romanzo l’espressione sensibile e dolorosa di un’anima che mai così scopertamente si è mostrata al mondo.

Il confronto che si pone spontaneamente tra il corteggiamento prima del matrimonio tra Gilbert e Isabel e quello che – quando le relazioni tra i due coniugi sono turbate – avviene da parte del giovane Edward Rosier nei confronti della figlia di Osmond, Pansy, che ora ha diciannove anni, mette in risalto tutta la artificiosità del primo rispetto al secondo, fresco, ingenuo, trepidante, fanciullesco, da lasciarci intendere quanto più valga la genuinità dei comportamenti rispetto ai propositi studiati e programmati: “Il povero Rosier ricominciò ad asciugarsi la fronte”.

Entrato in sordina nel romanzo, disprezzato da Osmond, che lo considera “un somaro”, non difeso abbastanza da Isabel, questo piccolo personaggio ostinato assume nella storia un ruolo pungente tale da farci sperare (il romanzo non ci consentirà la verifica) che, come Davide per Golia, egli e Pansy riescano ad infliggere una cocente e irrevocabile sconfitta alla violenza morale e materiale dell’odioso Gilbert.

Si può dire che è attraverso le candide figure di Edward e Pansy e dei loro destini che James da una parte ci fa avvertiti che forse per Osmond si aprirà un periodo molto difficile, e per Isabel, grazie all’affetto che la lega a Pansy, potrà cominciare il periodo della sua ricostruzione. Ci sono altri elementi, comunque, che preconizzano il ripensamento di Isabel e il suo proposito di voler intraprendere un nuovo percorso. Si può far risalire l’inizio di tutto ciò alla comparsa a Roma di Lord Warburton, e alla sua visita ai coniugi Osmond. Dal momento dell’incontro di Isabel con lui, infatti, si succederanno riflessioni e confronti che mostreranno in lei la consapevolezza degli errori commessi e il forte desiderio di rimediarvi: “Non era colpa sua, lei non aveva teso inganno alcuno; aveva soltanto ammirato e creduto.”; “Non sono affatto impotente. Vi sono molte cose che intendo fare.” Si manifestano ancora una volta, cioè, i segni di una volontà positiva e ostinata e di una personalità che non conosce resa, sia pure in presenza di momenti in cui “il mondo appariva nero ed ella si chiedeva un po’ acerbamente per che cosa pretendeva di vivere.”, ma aveva capito che “Se aveva degli affanni, doveva tenerseli per sé, e se la vita era difficile non l’avrebbe resa più agevole il confessarsi battuta.”; “che io porti da me il mio fardello, senza scaricarlo sulle spalle degli altri!”

Solo Ralph, pur non parlandone apertamente con lei, sa della sua lotta interiore e del suo orgoglio messo a dura prova: “Una volta era stata curiosa, e adesso era indifferente; pure, nonostante la sua indifferenza, si dava da fare ora come non mai.” Ralph è l’uomo che ama senza speranza, che fa di Isabel un idolo da adorare anche quando da esso riceve soltanto ira e risentimento. Ha la pazienza del saggio (“che meraviglia di saggezza!” penserà di lui Isabel) che sa di portare su di sé anche il peso degli errori altrui: “La ragazza libera, viva, si era fatta tutt’altra persona”. Egli, più ancora che sua madre e Henrietta Stackpole, è il solo che riesca a scendere in profondità nell’animo non solo di lei (“l’unica fonte del suo errore era stata dentro di lei”), ma anche di Osmond. Osmond, per quanto abile sia a occultare la sua natura, non può nascondersi a Ralph, la cui perspicace sensibilità lo trapassa “da parte a parte” come con inesorabili raggi x: “Ralph non aveva mai conosciuto un uomo che vivesse tanto sul terreno della premeditazione. I suoi gusti, i suoi studi, i suoi risultati, le sue collezioni, erano tutti fatti a bella posta.”; “La sua ambizione non era di piacere al mondo, ma di piacere a se stesso eccitando la curiosità del mondo e ricusando poi di soddisfarla.”

Di questo egocentrismo, che “giaceva nascosto come una serpe in un fascio di fiori”, si renderà conto anche Isabel, allorché riflettendo sul suo matrimonio, sulle speranze andate deluse, concluderà che sì, a lui “sarebbe piaciuto che non avesse niente di suo all’infuori del suo bell’aspetto.”; “Egli voleva che ella non avesse libertà di pensiero”.

Ciò che è accaduto legandosi ad Osmond, dunque, è nientemeno che il ribaltamento della vita che aveva sognato di fare. Una sconfitta cocente, se ricordiamo i suoi primi passi a Gardencourt. Il tentativo di appartenergli come moglie, di amarlo, di dedicarsi a lui, non rinunciando però a se stessa, aveva dovuto presto soccombere di fronte alla sua volontà di renderla un semplice e piacevole strumento nelle sue mani. Tra i due coniugi corre ora addirittura un distacco “orribile”, giacché Isabel sa che Gilbert la odia.

C’è un confronto molto importante nel romanzo, in cui, si è visto, i confronti sono davvero parte determinante e rivelatrice. In quello che avviene tra Isabel e Pansy, la figliastra che ama il povero Rosier ma le è impedito di sposarlo dal padre, noi avvertiamo il momento in cui Isabel si rende perfettamente conto delle barriere create intorno a lei dalla sua soggezione a Osmond. Si accorge, ossia, di essere davanti alla figliastra un’ipocrita consigliera (“si sentiva colpevole di disonestà”), divenuta una Isabel così lontana da ciò che era prima del matrimonio: “si vergognava al pensiero di aver dato così poco peso alla preferenza della fanciulla.” James erge di fronte al fallimento di Isabel la innocenza, la sensibilità, la perspicacia e la fermezza di una ragazzina che fino a quel momento era stata considerata con troppa semplicità. Edward Rosier e Pansy diventano, così, ciò che Isabel non è riuscita ad essere, e la loro possibile unione le si presenta come la migliore testimonianza di una vita diversa e più felice a cui anche lei avrebbe potuto aspirare, fosse stato il suo orgoglio d’indipendenza più vicino al suo cuore piuttosto che alla sua mente.

Che poi tutto ciò serva anche a far intendere al lettore la terribile prigione in cui può trasformarsi il matrimonio, specie per una donna, è cosa altrettanto indubbia: “Le sembrava di misurare appieno ora che grande impegno fosse il matrimonio. Essere sposati voleva dire che in un caso come questo, quando si doveva fare una scelta, era una cosa naturale fare la stessa scelta del marito”. Il caso a cui ci si riferisce è quello in cui Isabel desidera lasciare per qualche giorno la sua residenza romana di Palazzo Roccanera per far visita in Inghilterra al cugino Ralph, vicino a morire. Ma abbiamo ancora: “erano sposati, nonostante tutto, ed essere sposati voleva dire che una donna dev’essere d’accordo con l’uomo insieme al quale, pronunciando voti tremendi, è salita all’altare.” La donna, ossia, è colei che paga sempre qualcosa al matrimonio. A volte anche troppo, com’è stato il caso di Isabel alla quale il morente Ralph dice: “Volevate guardare la vita con i vostri occhi… ma non vi è stato concesso; e di questo desiderio siete stata punita. Siete stata sbriciolata proprio nella macina del convenzionale!”

Sarà proprio per questo che a Isabel mancherà il coraggio di fuggire.

James non ci lascia intendere ciò che succederà di lei, una volta ritornata a Roma; ci induce solo sperare che torni per vincere la sua battaglia con il prepotente marito, e per aiutare Pansy ed Edward a sposarsi.

Ma non è difficile immaginare che egli abbia tracciato con la sua storia il volo di una colomba, umiliata troppo presto dalla vita.


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Bart