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Jonson, Ben

24 Dicembre 2020

Ben Jonson

Ben Jonson

(Da: Sìlarus – Anno VIII – N. 44; Novembre-Dicembre 1972)

Il motivo della stabilità interiore è al centro di tutta l’opera del grande poeta e commediografo inglese.

Ho pensato spesso ad un fenomeno che accade a me, ma anche, certamente, a tutti: sentirmi, cioè, il personaggio principale di una storia imponderabile, i cui limiti di tempo e di spazio mi sfuggono; gli altri uomini e la realtà che mi circonda (la natura, i suoi fenomeni, la società, il progresso, le trasformazioni sociali e così via) assumono un valore subordinato: esistono soltanto se io li vedo, li sento. La realtà, anche se smisurata, si riduce, per dirla coi filosofi, alla sola realtà che io percepisco e questa parte diventa tutta la realtà.
Chiuso nel mio studio o camminando in giardino, rifletto che io solo conosco quegli attimi della mia solitudine, che pure accrescono l’età della Storia, per me come per tutti e per tutto. E mi sfuggono, invece, le molte esistenze che si muovono, che vivono in quegli stessi attimi: i quali, perciò, misurano e danno significato soltanto alla mia vita.
Da cosa o da chi io sia spinto (o tutti gli uomini siano spinti) ad inoltrarmi in questa riflessione che spaventa e cala l’uomo in una fredda solitudine, non so dire, ma se ciò, come credo, accade a tutti, allora si può affermare, che ogni uomo stabilisce con il mondo un contatto irripetibile, unico, che è suo e non può essere o diventare di alcun altro.
Così, da questo contatto ciascuno scopre gradualmente una realtà che non è la stessa degli altri, ma che tuttavia può avere con esse innumerevoli sfumature d’incontro. L’equilibrio interiore che si stabilisce in virtù di questa graduale conoscenza è tanto più stabile quanto più la realtà è compresa e attesa da ciascuno.
Scoprire, invece, una dimensione nella quale non riusciamo a penetrare, perché inconcepibile o illogica (secondo la nostra misura) o troppo diversa da noi, genera l’inquietudine dell’uomo.
In tutte le epoche, i rivolgimenti politici, sociali, i fenomeni di disadattamento più o meno collettivi, sono partiti da inquietudini individuali, che si sono poi incontrate, esplodendo nel fatto storico.

* * *

Contemporaneo di Shakespeare, Ben Jonson ha dovuto pagare, e continuerà a farlo, il prezzo di questa infelice circostanza, a causa della quale tutta la sua opera viene misurata su quella del celebre drammaturgo.
Ancora oggi, la critica non vuole intendere che due artisti, i quali vivano nella stessa epoca e, di più, nello stesso ambiente, possono esprimere geni differenti e tuttavia grandi.
Lo abbiamo detto nella premessa: ogni uomo stabilisce con la realtà un contatto unico e irripetibile, che non può essere sottoposto a confronti, regole o misure.
Mondato dalle caratteristiche che ogni epoca si dà, questo contatto, se volessimo riproporre quell’uomo in qualsiasi tempo, rimarrebbe sempre il medesimo: unico e irripetibile.
Jonson ne intuì l’importanza e in tutta la sua opera cercò di esprimere il significato che questo rapporto assume per l’equilibrio interiore dell’uomo.
La realtà si manifesta in lui attraverso la figura del cerchio e l’uomo è il suo centro.
Quanto più l’uomo riesce a dominare la realtà, neutralizzandone le forze centrifughe che lo insidiano (i molti vizi: la superbia, la lussuria, l’ambizione, il malcostume, l’ambiguità, la pigrizia), tanto più saprà stabilizzarsi al centro, e questa sicurezza, rappresentata dall’equidistanza tra l’uomo e la realtà, è il fine supremo della vita terrena, la perfezione.
Quando non viene nominato direttamente, il circolo assume le figure della casa, del trono, della proprietà, del cosmo, del vaso, dell’anello.
Riconosciuto valido il principio, Jonson cercò di essergli fedele e ciò che molti critici hanno voluto scambiare per una irragionevole intransigenza morale, rappresentò per lui un ideale di vita.
Nel componimento “A uno che chiese il Sigillo della Tribù di Benâ€, si può leggere:

“Bene, che fare del mio fragile vaso / l’ho deciso: tenerlo lontano da onde e furia, / perché non sia sballottato, spezzato, reso nulla o ancor meno; / voglio vivere fino a quel punto, per il quale sono uomo, / e dimorare nel mio centro finché possoâ€.

Il proposito di non venire a compromessi con la realtà, di non vagare senza un preciso scopo con il rischio di perdere la sicurezza interiore, è ribadito nei bei versi di “Al Mondoâ€:

“Né per la pace mia andrò lontano, / come fanno i vagabondi, che continuano a gironzolare; / ma farò le mie forze, così come sono, / qui nel mio seno, e in casa.â€,

in cui fare le proprie forze a casa significa che l’uomo può rafforzarsi soltanto se sa mantenere la posizione di centralità.
Ciò contribuisce ad allargare la conoscenza della realtà, anche se può sembrare vero il contrario, e cioè che l’uomo possa più facilmente raggiungere conoscenza, allontanandosi dal proprio centro.
Infatti nell’elogio all’erudito John Selden, dice:

“… voi, che siete stato / sempre a casa vostra; eppure avete visto ogni paese; / e come un compasso, tenendo un piede saldo / sul vostro centro, riempite il vostro circolo / di sapienza comuneâ€.

Nella tragedia “Sejanusâ€, il personaggio secondario di Lepido ripropone la necessità per l’uomo di stabilizzare il proprio io al centro della realtà:

“…la semplice e / passiva fortitudine / di soffrire in silenzio; di mai tendere / queste braccia contro la piena; di vivere a casa, / con i miei pensieri e la mia innocenza attorno a me, / senza tentare le fauci del lupo: ecco le mie artiâ€.

Anche i servi di Lady Pecunia, nella commedia “The Staple of Newsâ€, sostengono che per ricevere le mance del visitatore, ciascuno deve rimanere al proprio posto.
Cioè, non avventurandosi nella sfera di realtà che appartiene agli altri, ciascuno può restare al centro della propria.
Come ha fatto notare il giovane critico americano Thomas M. Green: “possiamo rallegrarci che la sua intuizione dell’io accentrato continuasse a lasciare spazio a una curiosità esuberante per quanto discriminatrice. Il compasso, pur tenendo un piede saldamente piantato sul suo centro, non cessò mai di vibrare l’altro in vasti, fermi e mai stanchi archiâ€;

Accanto al motivo dell’io accentrato, espresso assai bene e senza veli soprattutto nelle poesie, appare in Jonson, sin dalla commedia giovanile “Every Man in his Humorâ€, una specie di attrazione per i personaggi proteiformi, così lontani e all’opposto del suo ideale morale.
E infatti le sue migliori commedie: “Volponeâ€, “L’Alchimista†“Bartholomew Fairâ€, non sono altro, a nostro avviso, che una rappresentazione comica, caricaturale, che Jonson ha voluto fare nei confronti dell’uomo che, una volta rinunciato alla propria stabilità, tenta di assumere tutte le forme del reale. Sir Politic Would-be, in “Volponeâ€, dice:

“Messere, a un uomo saggio tutto il mondo è il suo paese. / Non è l’Italia, né la Francia, né l’Europa / che deve limitarmi, se i fati mi chiamano.â€

Ma questa rappresentazione (una specie di fiera dell’uomo), sebbene ironica, è lungi dall’essere amara e la grandezza di queste commedie risiede nel sorriso e nel divertimento che stanno dietro i personaggi e che sono del moralista Jonson, il quale, anziché mostrarsi severo, simpatizza con le loro trovate, i loro sotterfugi, le loro ambizioni e illusioni.
Il villano Cokes che, uscito dal suo ambiente per recarsi alla fiera di S. Bartolomeo, si sperde e non sa più tornare a casa, può riassumere questa simpatia, rafforzando nel contempo il principio jonsoniano di una necessaria centralità, stabile e sicura:

“Lo sai dove abito io, ti prego?… Amico, lo sai tu chi sono e dove mi trovo? Io non lo so. Giuro. Portami a casa, e ti ricompenserò, laggiù ho denaro quanto basta. Mi sono perso, e ho perso il mio mantello, e il mio cappello…â€


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Bart