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La non politica e i suoi calcoli

17 Marzo 2013

di Ernesto Galli della Loggia
(dal “Corriere della Sera”, 17 marzo 2013)

Con l’elezione alla presidenza delle Camere di Pietro Grasso e di Laura Boldrini, grazie ai voti della coalizione di sinistra animata dal Partito democratico, che li aveva eletti – si consuma definitivamente quella lunga storia della Sinistra italiana che per settant’anni ha avuto al suo centro l’esperienza comunista, e della quale quel partito è stato fino a oggi in qualche modo la prosecuzione.

Una lunga storia, dicevo: che nei decenni passati ha visto già sedere sul più alto scranno di Montecitorio quattro suoi eminenti rappresentanti: Pietro Ingrao, Nilde Iotti, Giorgio Napolitano e Luciano Violante. Basta per l’appunto ricordare quei nomi per misurare l’ampiezza senza misura della frattura che oggi si consuma a sinistra. Non si tratta delle idee. È ovvio che i valori e le visioni del mondo delle persone che oggi sono investite delle due massime cariche parlamentari siano molto diversi da quelli dei loro predecessori ricordati sopra. Ma ciò che innanzitutto colpisce è quanto siano sideralmente distanti le rispettive biografie. In sostanza, infatti, nelle biografie degli attuali presidenti del Senato e della Camera non ha il minimo posto la politica; che invece è stata la vita e la passione inesausta degli altri.

Intendo la politica come scontro di idee, esperienza di conflitti sociali, come elaborazione di strategie di lotta, come partecipazione ad assemblee elettive e pratica nell’attività deliberativa e legislativa: nulla di tutto questo c’è nel passato di Grasso o di Boldrini. Non si tratta di stabilire se ciò sia un bene o un male. Quel che importa notare è che qui c’è un punto di diversità assoluta rispetto a quella che per decenni, viceversa, è stata la vita concreta (e aggiungo l’ideale di impegno civile) degli uomini e delle donne che si sono riconosciuti nella Sinistra. Alla quale peraltro non risulta che fino a ieri né l’uno né l’altra abbiano mai detto di appartenere. Si può allora forse dire che l’elezione di Grasso e di Boldrini segni non tanto una vittoria dell’antipolitica quanto piuttosto, in senso proprio, della non politica.

È come se quella Sinistra che viene da lontano (e la parte cattolica che da tempo le si è aggiunta) si fosse convinta di non poter più trovare al proprio interno, nella propria storia, né volti, né voci, né biografie capaci di rappresentarla veramente. Come se essa giudicasse ormai irrimediabilmente inutilizzabile la propria vicenda politica, vicina e meno vicina: in un certo senso le proprie stesse radici. Rifiutatasi dopo essere stata comunista di divenire socialdemocratica, e sempre in preda all’antica paura di dispiacere a sinistra, la cultura politica del Partito democratico sembra aver smarrito il filo di qualunque identità che si colleghi al suo passato. Sicché oggi le è apparso naturale designare ai vertici della rappresentanza del Paese da un lato un importante membro della magistratura inquirente, dall’altro una apprezzata funzionaria internazionale, impegnata nella difesa dei diritti umani.

Certo, dietro tale designazione c’era evidentemente anche un calcolo politico. Quello che, presentando candidature ben viste a sinistra, il Pd riuscisse finalmente ad agganciare i grillini, nella speranza di portarli domani ad appoggiare il tentativo di un governo Bersani. A tale obiettivo è stato consapevolmente sacrificato vuoi ogni residuo rapporto con il Centro di Monti, vuoi ogni eventuale avvio di negoziati armistiziali con il Pdl e con la Lega. È quanto mai dubbio, però, che una manciata di voti grillini per il presidente Grasso annunci davvero una conversione del Movimento 5 Stelle e l’alba di un nuovo ministero. Assai più probabile, dopo questa giornata, è che sull’orizzonte italiano si allunghi, invece, solo l’ombra di elezioni anticipate.


Quei segnali in arrivo dai 5Stelle
di Eugenio Scalfari
(da “la Repubblica”, 17 marzo 2013)

DA MOLTI anni non mettevo più piede a Montecitorio, è passato tanto tempo da quando nel 1968 entrai in quel palazzo da deputato e prima e dopo più volte da giornalista. Ancora ricordo l’incontro che feci in Transatlantico con Giorgio Amendola. Mi accolse con affetto, ci conoscevamo bene fin dai tempi dei convegni organizzati dal “Mondo”. Mi diede il benvenuto, “c’è bisogno di facce nuove”, mi disse ma poi aggiunse: “Resterai deluso perché qui noi costruiamo castelli di sabbia, neppure bagnata”. Non era una prospettiva incoraggiante costruire castelli con la sabbia secca, eppure in quelle stanze, in quei corridoi, in quell’aula c’erano i rappresentanti del popolo sovrano e questo mi dava orgoglio e speranza. Ieri ci sono tornato. Volevo respirare l’aria che tira nel momento in cui le facce nuove e giovani sono il settanta per cento dei deputati e le donne poco meno della metà. M’è sembrato che la curiosità fosse il sentimento dominante che animava tutti, insieme ad un certo imbarazzo sul contegno da assumere verso gli altri, i giornalisti anzitutto, ma anche i funzionari della Camera e i commessi nella loro divisa.

Curiosità, imbarazzo, timidezza. Distinguere tra quei giovani i grillini di 5Stelle non era affatto facile. Di loro si parla come “marziani”, ma marziani sembravano quasi tutti. Sono andato in sala di lettura a sfogliare i giornali e lì si è avvicinato uno di quei giovani. “Volevo salutarla – mi ha detto – Lei ci tratta molto male nei suoi articoli ma io mi sono formato leggendola fin da quando ero al liceo, mio padre portava Repubblica a casa e me la dava. Leggi con attenzione – mi diceva – leggi le pagine della cultura e dell’economia, ti aiuteranno a capire qual è il mondo in cui dovrai vivere e lavorare”.
L’ho ringraziato invitandolo a sedersi. Ha voglia di scambiare qualche parola con me? Spero che non le crei problemi. “Nessun problema, anche se la mia posizione politica è quella del nostro Movimento, perciò lei la conosce già”. Infatti, non ho domande politiche da farle, vorrei invece capire quali sono i suoi sentimenti ora che è arrivato fin qui. Lei guarda con interesse il lavoro che l’aspetta? “Sì, certamente, siamo qui per questo”. Pensa che durerà a lungo oppure si augura nuove elezioni che forse vi darebbero più forza di oggi? “Credo che ci siano molte cose utili da fare, soprattutto per quanto riguarda la moralità pubblica, il lavoro precario e il sistema fiscale. Queste riforme non possono aspettare, la gente ci ha votato per realizzarle. Quando saranno state fatte si tornerà al voto”.

Non potrete farle da soli le riforme che avete in programma. “Certo, ma non saremo noi a cercare gli altri, sarà il popolo ad imporle”. Siete contro l’Europa? “Siamo europeisti ma vogliamo un’Europa dei popoli non della burocrazia e dei ricchi”. Lei parla un linguaggio di sinistra. Posso chiederle chi ha votato cinque anni fa? “Non ho votato”. Non ha mai votato prima che nascesse il grillismo? “Non lo chiami così. Dieci anni fa votai per Berlusconi ma presto mi sono accorto di aver sbagliato”. Non mi sembra che la lettura dei miei articoli abbia avuto molto effetto su di lei. “Non è così, capii alcune cose che mi sono rimaste bene fisse nella mente: l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la libertà di ciascuno, i diritti di cittadinanza. Le 5Stelle vogliono queste cose, i partiti esistenti le vogliono a parole ma non le hanno tradotte in fatti, perciò con loro non collaboreremo, ma accetteremo i loro voti se ce li daranno”. Non importa da dove verranno? “No, non importa”. Qual è stato il suo lavoro finora? “Ho fatto volontariato per servizi all’estero dove ci sono i caschi blu dell’Onu. Sono stato in Libano e anche in Kenya”. Ed ora è un cittadino di 5Stelle. “Già e mi sembra molto coerente col mio lavoro”. Non ha figli? “No, non ancora”. Un personaggio storico che sente vicino? “Direi Papa Giovanni ma adesso la saluto, sento suonare il campanello, si vota”. Lei è credente? “Lo sono a modo mio” e se ne andò correndo verso l’ingresso dell’aula.

***

Poche ore dopo le due Assemblee parlamentari hanno eletto i loro Presidenti, Laura Boldrini alla Camera e Pietro Grasso al Senato. Bello il discorso di insediamento della Boldrini, bellissimo quello di Grasso, la cui elezione è stata tanto più importante perché resa più solida dall’apporto di dodici voti provenienti dai neo-senatori del Movimento 5Stelle. Era un fatto atteso da alcuni e del tutto imprevisto da molti altri. Non è la rottura del gruppo grillino ma il segnale di una sua evoluzione che potrebbe rendere costruttivamente utile l’inserimento di quel gruppo nelle istituzioni.
Pierluigi Bersani ha avuto l’intuizione di candidare alla presidenza delle due assemblee parlamentari due personaggi del tutto nuovi alla politica e il Partito democratico, anch’esso fortemente rinnovato nella sua rappresentanza, ha risposto con apprezzabile compattezza. Questo risultato non risolve il problema del governo ma segna comunque una tappa essenziale verso una discontinuità che sia creativa e serva ad un cambiamento profondo dell’etica pubblica e della solidarietà sociale.

Nel suo discorso subito dopo l’elezione Pietro Grasso ha ricordato alcuni nomi di riferimento: Aldo Moro, del cui rapimento ricorreva ieri la data; il suo punto di riferimento nel palazzo di giustizia di Palermo, Antonino Caponnetto; la moglie di uno degli agenti di scorta caduti con Falcone nella strage di Capaci ed ha inviato il saluto di tutto il Senato a Papa Francesco che appena poche ore prima aveva evocato una Chiesa povera a servizio dei poveri. A ciascuno di quei nomi l’intera assemblea ha tributato in piedi lunghi e intensi applausi. Purtroppo c’era nell’aula un settore dell’emiciclo semivuoto e non è stato bello vedere quelle assenze.

L’ultimo e forse e più prolungato applauso è stato per Giorgio Napolitano, la cui presenza istituzionale in questa vicenda è stata decisiva. Senza il suo intervento che ha fermato l’iniziativa di Mario Monti di candidarsi al Senato abbandonando il governo in un momento di particolare delicatezza economica e sociale, non potremmo celebrare oggi il risultato positivo che si è verificato.

***

Può darsi che ora dopo le consultazioni che avverranno al Quirinale a partire dal 20 prossimo, un governo Bersani possa formarsi con la solidità necessaria, ma può darsi anche di no, nel qual caso spetterà al Capo dello Stato nominare un nuovo governo che possa riscuotere un ampio e solido consenso parlamentare.

Credo che non debba esser composto da professionisti della politica ma da persone tratte dalla società civile con le necessarie competenze che ogni governo richiede: economiche, giuridiche, culturali.

Nel frattempo i partiti debbono profondamente trasformarsi diventando o ri-diventando strutture di servizio della società, canali di comunicazione tra i cittadini e le istituzioni, tra i legittimi interessi particolari e quello generale del quale tutte le istituzioni a cominciare dallo Stato debbono essere portatrici.
Elezioni ravvicinate non sono un bene per questo Paese; comporterebbero un prolungato periodo di incertezza che aggraverebbe oltremodo la nostra posizione in Europa con le relative conseguenze sulla nostra già disastrata economia. Un governo solido è dunque estremamente auspicabile e spetta soprattutto al centrosinistra renderlo possibile.


Ma la strada resta in salita
di Federico Geremicca
(da “La Stampa”, 17 marzo 2013)

Un giudice antimafia, forse l’ultimo vero erede di Giovanni Falcone, e una donna da anni in prima fila – come portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati – nel soccorso e l’aiuto a migranti e profughi politici. Piero Grasso e Laura Boldrini, cioè: entrambi arrivati per la prima volta in Parlamento tre settimane fa, sono da ieri i nuovi presidenti di Camera e Senato. Pier Luigi Bersani, il leader che ha scommesso su di loro, ha commentato la doppia elezione con uno di quei tweet tanto di moda: «Se si vuole, cambiare si può ».

L’ascesa di Grasso e Boldrini porta con sé due buone notizie ed una sensazione meno positiva. Le notizie, intanto. La prima: qualche tessera del complicato puzzle alla fine del quale dovrebbe esser rivelato l’assetto politico-istituzionale della nuova legislatura, comincia ad andare al suo posto. La seconda: le due tessere sistemate ieri costituiscono una (piacevole) sorpresa per novità, storia personale e perfino profilo etico, il che non guasta mai (a maggior ragione oggi, con la politica messa in un angolo dai frequenti scandali).

La sensazione meno positiva riguarda invece il prossimo – e ancor più importante – obiettivo da centrare: la formazione del nuovo governo.

Alla doppia elezione di ieri, infatti, ci si è arrivati alla fine di un incerto dialogo tra le parti che ha ora lasciato sul terreno rancori, delusioni e propositi di rivalsa. Lo stato dei rapporti tra Bersani e Monti, per esempio, è senz’altro assai peggiore di quanto lo fosse prima; il partito di Silvio Berlusconi denuncia l’«occupazione » delle presidenze da parte del Pd e spinge per elezioni il prima possibile; e il Movimento Cinque Stelle, infine, è letteralmente imploso – tra pianti, urla e recriminazioni – di fronte alla prima occasione in cui è stato chiamato a compiere una scelta: il che lascia presagire che tenterà di tenersi il più distante possibile da circostanze simili… Un quadro che non pare certo propedeutico – sia sul piano del clima che dei rapporti politici – alla formazione di una qualsiasi maggioranza di governo.

Anche perché, a differenza di quel che qualcuno aveva sperato, Pier Luigi Bersani non pare aver alcuna intenzione di cambiare la linea annunciata subito dopo la mezza vittoria (o la mezza sconfitta) del 24 e 25 febbraio. L’ha sintetizzata in uno slogan che sta diventando concretamente comprensibile ogni giorno di più: «Mai più responsabilità senza cambiamento ». Che vuol dire: con larghe intese e governi tecnici abbiamo già dato, e con Berlusconi non si torna, a meno che della partita non sia anche Beppe Grillo. Cambiamento, dunque: come per i nomi ed i profili dei nuovi presidenti di Camera e Senato. Cambiamento: che ora, a proposito di governo, significa mai un esecutivo senza il Movimento Cinque Stelle, la dirompente novità politica frutto – appunto – della voglia di cambiamento degli italiani.

La maggioranza del Partito democratico è certa che Grillo non voterà mai la fiducia ad un governo-Bersani e si va ormai convincendo che il segretario non defletterà da questa linea: e che l’unico «piano b » che sarebbe disposto a prendere in considerazione sono elezioni anticipate a giugno. Il leader del Pd, infatti, è convinto che il no a soluzioni che replichino l’esperienza Monti, per esempio, può permettere di recuperare consensi tra i tanti elettori democratici incantati da Grillo. Senza contare il fatto che il precipitare verso elezioni da far svolgere in tempi brevissimi, renderebbe impossibili nuove primarie e toglierebbe dal campo Matteo Renzi.

Questo è un obiettivo gradito alla larga maggioranza del Pd, ma è soprattutto con i cosiddetti «giovani turchi » di Fassina, Orlando e Orfini che il segretario sta cercando di costruire un asse che abbia come obiettivo (dopo l’abbandono del Parlamento da parte di personalità come D’Alema, Veltroni, Turco e altri) una sorta di fase due della «rottamazione », da gestire da Largo del Nazareno – sede del Pd – piuttosto che da Palazzo Vecchio. Ma se questo è davvero il disegno, è chiaro che le acque potrebbero cominciare ad agitarsi notevolmente anche all’interno del Pd: con i prevedibili effetti destabilizzanti sul piano della formazione del governo…

Il lavoro che è di fronte a Napolitano ed alle forze politiche, dunque, resta difficile. Il primo passo, però, è compiuto: e due presidenze su quattro, sono assegnate. Resta da trovare una soluzione per le tessere più difficili dell’intero puzzle: capo del governo e Quirinale. Non sarà facile, e il tempo stringe. Non solo stringe per chi vuole tornare alle urne già a giugno: stringe soprattutto per le risposte urgenti da dare a un Paese squassato da una crisi economica e sociale che pare aggravarsi ogni giorno di più.


Come ci siamo ridotti Molto meglio le urne
di Vittorio Feltri
(da “il Giornale”, 17 marzo 2013)

Sono tutti contenti perché hanno eletto la presidente della Camera, Laura Boldrini, di Sel, il minipartito di Nichi Vendola. La quale presidente, avendone noi udito il discorso improntato alla più trita retorica pauperistica, assumerà di sicuro il nome di Francesca, come il nuovo Papa. Ha parlato delle donne vittime della violenza, dei carcerati, dei sofferenti, dei miserabili, degli ultimi e dei primi. Scusate, dei primi non ha detto nulla, perché sono gaglioffi. Un’omelia perfetta, che agli astanti ha strappato applausi a scena aperta. Applausi ripetuti e, quel che è peggio, convinti.
Convinti di che? Che la Boldrini non ha capito un’acca: chi presiede la Camera deve far funzionare l’aula, sorvegliare che nessuno sgarri e che si rispettino tempi e regolamenti. Non rientra fra i suoi compiti indicare la linea politica ai deputati. Lei invece non ha resistito alla libidine di dire la sua su come far girare il mondo. Peccato che della sua opinione non vi fosse alcun bisogno. Faccia la notaia e non ci ammorbi con chiacchiere senza capo né coda, buone tutt’al più per un comizio alle cime di rapa.

La Boldrini al vertice di Montecitorio è il segno che il declino non è cominciato, ma si è già compiuto. Il prossimo passo ci porterà alla catastrofe. Se la Casta era orrenda, la mezza Casta che ci siamo dati col voto del 24-25 febbraio è addirittura inguardabile: velleitaria, fumosa, parolaia. Forse ruberà di meno. Forse. Quanto a rendimento politico, però, aspettiamoci un fallimento totale. Lo si è già capito. I compagni hanno fatto i matti per dare un assetto alle assemblee: trattative, mercanteggiamenti, negoziati. Neanche si trattasse di decidere i destini dell’umanità. E invece erano in ballo soltanto due poltrone secondarie, da considerarsi inutili finché non c’è una maggioranza in grado di esprimere un governo duraturo. Che oggi non esiste, e probabilmente non esisterà neppure domani, per ovvii motivi.
Mancano i numeri al Partito democratico, che ha vinto ma appena appena. Cosicché Pier Luigi Bersani, poveraccio, o trova una ruota di scorta o rimane fermo, immobile. Egli invero ha tentato di accordarsi con Beppe Grillo, santone del Movimento 5 Stelle, però è rotolato in buca come una palla da biliardo. Alle sue profferte, i grillini hanno risposto con pernacchi, volgari ma espressivi. D’altronde essi sono quello che sono: pagliaccioni, non stupidi. Se si mettono a collaborare col Pd, coautore del disastro politico in cui siamo precipitati, hanno solo da perderci: la faccia e le cadreghe. E alle prossime consultazioni vanno a ramengo: tornano a lavorare, se hanno un posto (del che dubito). Se, viceversa, rimangono alla finestra a godersi lo spettacolo dei progressisti annaspanti nel paciugo, «rischiano », oltre a divertirsi, di aumentare il consenso popolare.
Dato poi che il leader di Bettola ha ripetutamente affermato che gli fa schifo anche solo l’idea di percorrere cento metri a braccetto con Silvio Berlusconi, non si vede con chi altri egli potrebbe accompagnarsi per dare vita a un qualsivoglia esecutivo, pur mingherlino e asfittico che sia. Né è ragionevole immaginare che sia Giorgio Napolitano a togliere le castagne dal fuoco: che cosa mai potrebbe inventarsi l’inquilino del Colle per dare una guida al Paese? Un altro governo tecnico? Appoggiato da chi? Dal Pd, dal Pdl e dai centristi civili? Ma fatemi il piacere. Dopo l’esperienza tecnica inflittaci da Mario Monti, la pelle di noi italiani, ridotti in miseria, si accappona anche al solo sentir parlare di professori e affini. Vade retro docente, che fa rima con indecente. E allora? Niente, sprofonderemo nel ridicolo, correndo a rivotare in estate con la stessa legge elettorale discinetica che ci ha trascinato a questo punto.
Assisteremo dunque a un replay delle recenti consultazioni? Sarebbe una disgrazia, l’ennesima. Ma immaginare qualcosa di diverso, allo stato attuale, è un’impresa che ci coglie impreparati. Siamo nelle mani di Napolitano. Oddio in che mani siamo.


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Bart