La «strana coppia » serra i ranghi per non fare cadere il Governo18 Luglio 2013 di Francesco Verderami Nella boxe la sequenza dell’uno-due prevede un primo colpo al fegato – per indebolire la guardia dell’avversario – e un successivo colpo al mento per mandarlo al tappeto. Il «caso kazako » è preparatorio al gancio, cioè all’eventuale sentenza di condanna di Berlusconi: se così fosse, sarebbe difficile per il governo restare in piedi. Perciò Letta e Alfano hanno stretto i guantoni a mo’ di protezione, sebbene si siano messi alle corde da soli con una vicenda dai contorni poco chiari. Uscire dall’angolo è possibile ma solo giocando insieme, ecco cosa ha spinto ieri il premier a prendere pubblicamente le difese del suo vice, prima di ribadirlo davanti al Senato. Il suo intervento di domani a Palazzo Madama è indispensabile, ed era quanto avevano già consigliato Casini, Monti e la stessa Finocchiaro al titolare dell’Interno due giorni fa, dopo il dibattito in Aula: «Altrimenti non si regge ». CONTATTI E COMPROMESSI – Così sarà. Ieri Letta e Alfano si sono tenuti in contatto per tutta la giornata, consapevoli fin dalla mattina che Renzi avrebbe sfruttato l’occasione per lavorarli al corpo, «per logorare il governo », in attesa di sapere se la Cassazione metterà knock-down il Cavaliere. In politica gli schemi sono prevedibili, ed era infatti scontato che il responsabile del Viminale non avrebbe ceduto dinnanzi alle pressioni di un pezzo del Pd, perché «nessuno può pensare di tenere le assise del proprio partito giocando con la mia testa ». Nessun passo indietro o consegna delle deleghe. Non è stata presa in considerazione nemmeno l’idea di mediazione avanzata riservatamente dalla Finocchiaro al Pdl: se Alfano offrisse le dimissioni, noi poi le respingeremmo. Niente da fare. Il primo a osteggiare qualsiasi forma di compromesso è Berlusconi. Incassato l’appoggio del Cavaliere, peraltro, il segretario del Pdl ha visto rafforzare la propria posizione dalla mossa della Lega, che non parteciperà al voto sulla mozione di sfiducia. Il colloquio di Alfano e Maroni ha svelenito un clima che si era fatto pesante tra due forze alleate al Nord. Certo il leader del Carroccio ha tenuto a ribadire al suo successore al Viminale che «ai miei tempi su una cosa del genere mi avrebbero informato ». E l’altro di rimando: «Sì, ma ai tuoi tempi avevi il capo della polizia, che io ancora non avevo quando è successa questa cosa ». Già, ma cos’è stata questa «cosa »? Perché la relazione del capo della Polizia sulla sequenza degli eventi non basta a spiegare l’«affaire Ablyazov ». LE PAURE – «Siamo stati coinvolti in un gioco più grande di noi », aveva confidato Alfano a un dirigente del Pdl tre giorni fa, lasciando intuire ciò di cui ieri si discuteva sotto voce in Transatlantico. Sebbene i servizi segreti italiani abbiano subito proclamato la loro estraneità alla faccenda, nel Palazzo si suppone il contrario, al punto da far dire a esponenti di primo piano della «strana maggioranza » che «l’Aise c’è dentro fino al collo », e che alla prossima riunione del Copasir – il comitato di controllo sui servizi – verranno chiesti chiarimenti. LA SFIDA – Una sfida che il premier e il suo vice contano di superare, nonostante le tensioni nel Pd. Per il titolare dell’Interno i problemi nella coalizione saranno di sicuro meno complicati di quelli che dovrà risolvere al Viminale, dove c’è forte tensione. E chissà se in queste ore difficili gli sarà tornato alla mente il consiglio che gli diede Bersani mentre si stilava la lista dei ministri: «Angelino, dammi retta, lascia stare quel dicastero. Basterebbe un corteo gestito male dalle forze dell’ordine per scaricare tutto su di te e quindi sul governo ». Il premier bersaglio del «fuoco amico » La sorte di Angelino Alfano ormai è diventata il riflesso dei problemi del Pd. Dietro la sagoma del vicepremier e ministro dell’Interno spunta quella del capo del governo, Enrico Letta: il potenziale bersaglio grosso di un «fuoco amico » che si sta incattivendo anche per misere beghe congressuali. Il voto in Senato di domani non sarà un verdetto politico sul primo, ma sul presidente del Consiglio. I parlamentari di Guglielmo Epifani dovranno dire in aula se il loro appoggio a Letta esiste ancora; oppure se i malumori di alcuni settori del Pd e le pressioni della corrente di Matteo Renzi, sempre più risucchiato dalle sue ambizioni personali, saranno scaricate su Palazzo Chigi. La decisione di dodici senatori «renziani » di votare per le dimissioni di Alfano sul caso kazako insieme a Sel e Movimento 5 Stelle significa questo: staccarsi dalla maggioranza anomala guidata da Letta, e metterla seriamente a rischio contando su quegli spezzoni del Pd che vivono con sofferenza l’alleanza col Pdl. Questo non toglie che l’espulsione illegale della moglie e della figlia di sei anni del controverso dissidente kazako abbiano lasciato una macchia non tanto per quanto Alfano sapeva, ma per quello che è successo a sua insaputa. La richiesta al ministro di «rimettere le deleghe » a Letta, e dunque dimettersi, avanzata da un’esponente del Pd come Anna Finocchiaro, rivela un malumore diffuso. Chiamare in causa il premier che domani sarà in aula per difendere il suo vice, come fa Renzi, suona tuttavia come un’ulteriore provocazione. Il sindaco di Firenze si sta muovendo come una sorta di «premier ombra » o, meglio, in pectore . Mima una politica estera parallela a quella di Letta. Muove un gruppo di fedelissimi che si comportano da guastatori in Parlamento e nel dibattito congressuale. E sta tentando di piegare Epifani alla propria agenda congressuale, spinto da chi lo raffigura come il miglior candidato alla premiership. Renzi può scommettere sulle frustrazioni a sinistra per l’intesa con Silvio Berlusconi, e su alcuni dei parlamentari eletti con Mario Monti. E siccome non riesce a ottenere un congresso che gli permetta una marcia trionfale verso la segreteria e poi,così ritiene, verso il governo, ha deciso di martellare su Palazzo Chigi. Il paradosso di un dirigente del Pd che bersaglia un presidente del Consiglio del suo stesso partito non sembra una remora né per lui, né per i suoi sostenitori. A scoraggiare la manovra non basta neppure che Epifani consideri inverosimile l’ipotesi di formare un altro governo insieme a Sel e Beppe Grillo, se l’attuale cade. Passa in secondo piano perfino la controindicazione più rilevante, di tipo internazionale: il pericolo di contraccolpi dell’instabilità politica sulla ripresa economica e sui mercati finanziari. Eppure è una variabile messa in evidenza non solo da Letta ma dal governatore di Bankitalia, Ignazio Visco, che teme la risalita dello spread sui titoli di Stato. È singolare che i protagonismi scomposti tendano a rimuovere questo sfondo. Forse Renzi conta di incrociare i mugugni del centrodestra contro il triplo incarico di Alfano: vicepremier, segretario del Pdl e ministro dell’Interno. Ma l’altolà che Berlusconi ha dato in sua difesa era indirizzato in primo luogo ai suoi; e ha scoraggiato voglie di agguati. Per questo, il voto di domani in Senato può diventare il penultimo ostacolo estivo per il governo, prima della sentenza della Corte di Cassazione sul Cavaliere, prevista il 30 luglio: anche se le tensioni non possono essere attribuite solo alle manovre del sindaco di Firenze, che infatti protesta e respinge le accuse. In realtà, Renzi è lo specchio della crisi del Pd. E la sua candidatura virtuale fa paura non in sé ma perché il vertice dei Democratici non sembra in grado di opporgliene una convincente. I giochi sono agli inizi. Non è troppo presto, tuttavia, per segnalare nell’impazienza del «partito della crisi » un calcolo che sa di azzardo. Il Pd se ne sta rendendo conto. E ieri sera ha cercato di sventare qualunque tentazione, anticipando il no alla sfiducia. E’ un gesto di responsabilità che aspetta una conferma in Parlamento. Su Alfano un’inutile sceneggiata Cominciata da due giorni, e destinata a durare fino a venerdì, la finta battaglia per le dimissioni di Alfano difficilmente si concluderà con la sua uscita dal Viminale. È in corso una grande e maldestra sceneggiata, che non porterà a nulla. Malgrado la posizione del ministro si sia appesantita, ieri – dopo che il suo ex capo di gabinetto Procaccini aveva smentito (salvo poi ripensarci) la ricostruzione dei fatti illustrata in Parlamento, affermando di aver avvertito Alfano della delicatezza del caso Shalabayeva, e di non aver agito a sua insaputa – il Pdl ha rifiutato lo scambio, proposto dal Pd, tra il ritiro della mozione di sfiducia Sel-M5s e la rimessione delle deleghe da parte dello stesso Alfano, che in quest’ipotesi salomonica avrebbe potuto tuttavia mantenere la vicepresidenza del consiglio. In realtà è emerso chiaramente che nessuna delle parti in causa ha voglia di andare fino in fondo, con il rischio di provocare una crisi di governo senza alternative a portata di mano. Primi tra tutti Vendola e Grillo, che non a caso hanno chiesto che la mozione di sfiducia sia votata al Senato e non alla Camera, dove sarebbe stato più facile per loro farla passare con l’aiuto anche solo di una parte del Pd. Renzi, accusato a lungo di essere filoberlusconiano, a sorpresa s’è schierato con loro, per accelerare la sua campagna precongressuale. Usando Alfano, punta infatti a recuperare consensi nella sinistra del partito, stanca del forzato accordo con il Pdl. Quanto a Epifani, dopo la brutta figura della sospensione dei lavori parlamentari su richiesta di Berlusconi e contro i giudici della Cassazione, sperava di cavarsela e non restare schiacciato tra governo e opposizioni facendo la mossa, come si suol dire, e alzando la voce alla vigilia, per poi chiudere rapidamente tutto il giorno dopo, senza mettere a rischio il governo. Gli è andata male e il caso gli è di nuovo sfuggito di mano. A destra Berlusconi ha difeso ancora una volta il suo pupillo Angelino, pur lasciando che i falchi del suo partito gongolassero, perché Alfano, che è il loro bersaglio, uscirà comunque acciaccato dalla vicenda. Tra le due ali più radicali del centrosinistra e del centrodestra si è incredibilmente stabilita, in questo modo, un’inedita alleanza di fatto, puntata contro le larghe intese. Non riusciranno a farle saltare, anche perchè non lo vogliono, ma a logorarle ancora, questo sì. Alla fine, com’è ovvio, la difesa dell’esecutivo toccherà a Letta. Non sarà particolarmente difficile salvarlo, vista la confusione con cui è stato cinto d’assedio, ma neppure una passeggiata. In missione a Londra, il presidente del consiglio ha fatto sapere che venerdì sarà al Senato accanto al suo vicepresidente: chiaro segno di solidarietà, indispensabile, dopo l’eloquente solitudine di Alfano lunedì nelle aule parlamentari e la gelida accoglienza al suo discorso fatta dai parlamentari Democrat. Il governo, neanche a dirlo, quando prima del week-end il caso kazako in un modo o nell’altro si chiuderà, risulterà più ammaccato di prima. Si vede già adesso e se ne accorgono tutti: oltre agli elettori, stufi di questa pantomima, che a ogni occasione disertano le urne, qualche segnale pesante comincia a rivenire dai mercati, i cui indici e spreads sono tornati a salire pericolosamente verso il livello di guardia. Così l’ombra delle elezioni in autunno, con tutto il carico di inquietudine che si porta dietro, si allunga nuovamente sull’incerto inizio dell’estate politica italiana. Caso Kazakistan, 10 domande ancora senza risposta L’oligarca ricercato dall’Interpol che aveva ottenuto l’asilo politico da Londra era stato individuato da investigatori privati romani il 13 maggio. Tre giorni dopo ha festeggiato il compleanno. Secondo la relazione del capo della polizia era nella villa di Casal Palocco fino al 25 maggio. Gli investigatori privati lo hanno visto pranzare tranquillamente in un ristorante il giorno dopo. Il blitz è avvenuto nella notte fra il 28 ed il 29. Un caso che se ne fosse andato o qualcuno lo ha informato in tempo? 1) Chi ha avvisato Ablyazov del blitz della polizia? La Procura ora ci ripensa: i pm vogliono sentire Alma Tre giorni dopo ha festeggiato il com pleanno. Secondo la relazione del capo della po li zia era nella villa di Casal Palocco fino al 25 mag gio. Gli investigatori privati lo hanno visto pran zare tranquillamente in un ristorante il giorno dopo. Il blitz è avvenuto nella notte fra il 28 ed il 29. Un caso che se ne fosse andato o qualcuno lo ha informato in tempo? 2) È vero che la Shalabayeva ha chiesto asilo politico? 3) Ma i servizi segreti italiani sapevano dell’operazione? 4) Perché è stato ignorato il passato del dissidente? 5) Perché nessuno si è accorto dell’attivismo di Astana? 6) Alma e il marito già schedati ma non riconosciuti. Perché? 7) Il cognato della donna è stato picchiato? E da chi? 8 ) Clandestina con tre legali: tutto normale per i giudici? 9) Perché tutto questo ritardo sugli omissis nel dossier? 10) Perché sono coinvolti anche gli israeliani? Ablyazov, per l’Onu è una ‘extraordinary rendition’. Ma non è l’unico caso Le circostanze dell’espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Ablyazov danno “l’impressione che si sia trattato di una extraordinary rendition“. Lo affermano tre esperti dell’Onu in un comunicato dell’Alto commissariato dei diritti umani, chiedendo a Italia e Kazakistan un “rapido ritorno” di Alma Shalabayeva e sua figlia nel nostro Paese. Ma non ci sono solo Alma Shalabayeva e la piccola Alua. Negli ultimi sei mesi gli uomini di Nazarbayev stanno cercando di stringere il cerchio intorno all’esule Ablyazov in tutta Europa. E, tramite l’utilizzo di mandati di cattura Interpol, cercano di far arrestare ed estradare i rappresentanti dell’opposizione politica e affaristica all’attuale presidente kazako. Ma se in Italia ci sono volute solo 72 ore e una serie di procedure discutibili per rispedire in Kazakistan la moglie del più attivo oppositore di Nazarbayev, nel resto del continente gli inquirenti hanno deciso di seguire altre procedure. Oltre ad Alma e sua figlia, l’organizzazione non governativa polacca Open Dialog, tra le più attive nel denunciare le storture del sistema giudiziario kazako (corruzione, diritto di difesa limitato, maltrattamenti degli imputati) e il mancato rispetto dei diritti umani nelle prigioni di Almaty e Astana, ha denunciato altri quattro casi. Il primo è quello di Aleksandr Pavlov. Ex capo delle guardie del corpo di Ablyazov, è stato arrestato a Madrid l’11 dicembre del 2012 con l’accusa di avere svolto attività terroristica in Kazakistan e di avere distrutto documenti della BTA, la Turan Alem Bank di cui Ablyazov era a capo e che Nazarbayev ha nazionalizzato nel 2009, accusando Ablyazov di avere sottratto alla banca tra i 5 e i 6 miliardi di dollari. L’arresto di Pavlov è avvenuto in seguito a un mandato di cattura internazionale dell’Interpol del 23 maggio 2012 su richiesta kazaka per il reato di frode e appropriazione indebita. E solo successivamente all’arresto le autorità kazake ne hanno chiesto l’estradizione per terrorismo. Il governo spagnolo ha rifiutato a Pavlov l’asilo politico, ma ad aprile ha respinto una prima richiesta di estradizione. Oggi è cominciato a Madrid l’esame della seconda estradizione, chiesta dal Kazakistan dopo avere presentato nuovi documenti. Gli avvocati, che hanno denunciato pressioni da parte delle autorità kazake, sono pessimisti: il servizio segreto spagnolo ha infatti preparato un dossier in cui Pavlov è descritto come una minaccia per la sicurezza interna. Il secondo caso in ordine cronologico è quello della russa Tatiana Paraskevich, manager della compagnia d’investimento Eurasia ed ex collega in affari con la banca BTA di Ablyazov. La Paraskevich, che ha residenza in Repubblica Ceca, rischia l’espulsione verso l’Ucraina, dove dal 10 aprile 2011 pende sulla sua testa un mandato di cattura internazionale per frode finanziaria su larga scala, sempre riferita alla questione della BTA. Dopo che la corte regionale di Pilzen per due volte ha rifiutato l’estradizione, il 21 febbraio 2013 la Corte Suprema di Praga ha dato il via libera, subordinato al fatto che Paraskevich non possa essere estradata in un terzo paese: ovvero il Kazakistan. Ma il procedimento di estradizione è a stato bloccato perché gli avvocati si sono appellati alla sentenza sostenendo che le accuse sono ‘motivate politicamente’ – i kazaki vorrebbero da Paraskevich informazioni su Ablyazov – e che una volta in Ucraina la donna potrebbe essere facilmente rapita illegalmente dai servizi kazaki. Il terzo caso è quello di Muratbek Ketebayev, ex collaboratore di Ablyazov e attuale oppositore politico di Nazarbayev, che negli ultimi anni si è recato più volte al Parlamento europeo per denunciare le violazioni dei diritti umani in Kazakistan. Ketebayev, che da anni risiede in Polonia, è stato arrestato a Lublino il 12 giugno 2013, nemmeno due settimane dopo il blitz romano che ha permesso l’espulsione di Alma Shalabayeva, grazie a un mandato di cattura internazionale con le accuse di attività mirata al sovvertimento dell’ordine politico e creazione e partecipazione di un gruppo dedito alla criminalità organizzata. Le stesse che sono rivolte in patria a Vladimir Kozlov, leader del soppresso partito di opposizione kazaka Alga!. Ketebayev sta aspettando risposta alla domanda di asilo politico presentata alle autorità polacche, e in questo caso la fondazione Open Dialog è ottimista dato che anche le autorità polacche sembrano propense a considerare la richiesta di estradizione kazaka come politicamente motivata. Il perché Nazarbayev stia dando la caccia a tutti gli uomini di Ablyazov ha provato a spiegarlo questa mattina l’ambasciatore kazako Andrian Yelemessov in una lettera a La Stampa. “Il signor Ablyazov si è autodefinito dissidente e leader dell’opposizione in Kazakhstan, non è né l’uno né l’altro – scrive l’ambasciatore – Ma un criminale già condannato e un fuggiasco dalla giustizia in cinque Paesi diversi. Ablyazov ha beneficiato per la maggior parte della sua vita del sistema politico e ne ha fatto parte, è stato pure ministro, fino a quando non è stato colto con le mani nel sacco mentre rubava dal suo Paese. E’ stato proprio a quel punto che si è autoproclamato leader dell’opposizione al governo in Kazakhstan”. Poi Yelemessov, uomo cardine dell’operazione di rendition di Alma e Alua, spiega che Nazarbayev quantifica il ‘buco’ creato da Ablyazov nella banca BTA in 15 miliardi di dollari: e non 5 o 6 come era stato detto finora. Un’altra versione sul perché Ablyazov e i suoi uomini siano invece così ricercati da mezza Europa, se non da tutto il mondo, la offrono invece cablogrammi di WikiLeaks. Gli scambi diplomatici resi pubblici da Assange e soci dipingono infatti Ablyazov come un ‘kompromat‘: termine russo che serve a definire colui che sa, che conosce materiale compromettente. E qui non si tratta solo di politica interna kazaka o degli affari di Nazarbayev e della sua cerchia, ma delle relazioni di affari a livello internazionale che sarebbero basate su tangenti e corruzione. Poi Ablyazov sarebbe a conoscenza di materiale compromettente sull’uranio, di cui il Kazakistan è primo produttore mondiale. Per questo, secondo i vari cablo delle ambasciate, Ablyazov sarebbe stato sotto osservazione di tutti i servizi segreti fin dalla sua estromissione dal potere kazako nel 2009. Difficile quindi che a Roma qualcuno potesse non sapere chi fosse quell’uomo. Mediaset, dossier Pdl: “Berlusconi estraneo a un processo assurdo” “I magistrati milanesi, contro ogni logica, non hanno tenuto conto di due precise sentenze della Corte di Cassazione, che con decisioni passate in giudicato hanno statuito l’assoluta estraneità di Silvio Berlusconi alla gestione di Mediaset proprio negli anni in questione”. Il rapporto stilato parte dalla considerazione che “il gruppo televisivo fondato da Silvio Berlusconi era ed è uno dei principali acquirenti di diritti televisivi al mondo”, una piccola parte dei quali “veniva acquistata ogni anno da tale Frank Agrama, un imprenditore americano che operava ed opera nel settore diritti da oltre 40 anni”. Mediaset trattava con lui per quei prodotti che portavano il marchio Paramount. Un passaggio obbligato, tanto che, quando “un nuovo amministratore di Mediaset cercò di aggirare questa situazione”, la “Paramount cedette tutti i suoi prodotti alla RAI anzichè a Mediaset”. Il rapporto ricorda quanto emerge dagli atti, ovvero che l’ex premier vide in “due o tre incontri soltanto” Agrama, “agli albori della TV commerciale negli anni ’80”. E che “mai somma alcuna è stata trasferita a Silvio Berlusconi”. Sottolinea poi che i testimoni hanno confermato che il Cavaliere non si occupò mai direttamente “dell’acquisto di diritti televisivi”, allontandosi dal 1994 dalle aziende da lui fondate, dopo l’approdo all’agone politico. Il dossier sottolinea poi che “mai avrebbe acconsentito al pagamento di tangenti” ai propri dirigenti “per agevolare Agrama”. Negli anni il mediatore versò fondi in nero ai dirigenti, in un caso 4 milioni e mezzo, per l’acquisto di tutto il pacchetto Paramount. Qualunque imprenditore di buon senso avrebbe lasciato a casa “dei dirigenti corrotti che pretendevano una tangente addirittura del 10% sul prezzo dei diritti da acquistare”. In ultimo, “i fatti ipotizzati dall’accusa sarebbero accaduti nella prima metà degli anni ’90 e quindi sono risalenti nel tempo di oltre 20 anni”, ma la magistratura anzichè prendere atto dell’intervenuta prescrizione ha invece, con tesi assolutamente pretestuosa, sostenuto che la compravendita dei diritti aveva continuato a produrre i suoi effetti”. La decisione delle toghe di portare avanti il processo, tra “molte inutili consulenze contabili”, è costata “ai cittadini quasi tre milioni di euro”. Se si considerano “consulenze, rogatorie ed atti processuali” sale a una ventina di milioni il peso sullo Stato. Il tutto – si legge nel dossier Pdl – “solo per poter arrivare a condannare il nemico ideologico e politico Silvio Berlusconi”. Gli uffici fiscali hanno prodotto “un accertamento sui bilanci 2002 e 2003 che indicava in 7.300.000 euro le imposte che Mediaset avrebbe evaso, un importo che rappresenta poco più dell’1% delle imposte ammontanti a 567 milioni di euro versate da Mediaset all’erario per gli stessi anni”. La società “li ha impugnati davanti alla Commissione Tributaria Provinciale di Milano” Quando Clio urlava a Naomi: “Sporca negra” e Napolitano non diceva nulla Fermi tutti. Quando Napolitano s’è detto “colpito e indignato” dalla battuta di Roberto Calderoli contro la “Kyenge-orango”, non era amareggiato solo per il leghista. Le parole del vicepresidente del Senato gli devono avere aperto una ferita personale. Nel 2006 gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana rivelarono che la signora Clio Napolitano si imbufalì con Naomi Campbell durante una vacanza a Stromboli. La signora s’affacciò alla finestra e avrebbe gridato “brutta negra” alla modella perché le disturbava la pennichella. Sarà vero? E se lo è, che farà Giorgio? Ecco l’articolo di Lucia Esposito uscito su Libero nel dicembre 2006 A un certo punto l’intervista barbarica scivola pericolosamente verso un’estate a Stromboli. Daria Bignardi ci prova e chiede: dicono che i vostri rapporti con Clio Napolitano non sono buoni… Stefano Gabbana e Domenico Dolce sono lì davanti a lei. Un attimo di silenzio, poi risponde Gabbana. Ecco, testualmente, cosa dice: «Lei ha fatto una figuraccia. Noi eravamo in terrazzo dopo pranzo. Alle tre di pomeriggio, eravamo in quindici, si ascoltava un po’ di musica. A un certo punto vediamo questa specie di spettro che esce da una finestra…. Questa signora anziana e scompigliata esce dicendo che eravamo dei delinquenti, disgraziati, farabutti. Con noi c’era Naomi Campbell e lei dice “quella brutta negra” ». Sconvolgente. Ma non finisce qui. Gabbana riprende fiato (riportiamo sempre fedelmente): «Allora io le ho detto: guardi signora, lei può essere mia nonna ma non la voglio insultare. E lei: non sa chi sono io, chiamo la polizia. Alla fine sono arrivati i carabinieri di Stromboli che ci hanno detto questa qui è una rompipalle, appena c’è un clacson, un bambino che piange… » A Stromboli tutti ricordano quella volta che sotto il vulcano nero arrivò la Venere Nera, ospite degli amici stilisti. Ma quel fazzoletto di dodici chilometri stava troppo stretto alla top delle top. Naomi si annoiava a morte e la sera, quando calava il buio e si accendevano le lucine delle torce (a Stromboli non c’è illuminazione pubblica) le veniva anche un po’ di tristezza. Si dice che quel giorno gli stilisti, per rallegrare il pomeriggio, accesero lo stereo in giardino e che la signora Clio, dopo averli invitati cordialmente ad abbassare il volume, mandò i carabinieri. Nessuno può sapere quello che l’appuntato disse a D&G sulla signora Clio Bittoni che da oltre vent’anni trascorre le vacanze nell’isola che fece innamorare Ingrid Bergman e Roberto Rossellini. Tutti gli anni la coppia passa parte dell’estate all’ombra del vulcano che continua a sputare pietre di fuoco. Da sempre nello stesso albergo, La Sciara. Qui una stanza in alta stagione costa 250 euro, 280 se con vista mare. Ma per trenta euro ne vale la pena perché lo spettacolo è da perdere il fiato. E poi c’è una terrazza solarium, una piscina di acqua di mare e un giardino mediterraneo. Tutto, a soli venti metri dalla spiaggia. E i coniugi Napolitano amano il mare e ogni giorno – con la paglietta color crema lui, la borsa degli asciugamani lei – se ne vanno alla spiaggia della Sciara. Sole e nuoto prima di tuffarsi in una granita di gelso. Di pomeriggio, dopo un riposino in camera, la passeggiata tra i vicoli dove il Presidente e sua moglie conoscono tutti, le chiacchiere con gli isolani, uno sguardo alle vetrine. La sera sempre lontano dalla mondanità, con gli amici, tra cui Miriam Mafai, oppure a giocare a carte. Ogni Ferragosto l’ex consigliere Rai Alberto Contri, ospita nella sua casa con vista sull’orizzonte i suoi amici più cari per un concerto musicale. Giorgio e Clio, appassionati di musica (oltre che di cinema e teatro), non hanno mai perso un appuntamento. Quando la scorsa estate hanno dato forfait a causa della nuova carica e dei relativi problemi di sicurezza, il Presidente della Repubblica ha chiamato il suo amico per chiedergli la scaletta del concerto allestito in terrazza. A Stromboli i quattrocento abitanti considerano Clio una di loro. Discretamente elegante, la first lady – racconta chi la conosce – non ama giri di parole. Gentile ma schietta, diretta come una freccia, la first lady, settantadue anni portati con nonchalance, non è certo una che la manda a dire. Laureata in giurisprudenza, da ragazza faceva l’avvocato difendeva i braccianti agricoli di Acerra e questi, quando vedevano arrivare Napolitano, dicevano: «Quello è il marito dell’avvocato nostro ». Era lei che la domenica portava i suoi due figli a vedere le partite allo stadio anche se, confessa, «di pallone capivo pochissimo ». Quando il suo Giorgio diventa presidente della Camera, lei va avanti con la vita di prima. Spazzatura inclusa. Continua a portare le buste dell’immondizia nei bidoni anche se, per difendere l’immagine, li nasconde nei sacchetti delle boutique. Clio, che deve questo nome a due “compagni” dei suoi genitori con una bimba che si chiamava così, ama il cinema, il teatro e il mare. Specialmente quello delle isole. Dopo Stromboli, c’è Capri e le tante estati all’hotel Minerva. Anche in questo caso è sempre lo stesso da sempre, tanto che la coppia è diventata amica dei proprietari. Più recente la passione per Capalbio scoperta grazie a Guido Fabiani, rettore dell’Università Roma Tre e marito della sorella di Clio. Anche qui la coppia presidenziale è di casa, anche qui della signora Napolitano dicono la stessa cosa. «Una donna spiritosa ma rigorosa ». Un ritratto senza chiaroscuri. A cui venerdì sera, durante una puntata delle Invasioni Barbariche (La 7), Dolce e Gabbana hanno aggiunto una sbavatura. Totò, Scalfaro e la presidentessa 15 luglio 2013. Fa caldo,c’è afa. È mattina e c’è molta attesa a Milano, Camera del lavoro .La Presidente della Camera, Laura Boldrini, interviene ad un incontro dedicato al femminicidio, ai temi del cosiddetto sessimo, dell’immagine della donna oggetto che i media lanciano sul mercato. Le ragazze italiane, sostiene, devono poter andare in Tv anche senza sfilare con un numero (voleva dire seminude e/ o svestite, in due pezzi, sgambettanti, ecc.). Non parliamo poi della pubblicità: in altri paesi non si usano donne seminude per vendere yogurt e valigie e per promuovere la vendita di una maccchinetta per il caffè si ricorre alla slogan”te la diamo gratis”. In Tv solo il 2 per cento parla, esprime un parere. Basta, e avanza, presentarsi seminude. Applausi del pubblico presente. 21 luglio 1950. Che caldo faceva a Roma, quando, alla mezza, l’on.Scalfaro, proveniente da Montecitorio, raggiunse una trattoria in via delIa Vite dove l’aspettvano due colleghi, democristiani come lui. C’era molta afa quel 21 luglio a Roma. L’onorevole ordina subito un pinzimonio, con olio molto buono, si raccomanda, e intanto riflette sui piatti successivi. Al tavolo vicino una bella signora bruna si toglie il bolerino a fiorellini rossi e verdi. Il tutto si chiama prendisole, e resta a spalle parzialmente scoperte. Scalfaro osserva e mormora aspri giudizi. Sostenuto dagli altri due, non resiste più:«Non si vergogna?! ». Aggiunge diverse ingiurie sulle donne svestite e, secondo qualcuno, schiaffegia la signora, che di nome fa Edith Toussan. Il Parlamento se ne va in vacanza. Montecitorio, 20 novembre del 1950. La faccenda delle ingiurie alla signora aproda alla camera dei deputati dove fioccano le interrogazioni. L’On.Oscar Luigi Scalfaro non demorde e rincara la dose di critiche. Scrive Ghigo De Chiara: «È un democristiano e moralista da parrocchia, ha di nuovo riversato ingiurie contro la bella Edith Toussant con la quale aveva avuto uno scontro mesi addietro. Secondo Scalfaro queste donne, a furia di esporsi senza pudore, cessano di essere donne private per diventare donne pubbliche » (ovvero prostitute). Esplode, in Parlamento, la guerra del prendisole. Scalfaro viene sfidato a duello dal padre e dal marito di Edith Toussan. Che sono provetti spadaccini. Milano. Tarda mattinata del 15 luglio 2013. La Presidente della Camera Boldrini sta concludendo il suo interevento alla camera del lavoro. Insiste ancora sul ruolo della Tv, specialmente della Rai, servizio pubblico radioteleviso, nella narrazione della donna. Ed in questo senso saluta come una scelta moderna e civile da parte della Rai la rinuncia alla trasmissione del concorso di Miss Italia.Applausi del pubblico. Proteste della figlia di Mirigliani, storico fondatore del concorso Miss Italia. Roma, novembre e dicembre 1951. L’on.Scalfaro rifiuta di presentari al duello perché essendo fervente cattolico, la sua religione glielo vieta assolutamente. Intanto la storia dilaga sui giornali umoristici, le vignette si sprecano, ed anche all’estero le spalle nude della bella Edith fanno notizia. Milano, 15 luglio 2013. Si conclude il meeting con le parole della Boldrini: «Bene ha fatto la Presidente Rai, Tarantola, ad annullare,insieme a “Miss Italia”, anche “L’isola dei famosi”, in linea col progetto di puntare sulla qualità e non sul sensazionalismo. Non c’è nessun clima di austerità bacchettona, ma non bisogna mai dimenticare le 60 vittime di femminicidio. In un paese, come aveva ribadito il segretario generale della Camera del lavoro Gorla, «dove la pubblicità è spesso sessista, omofobica, classista, razzista: un’Italia alla deriva, sorda ai richiami dell’Europa ». La Presidente Boldrini lascia la città ambrosiana nel pomeriggio. Roma 23 novembre 1951. Continua sui giornali la vicenda della signora a spalle nude, senza prendisole, ingiuriata pubblicamente dall’on.Scalfaro. Totò invia una lettera sdegnata a Scalfaro che ha rifiutato di battersi in duello adducendo principi cristiani. E lo invita a dimettersi da deputato. 1992. Primavera. L’on Scalfaro diventa prima Presidente della Camera e poi della Repubblica. 2013. È primavera. L’on.Boldrini viene eletta Presidente della Camera dei deputati. Spirito di Totò, se ci sei,batti un colpo… Bugiardi e pataccari La lista di proscrizione del pm Giuliano Ferrara Ci sono magistrati, giornalisti, televisionisti, politici e membri della cosiddetta “società civile”. Giuliano Ferrara, in prima pagina su Il foglio, interviene con la verve che sempre lo contraddistingue nella vicenda dell’assoluzione del generale Mario Mori, compilando una “lista di proscrizione” di quelli che definisce “pappagalli delle procure” e “pataccari” in rotta. Cioè coloro che, nei cique anni della durata del processo conclusosi ieri, hanno sparato ad alzo zero su Mori, accusato di aver fatto saltare la cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995, sostenendone a spada tratta la colpevolezza. La fine di quello che Il Foglio definisce “il primo capitolo del processo sulla ‘trattativa Stato-Mafia’” ci libera, secondo Ferrara, da una lista di “firmatari della menzogna”. Tra i magistrati, il direttore del Foglio mette: Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Gian Carlo Caselli, Domenico Gozzo. I giornalisti: Marco Travaglio, Antonio Padellaro, Giovanni Bianconi, Francesco La Licata, Giuseppe Lo Bianco, Sandra Amurri, Saverio Lodato, Salvo Palazzolo, Peter Gomez, Attilio Bolzoni, Liana Milella, Sandra Rizza, Barbara Spinelli, Marco Lillo, Furio Colombo, Guido Ruotolo, Paolo Flores D’Arcais. Televisionisti: Michele Santoro, Sandro Ruotolo, Corrado Formigli, Enrico Mentana, Gad Lerner, Vauro. Politici: Enzo Scotti, Claudio Martelli, Antonio Di Pietro, Giuseppe Grillo, Nichi Vendola, Sonia Alfano, Fabio Granata, Walter Veltroni, Paolo Ferrero, Beppe Lumia, Leoluca Orlando, Rosario Crocetta, Luigi De Magistris, Luigi Li Gotti. Società civile: Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassare, Sandra Bonsanti, Salvatore Borsellino, Carlo Freccero, Gianni Vattimo, Roberta De Monticelli, Dario Fo, Isabella Ferrari, Fiorella Mannoia, Moni Ovadia, Franco Battiato, Maurizio Landini. Letto 2955 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by new google update — 1 Agosto 2013 @ 18:53
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