LEGGENDE: Piazza Bernardini e la Pietra del diavolo
15 Luglio 2009
di Bartolomeo Di Monaco
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Lucca è sempre stata una città ricca. A dimostrarlo restano i numerosi palazzi che, armoniosi e solidi, fiancheggiano le sue strette viuzze. Basta alzare gli occhi per goderne la magnificenza. Oppure si vada fuori delle Mura a contemplare le ville in cui la nobiltà lucchese soleva trascorrere periodi di riposo e di serenità .
Uno di questi palazzi si trova lungo il decumano che da via San Paolino conduce a piazza S. Maria Forisportam e infine a Porta Elisa. Si deve oltrepassare Piazza San Michele e, sempre a diritto, cominciare via S. Croce, dove all’inizio, sulla sinistra al n. 3, sta la casa in cui nacque Giovanni Sercambi (1348 – 1424), l’illustre autore delle “Croniche” e del “Novelliere“, consigliere di Paolo Guinigi, che fu signore di Lucca dal 1400 al 1430.
La prima piazza che s’incontra è Piazza Bernardini che prende il nome dal palazzo situato sul lato sinistro, appunto Palazzo Bernardini. Di fronte, altri due bei palazzi (Palazzi Balbani, poi Ottolini Balbani). Le tre costruzioni sono pressoché della stessa epoca, ma noi ci occuperemo del primo, poiché ad esso è legata una leggenda.
Siamo nel 1512 e Martino Bernardini Senior – di cui si legge in Manlio Fulvio (15.11.1914 – 12.9.1996): “Lucca le sue corti, le sue strade, le sue piazze”, Tip. Barbieri, Noccioli & C., Empoli, maggio 1968: “fu promotore di quella legge, promulgata nel 1556, che fu detta, appunto,  ‘Martiniana’ e che, limitando l’accesso alle cariche pubbliche, pose in essere il presupposto per la definitiva trasformazione della repubblica in un regime aristocratico.”) – decide di costruire il palazzo affidandone l’esecuzione a Nicolao Civitali (1482 – 1560), figlio del più celebre padre, Matteo, la cui statua campeggia sotto Palazzo Pretorio, di fianco alla chiesa di San Michele.
Esaminando il progetto, però, ci si accorge subito di un problema. Là dove deve sorgere il palazzo si trova collocata un’immagine sacra (forse della Madonna). Che fare? Abbatterla o incorporarla nella nuova costruzione?
La decisione non fu facile e in casa Bernardini se ne parlò a lungo e si studiò con Nicolao il modo di salvarla. Ma qualunque soluzione venisse ipotizzata, essa si scontrava con il progetto originario, deturpandone in qualche modo le linee architettoniche.
Si dice che alla decisione finale concorse l’opera del diavolo, che in quei giorni le tentò di tutte pur di riuscire a far demolire l’immagine sacra. Ma che sacrilegio! insinuava nella mente di Martino; non si tratta che di una immagine uguale a tante altre disseminate nella città ! Che poteva mai succedere se ce ne fosse stata una in meno? Niente. In fin dei conti si trattava pur sempre di un’opera scaturita dalle mani di un mortale, che diamine! E poi nemmeno tanto bella. Opera di un artista di poco conto, che chiamarlo artista era un’offesa all’arte.
L’azione del diavolo fu tanto mai subdola e insistente che infine la famiglia, d’accordo con l’architetto, decise per la distruzione dell’immagine. E così quando i lavori giunsero in quel punto dove essa sorgeva, nonostante la paura e l’incertezza degli operai che temevano una profanazione, i Bernardini imposero alle maestranze di non avere alcun indugio e di procedere secondo i disegni dell’architetto. Il diavolo gongolò di soddisfazione. Invisibile dietro gli operai, ne assaporò l’opera di demolizione ghignando e scuotendo la coda. Gli occhi erano colmi di cupidigia e di brama. Avrebbe voluto graffiare lui stesso con i suoi lunghi artigli l’immagine e gustarne la distruzione fatta con le proprie mani, ma come privarsi del piacere di vedere che era l’uomo stesso a non fermarsi davanti ad un atto sacrilego? Quindi si trattenne a forza e restò a contemplare lo scempio, che si compì di lì a poco.
Allorché in quello stesso punto si cominciò a costruire l’ampio finestrone sulla destra del portone d’ingresso e non ci fu più traccia di ciò che gli preesisteva, il diavolo si domandò come si sarebbe potuta la gente rammentare della profanazione. Con il tempo nessuno avrebbe ricordato più. E così ebbe l’idea. Quando gli operai cominciarono a murare lo stipite destro del finestrone, dove prima si trovava l’immagine sacra, ecco che proprio lì doveva rimanere evidente, per tutti i secoli avvenire, la traccia del misfatto. Come? Inclinando la pietra. E così avvenne, infatti. Gli operai murarono lo stipite e di lì a poco esso s’incurvò. Rimasero di stucco. Com’era possibile? Piegarsi una pietra! Riprovarono con altre, ma il risultato fu lo stesso, finché i Bernardini decisero che se quello era il destino dello stipite, restasse così per sempre. Ordinarono quindi che, per evitarne la caduta, fosse fissato alla parete con una grappa di ferro.
In questo stato, lo si può vedere ancora oggi.
Si racconta che nel passato più d’uno abbia cercato di sostituire lo stipite, ma senza successo. L’ultimo tentativo, di qualche secolo fa, fu da parte di uno scalpellino che aveva l’abitudine di vantare a sproposito le sue capacità . Nell’osteria ne raccontava di tutti i colori, e che a lui era riuscita ogni impresa che si era proposto di fare. Finché un giorno ad un suo compagno non venne l’idea di metterlo alla prova: “Allora perché non cerchi di raddrizzare lo stipite di Palazzo Bernardini?”
Qualcuno soffiò sul fuoco: “Ma a nessuno è mai riuscito!”
Lo scalpellino, che si chiamava Cecilio, subito si gonfiò: “Ah sì, e che significa? Se a nessuno è mai riuscito, riuscirà al sottoscritto, parola mia.”
Più d’uno se la rise sotto i baffi. Quello sbruffone avrebbe trovato pane per i suoi denti.
Quando rientrò a casa, Cecilio raccontò il fatto alla moglie, la quale subito capì il pericolo a cui andava incontro.
“Ma quella è la pietra del diavolo! Come puoi sfidare il diavolo! Ci succederà qualche disgrazia se sfiderai la sua ira! Fermati, non andare.”
“Ho dato la mia parola, cara la mia Assunta, e mostrerò a tutti che Cecilio la vince anche sul diavolo.”
Assunta si fece il segno della croce.
“È proprio impazzito!”
Il diavolo naturalmente aveva saputo e si era mosso dall’inferno per tornare a Lucca. Era l’ora di finirla con questi tentativi; non era bastato che gli altri avessero fallito? Che cosa pretendeva di fare questo Cecilio? Cancellare il memorabile segno del suo trionfo in quel lontano XVI secolo? Gli avrebbe dato una lezione che nessuno avrebbe più dimenticato, e con quella avrebbe posto fine per sempre agli sbruffoni che pensavano di vincerla sul diavolo. Quella era la pietra del diavolo, se n’erano dimenticati?
Così quando Cecilio arrivò con un nuovo stipite davanti al finestrone, attorniato dai compagni, e si mise all’opera, dietro di lui, anzi con il fiato proprio sul suo collo, si appostò il diavolo pronto a schernirlo e a dargli la lezione che meritava.
Cecilio credeva che occorresse fissare la pietra con qualcosa di più robusto rispetto a quanto avevano fatto i suoi predecessori, e si era portato una speciale calce di cui conosceva la formula segreta. Essa avrebbe tenuto incollati insieme perfino il paradiso e l’inferno, così pensava. E cominciò a stendere l’impasto, aggiungendovi certi ulteriori sostegni che avrebbero dovuto impedire di nuovo l’incurvatura della pietra, scelta tra le più solide e dure.
Il diavolo se la rideva a vederlo lavorare con tanta lena.
“Vai vai, Cecilio”, diceva tra sé, “tra poco ne vedrai delle belle.”
E infatti, allorché la pietra fu fissata, Cecilio tutto tronfio invitò i compagni a contemplarla, dicendo: “Visto, se ci sono riuscito? Questa pietra resterà diritta e levigata per sempre e tutti nei secoli futuri si ricorderanno di me.”
“Bravo”, disse qualcuno.
“Mi credevate uno sbruffone, non è così?”
“Invece sai fare bene il tuo lavoro, lo dobbiamo ammettere. Non credevamo ci riuscissi.”
“Ve l’ho sempre detto che Cecilio è unico al mondo e quel che dice è la pura verità . Se volete mettermi ancora alla prova con altre imprese, io sono qui, a vostra disposizione. Ordinate e vedrete.”
Ma non aveva ancora finito di pronunciare queste parole, che un colpo secco si udì partire dallo stipite e da lì ad un istante la pietra esplose e schizzò via in mille frammenti, alcuni dei quali andarono a finire addosso al povero e stupefatto Cecilio, penetrandogli nelle carni. Un dolore acuto lo invase per tutto il corpo dalla testa ai piedi, e rivoli di sangue gli coprirono il viso e le braccia, sicché i compagni pensarono che stesse lì lì per morire. Invece non morì; urlava di dolore, ma non morì. I compagni lo condussero a casa, dove la moglie l’accolse tutta tremante: “Gliel’avevo detto di non sfidare il diavolo. Questa è opera del diavolo quanto è vero che mi chiamo Assunta.”
Lo distesero sul letto e chiamarono un dottore, il quale constatò che frammenti di quella pietra gli erano penetrati per tutto il corpo. Poiché i più pericolosi lo avevano colpito alla testa, cominciò da lì la sua opera di estrazione. Ci vollero mesi di cure prima che Cecilio potesse riprendere il lavoro e tornare dai compagni in osteria. Il viso restò segnato da molte cicatrici e così le braccia, il torace e le gambe. Cecilio raccontava che ogni volta che il tempo mutava esse gli dolevano a tal punto che non poteva né dormire né lavorare.
Fu così che da quella volta nessuno ha più pensato di ripetere l’impresa, e la vecchia pietra, che fu subito ricollocata al suo posto, è ancora lì a ricordare l’opera del diavolo e ad ammonire che a nessuno venga più in mente di riprovarci, visto ciò che accadde allo sfortunato Cecilio.
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 15 Luglio 2009 @ 15:23
Ed è ancora una “ventata” di magia, che aleggia sulla città di Lucca. Così ci viene donata una leggenda di grande fascino, arricchita da un’altra leggenda, frutto della fervida fantasia del suo autore. Il tutto impreziosito da un linguaggio accattivante e, soprattutto, da profonde conoscenze sulla storia di Lucca e da un evidente amore per questa stessa città .
Ho avuto modo di vedere più volte, meravigliandomi non poco, quella pietra e la sua misteriosa piegatura
Gian Gabriele
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 15 Luglio 2009 @ 15:32
Ciao, Gian Gabriele. Grazie.