LETTERATURA: Amici miei
19 Febbraio 2009
di Gian Gabriele Benedetti
Non so come sia finita tra le mie mani. Forse è stato il caso. O piuttosto un inconscio, mai sopito, sottilmente prepotente desiderio di inerpicarmi a ritroso sul ripido sentiero degli anni. E già il libro, su cui era caduta la mia scelta, per il piacere di una rilettura che rintuzzasse scaglie di memoria e riproponesse sensazioni capaci di fasciare l’animo di genuina, sostanziosa emozione, si profilava presupposto o, meglio, complice di questo “incontro”.
È stato così che, sfogliando avidamente le pagine de “I Malavoglia”, mi sono trovato dinanzi allo sguardo la vecchia foto in bianco e nero, che ormai ritenevo smarrita. Impressa l’immagine di un gruppo di ragazzi con vesti e pettinature ora decisamente fuori moda. In mezzo anch’io: mi sono riconosciuto, ma credo di essere l’unico che possa farlo, in quanto poco o niente è rimasto del giovane qual ero.
È bastata quella foto, lontana nel tempo, ad attizzare i ricordi e ad esserne sommerso. Ed io mi sono lasciato affondare nella commozione gradevole-amara di rievocazioni capaci di resistere alle insidie della ruggine.
Li rammento ad uno ad uno gli amici di allora, come se fossero qui con me nella penombra di questa stanza, anche se ci siamo perduti via via lungo strade sparpagliate, così diverse nel cammino dei giorni, che conduce lentamente, inesorabilmente alle soglie del crepuscolo.
Ed oggi nel rivedervi, compagni cari della mia gioventù (chissà se incontrandoci ora riusciremmo a riconoscerci subito!), sono fuggito dal presente, da queste quattro pareti e sono lì con voi, come una volta.
Lorenzo, Tiziano, Stefano, Carlo, Mario, Ruggero: sento le vostre voci, l’eco delle risate genuine; m’invade l’andirivieni dei nostri brulicanti, indomiti pensieri, il volo delle mai sopite speranze che si posava su castelli roventi di illusioni (entusiasmi e prospettive si intrecciavano, barlume d’orizzonte s’intravedeva…); rivivo il raccontare, il raccontare quasi ossessivo di ogni sera d’estate, “accrocchiati” ai piedi dell’albero grande della piazza stanca ed assonnata, sotto ciuffi di stelle e un pianto di luna che disegnavano lievemente i profili da favola dei tetti; assaporo ancora l’ebbrezza delle corse sulle vecchie, malconce biciclette, cavalli al vento per blandizie d’aria sul viso ed a scompigliare i capelli.
Il monte, alle spalle del paese, è ancora là ad attenderci, tappezzato di prati e di boschi. Ormai decine e decine di volte ha smesso e ripreso la veste nel correre delle stagioni. Eppure tuttora pare racchiudere il nostro affannoso inerpicarci sull’impervia via, ora fiaccati ma non vinti dalla lama rovente del sole estivo ora protetti dal sussurrare ombroso dei grandi rami. Il cielo, che quasi potevamo toccare con mano, ci fasciava d’azzurro e cercava di rimanere impresso nelle piccole sorgenti inquiete e sbarazzine, voci morbide disseminate qua e là a guisa di carezze sbadate.
Fluttuanti esalazioni d’erbe calpestate migravano nell’aria capricciosa.
Di là dalla cima ardua ci attendeva la meta. Timido, verginale, immobile occhio di smeraldo, il laghetto ci appariva d’un tratto, come al levarsi improvviso di un sipario, e l’animo, inebriato e commosso, sembrava arrampicarsi vertiginosamente all’infinito, fino a Dio.
Poi il pasto frugale, portato a fatica con noi e consumato al tenue sciabordio dell’acqua ed al dialogo sommesso degli alberi con l’aria imprevedibile a stuzzicare la nostra spensieratezza.
L’acqua rifletteva, in lieve danza di cristallo, tutto un mondo fatato, capovolto. Era il nostro mondo, quel mondo che volevamo racchiudere tra le mani, per portarlo con noi per sempre, a resistere alle insidie del tempo. Ma tra le dita serrate si è impigliato il buio e poco ci rimane da raccogliere sul prato d’erbe ingiallite. Adesso ci avvolgono solo i ricordi, fantasmi di desideri stremati. Lo scherzo degli anni ha affondato presagi ed orizzonti, ed il nostro volo si è fatto sempre più pesante: raccogliamo la malinconia di essere stati attori di niente o di poco.
Tuttavia ritrovare il rossore di quei giorni è spruzzo di luce, è rinverdire vecchie primavere in terre disseccate, per inventare caparbiamente impossibili resurrezioni. Ed è così che oggi, tra aghi di ferite e pretesti di difesa, amici miei, vi sento, per davvero, qui con me, in questa stanza che è divenuta per un poco il nostro universo, quell’universo che ci avvolgeva col suo fascino discreto e che sognavamo prodigo, eccitante, anche se non potremo più dirci: “Vediamoci domani, alla stessa ora!”.
Letto 2934 volte.
Commento by Carlo Capone — 19 Febbraio 2009 @ 17:57
Una struggente situazione dell’animo, la foto di liceo nel libro. E se penso che si ricorre a Facebook per ritrovare i vecchi compagni preferisco il buon vecchio libro e l’immagine in bianco e nero come strumenti per riandare alla gioventù. Devo ammettere di aver provato un fremito quando ho letto questo scritto, specie nella parte iniziale. Poi, mentre il ricordo del narratore si perfeziona e l’urgenza di rivivere si attenua, anche chi legge si lascia trasportare da un senso di quieto rimpianto.
Viene in mente il film ‘L’attimo fuggente’, quando il professore mostra una foto di studenti di un lontano anno scolastico e comunica ai suoi ragazzi: “Guardateli bene, di essi non v’è più traccia, sono dissolti nella coltre scura di quel bosco, ma se vi avvicinate li potete ascoltare. Sentite? sussurrano tutti insieme ‘Carpeeeee diem’!”.
Un caro saluto, Gian Gabriele
Carlo Capone
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 19 Febbraio 2009 @ 18:37
Struggente e accorato commento, il tuo, Carlo, che mi ha gratificato e commosso. Un grazie sincero ed un abbraccio fraterno
Gian Gabriele