LETTERATURA: Andata e… ritorno
28 Febbraio 2008
di Gian Gabriele Benedetti Â
[Oltre a numerosi libri di poesia, ha pubblicato la raccolta di racconti “Paese”, Lalli Editore, 1986]
Il titolo di questo racconto è stato
suggerito dagli studenti della terza
classe (Sez. A) della Scuola Media
Inferiore “A. Mordini” di Barga, dopo
 la lettura ed il commento del racconto stesso
durante uno dei nostri incontri
avvenuti nell’anno scolastico 1988-89.
Aveva avvertito quei dolori insistenti sul petto qualche sera prima di Ferragosto, quando, sul tardi, ritornava dalla casa della Zelinda, dove era stato a veglio con la sua vecchia Iole. Ma non ci aveva fatto caso più di tanto.
A settant’anni suonati c’era arrivato con una salute di ferro. E non è che si fosse risparmiato: se c’era da fare qualche stravizio, con il lavoro, col mangiare, col bere, con… le donne (questo che non arrivasse all’orecchio della moglie), non si era mai tirato indietro.
Per lui, grazie a Dio, i medici avrebbero potuto andare all’elemosina, le farmacie serrare i battenti e gli ospedali mandare a spasso il personale. Era stato ed era tuttora “abboccaticcio”, senza grandi pretese, pressoché “allergico” alle medicine. Mica come tante “calie” di sua conoscenza sempre a rompere le scatole al dottore anche per certe bischerate ed a riempirsi di pasticche e di intrugli d’ogni genere da parer farmacie ambulanti!
  Aveva fatto pure la guerra e non s’era limitato nel compiere il suo dovere di soldato e, nonostante tutto, aveva riportato la buccia (che doveva essere davvero dura) a casa. Ed anche adesso, in vecchiaia, conduceva una vita che non aveva nulla da invidiare a quella di un giovinotto.
Nella propria famiglia era l’unico ad essere uscito così bene e fortunato, sano come la roccia della Pania. Dei sei fratelli ed una sorella che aveva, due erano morti da piccoli per via del “gruppo”, uno per un forte ed improvviso attacco di “appellicite”, che si era trasformato rapidamente in… (voleva dire peritonite, ma maleficamente ogni volta gli sfuggiva quel nome per lui difficile). Due altri fratelli, poi, emigrati giovani in America, se ne erano andati al Creatore, prima di arrivare alla vecchiaia, perché, poveretti, avevano preso la “lucciola” fulminante allo stomaco, causata senz’altro da un mangiare diverso e sicuramente meno genuino rispetto a quello a cui erano abituati nel nostro paese.
Il sesto fratello era ancora vivo, ma era come se fosse morto. Da quando era caduto da quella maledetta “ceragia”, alta più della casa dove abitava, e s’era troncato il “flemolo”, non aveva trovato più il modo di rimettersi in sesto e zoppicava qua e là con la sua gambetta ritorta e dolorante ad ogni cambiamento di tempo, senza poter più far un gran che, se non raspare un po’ intorno ai conigli ed alle galline.
Pure la sorella era sempre di questo mondo, ma malandata, patita, rinsecchita e tutta un lamento. La colpa era di quella “cistiferea” che da un pezzo aveva deciso di fare i capricci e le aveva fatto venire il viso giallo come un limone e avvizzito come un guscio di noce, tanto che veniva pena solo a vederla. Doveva, poveraccia, stare sciacquata come un bicchiere.
Ma lui, perdio, stava bene e avrebbe spaccato le montagne. Che nessuno si fosse azzardato ad avvicinarglisi con discorsi storti o con cattive intenzioni: gli avrebbe fatto saltare la dentiera in quattro balletti, senza tanti complimenti.
Ed allora quelle fitte, che parevano folletti irrequieti, impazziti che partivano dal braccio sinistro fino ad infilarsi, simili a ferri appuntiti ed arroventati, al centro del petto, non dovevano essere proprio nulla di serio. Forse la causa era attribuibile al terribile caldo, che si era fatto davvero insopportabile e di giorno ti faceva vedere “ballare la vecchia” in lontananza, costringendoti a  trincare qualche bicchierotto di “striscino” bianco in più, e di notte ti faceva “svoltorare” nel letto con la voglia di levarti anche la pelle di dosso, per accaparrarsi un po’ di fresco, non trovando modo di prendere sonno per bene. O forse responsabile poteva essere quella scorpacciata di fagioli borlotti, raccolti nell’orto e cucinati all’uccelletto, che eran venuti una delizia da leccarsi i baffi (e non aveva fatto per davvero tanti complimenti a buttarne giù una caterva, nonostante che il caldo feroce di quei giorni limasse non poco l’appetito).
Insomma non era sicuramente il caso di fasciarsi la testa con inutili preoccupazioni e non bisognava neppure dar peso a certe sciattaggini, come diceva lui. E fece finta che il male non fosse suo e non ne fece cenno ad alcuno.
“Prima o poi” si consolava “quando gli sarà venuto a noia, passerà così come ha avuto il coraggio di presentarsi”.
Le fitte pian piano se ne andarono e lui diventò più vispo di prima, simile ad un cardellino in primavera. Era veramente felice di non provare più quel maligno fastidio e soprattutto per l’allontanarsi di un possibile inaspettato pericolo.
Solo gli succedeva, ciò che non aveva avvertito mai in precedenza, di provare fatica al minimo sforzo. A salire le scale, il cuore pareva battergli in gola; a muovere i passi su per le vie in ascesa, gli veniva l’affanno e sudava maledettamente, tant’è che era costretto, cosa insolita, a sostare più volte per riprendere fiato ed a tergersi il viso sudato col fazzolettone a quadri sempre a portata di mano. Ed allora diceva a giustificazione:
“Questo caldo vigliacco ammazerebbe anche un beduino!”.
Il giorno di Ferragosto si fece bello per andare all’ultima Messa e prese, a passo buono, ad arrampicarsi su per la strada che menava alla Chiesa.
Il suono delle campane scrosciava soave sulle case del paese, accovacciate sul lieve inchinarsi del colle, e s’involava verso la campagna, che già il sole del tardo mattino prendeva ad avvilire con le sue braccia di fuoco.
Il buon uomo di tanto in tanto si scappellava per salutare le persone di riguardo che incrociava e si fermava a far due chiacchiere con gli amici.
Fu proprio quando s’imbatté in due donnette, che parevano appartenere ad un’altra epoca, col fazzoletto in capo e le sottane fino ai piedi, il tutto di un colore nero-carbone, e stava per chieder loro, a mo’ di burla, come facessero a sopportare il caldo così intabarrate, che il poveretto cadde stecchito per terra senza neppure il tempo di dire “ohi”. Le donne, sentendo il rumore della caduta e vedendolo lì immobile, lungo e disteso come un sacco abbandonato, presero a gridare, mani alla testa, simili a due ossesse:
“Correte, gente! Il Mansueto si è sentito male! Fate presto: chiamate il dottore, fate venire la ‘topolanza’!”.
In mezzo a quei cenci nei quali erano rinvoltate, urlavano e urlavano, senza saper altro che fare, ma qualcuno ci pensò a tentare di soccorrere il malcapitato. Purtroppo non fu difficile capire che non c’era più nessuna speranza di rimettere in piedi Mansueto. Egli, non v’era dubbio alcuno, aveva rivolto la prua verso il Creatore, prima di riuscire a prendere almeno la Messa di Ferragosto.
Fu per il paese e soprattutto per familiari ed amici come un fulmine a ciel sereno: tutti avrebbero giurato che un uomo di quella tempra e di un tale spirito con la morte ci avrebbe giocato a briscola. Ma così vanno le cose di questo mondo: meno uno se lo aspetta, deve levare le tende e… buona notte!
La sera prima del trasporto della cara salma al vicino cimitero, parenti ed amici si erano dati appuntamento nella cucina, a pian terreno, per recitare, secondo la pia consuetudine del luogo, il Rosario di quindici poste in suffragio dell’anima del defunto.
Il morto era stato sistemato nel letto matrimoniale della sua camera al primo piano. Non c’era stato bisogno nemmeno di vestirlo con gli abiti buoni, giacché la morte, almeno in quel senso, l’aveva trovato pronto. Intorno alle mani, incrociate l’una sull’altra, si intrecciava una corona benedetta di madreperla. Lo specchio del comò era stato nascosto con un panno bianco. Il tutto si poteva appena intravedere alla debole luce di una abat-jour adombrata.
Giù in cucina la preghiera comunitaria era iniziata e nella stanza spaziosa ora risuonava la voce monotona di chi diceva, ora si levava, quasi all’unisono, il mormorio confuso delle voci che rispondevano. Tra un'”Ave Maria” e l’altra, qualcuno azzardava all’orecchio di chi stava vicino un pietoso commento:
“Era proprio un brav’uomo: sono sempre i migliori ad andarsene”
“E pensare che era la salute in persona. Un giovanotto, pareva”
“Povera Iole! Ora gli toccherà star sola oppure adattarsi con qualcuno dei suoi figli. Speriamo che le nuore o i generi la sopportino… Col mondo di oggi, così moderno, e con la gioventù così sbalestrata, se ne vedono di tutti i colori”.
Si era press’a poco a metà del Rosario e chi lo guidava stava recitando il mistero di una posta, quando dal piano di sopra arrivò, distinto, un cigolio insistito di una porta in movimento, i cui cardini attendevano da tempo di essere oliati. Quelli di casa intuirono subito da dove arrivasse quel rumore e, alquanto sorpresi, si “inorecchirono” più di tutti.
Di lì a poco un passo incerto ed ovattato fece scricchiolare i primi gradini della scala di legno che scendeva nella cicina, ora così affollata. I presenti si voltarono da quella parte e fu là , in alto, che ai loro occhi increduli apparve, privo di scarpe, tutto cambiato a puntino, con la corona che gli penzolava da una mano, bianco come un cencio lavato, colui che nessuno si sarebbe aspettato di rivedere in posizione eretta. Mansueto, il morto insomma, era lassù, sorpreso e smarrito, che guardava giù nella cucina quella massa di gente radunata, alambiccandosi il cervello per scoprirne il perché.
Ci fu, nel branco, un evidente sbandamento: la paura e l’imbarazzo si dipinsero contemporaneamente nei volti di ciascuno: si pensava di vivere in un incubo. Qualcuno, a pupille sgranate, alzò di scatto le chiappe dalla sedia e, puntando il piede a terra, accennò ad un’ingloriosa fuga, ma ci ripensò prontamente per non rischiare brutte figure, che avrebbero potuto fare il giro del paese ed oltre, segnando pesantemente la sua reputazione.
Pareva che a tutti fosse stata mozzata la lingua, poiché da quelle bocche spalancate non uscivan parole, ma soltanto suoni inarticolati.
La Iole, vedova all’improvviso e non più vedova all’improvviso, non raccapezzandosi tra la sorpresa, la paura, l’emozione e la gioia, prese a gridare in preda ad isterismo, del resto comprensibile:
“O Dio mio, ma è il mi’ Mansueto! O Mansue, o Mansue mio!” E stava per svenire e fu sorretta.
Intanto il morto non più morto, ritto e immobile sulla scala, continuava a guardare incapace di capacitarsi riguardo a quanto accadeva.
Uno dei presenti, raccattato a due mani quel poco di coraggio che gli era rimasto in dosso, azzardò qualche frase di circostanza, tentando di sbloccare la situazione veramente insolita e sconvolgente in cui ci si era venuti a trovare. E si rivolse, con voce incerta ed appena percettibile, proprio al defunto risuscitato:
“Che fate, Mansueto? Come state?… Venite giù!…”.
L’uomo dalla scala girò ancora l’occhio attonito e sgomento intorno e:
“Che fate voi piuttosto?” quasi gridò “Che fa tutta questa gente in casa mia a quest’ora?”.
Riavutisi un po’ dallo shock e dal sacrosanto impaccio, i familiari, nascosti prontamente i rosari in tasca, si premurarono di spiegare al redivivo che lui si era sentito male, che aveva perso i sensi e che lo avevano trasportato nel suo letto con la corona tra le mani, affinché la Madonna lo aiutasse in quel momento difficile. La gente, siccome gli voleva bene e gli era affezionata, era venuta lì a vedere come stava e, al caso, a prestare soccorso.
Mansueto sembrò bere questa spiegazione, ma dentro dentro non si sentiva pienamente convinto. Un diavoletto gli seminava dinanzi dubbi a volontà , che, tutto sommato, erano ragionevoli. Come mai, si scervellava, si trovava in camera sua quasi al buio, da solo? E perché lo specchio e il lume erano stati avvolti in un cencio? E la corona tra le mani che significava? E quella marea di persone, accampate in cucina, erano venute a fargli la guardia? Solo i vestiti della festa avevano una giustificazione accettabile.
Da quel giorno il buon uomo, ritornato al mondo quasi miracolosamente, non fu più lui. Divenuto triste, taciturno, si appartava spesso carico di pensieri controversi. Gli era calato l’appetito e buttava giù per forza qualche boccone. La notte, poi, non riusciva a dormire che a sprazzi ed in modo agitato.
Intanto in paese e nelle vicinanze, di bocca in bocca, si sparse la notizia dell’incredibile resurrezione di Mansueto, ma che nessuno riportasse il fatto a lui!
A lui non arrivò mai all’orecchio, anche per il motivo che di rado usciva, senza allontanarsi più di tanto da casa, e di rado parlava con qualcuno. Si lamentava in continuazione con i suoi, che, dopo essersi sentito male, non riusciva più a digerire quel poco che mangiava, che aveva perso la forza nelle braccia e nelle gambe, che le medicine ordinategli lasciavano il tempo che trovavano, che non aveva più la mente a posto come prima, che era diventato, insomma, un vecchio di cent’anni e che la vecchiaia, per davvero, come si diceva dalle sue parti, “vien con diaciannove mancamenti, la goccia al naso venti”.
Qualcuno cercava di consolarlo:
“Vedete, Mansueto? Non dovete pigliarvela poi troppo. La colpa è tutta del mondo moderno. Oggigiorno il cibo è ‘inclinato’, l’acqua è ‘inclinata’, l’aria lo stesso e non si sa più quel che si mangia, quel che si beve, quel che si respira. E dopo Cernobyl poi… È un gran guaio per tutti. Chi vi dice che i vostri mali, come del resto quelli di molti altri (non c’è più un Cristo che dica di sentirsi completamente bene), non vengano proprio da quella nube tossica che ha impestato mezzo mondo?”.
Mansueto, pur riscontrando giusti i ragionamenti di chi tentava di tirarlo su, ben sapeva che il suo male veniva di dentro, era nel suo spirito, cambiato ultimamente da così a così.
Ed il suo male, che gli aveva tarpato quella voglia di vivere che esplodeva in lui, lo portò in breve e sul serio alla fine. Questa volta il povero Mansueto uscì dall’uscio di casa con i piedi in avanti, per l’ultima dimora.  Â
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