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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Annie (Anna Emilia) Vivanti: “Naja Tripudians”, 1921

20 Agosto 2019

di Bartolomeo Di Monaco

Fu scrittrice di una letteratura di consumo che ebbe successo tra il pubblico del tempo, un successo anche internazionale. Fu molto cara a Giosuè Carducci. Visse molti anni tra Inghilterra, Svizzera e Stati Uniti, finché non si stabilì definitivamente in Italia.

Siamo nella campagna inglese. Francis Harding, medico specialista di malattie tropicali, è preoccupato della salute della moglie, Mary Evangeline, ventiquattrenne e vent’anni più giovane di lui, che è in procinto di partorire e ha le doglie. È stata appena visitata dal suo collega, il dottor Williams, che consiglia al marito di uscire per una passeggiata, onde distrarsi. Francis ne approfitta per recarsi al villaggio di Wild-Forest, “sperduto nell’angolo più remoto del Yorkshire”, dove, presso Miss Smith, la maestra del luogo (poi la donna si trasferirà a Leeds), si trova la sua bambina Myosotis. Purtroppo il parto va male, nasce una bambina, Leslie Denys, ma la madre muore nel darla alla luce.

Sebbene l’esordio sia dei più tristi, pare di leggere una fiaba, per via di una scrittura disincantata, di facile leggibilità. Lo stesso paesaggio della campagna inglese e la dimora degli Harding, il Rose Cottage, aiutano a lasciare questa impressione. È una campagna che ricorda quella descritta da Louisa May Alcott nel romanzo “Piccole donne” (1868 -1869), anche se in quest’ultimo l’ambientazione è nell’America del sud impegnata nella guerra di secessione.

Le due bambine, dai capelli biondi e “soavi occhi celesti”, sono mandate a scuola, su consiglio della nuova maestra Miss Jones, che le aveva trovate piuttosto ignoranti e qui imparano per prima cosa “che il mondo è rotondo e appartiene agli inglesi; che gli oceani sono vasti e appartengono agli inglesi; che gli inglesi permettono – generosamente – ad alcune altre nazioni di vivere nel mondo, e ad alcune altre navi – ma poche! – di navigare sui mari.”.

Il brano rivela il sentimento anti inglese della Vivanti, che fu una agguerrita sostenitrice della lotta per l’indipendenza dell’Irlanda.

Il padre, a sua volta, trasmette loro le sue conoscenze in relazione alla sua esperienza a Rio de Janeiro e nell’Isola di Sumatra, e insegna loro a riconoscere la pericolosità di certi veleni prodotti dai serpenti, tra i quali uno dei più temibili, la Naja Tripudians, “la funesta e terribile cobra egiziana”.

Conclude: “Così, preparate e agguerrite alla vita, si affacciarono le due bionde sorelline alla soglia della giovinezza. Con gli occhi limpidi come il vento guardarono in faccia all’avvenire.”; “E la vita le salutò, tutta sorrisi.”; “Credevano ai miracoli e alle visioni, ai poeti e alle fate, agli angeli e agli umani.”.

Ci si domanda se in quegli anni che seguirono immediatamente la fine della Grande guerra ci fosse bisogno di questa letteratura. Evidentemente sì, visto il successo ottenuto dalle opere della Vivanti, pur criticate da Matilde Serao, che coniò per esse una definizione che valeva a ricomprendervi tutti i romanzi simili, marcandoli con l’appellativo di romanzi di stile vivantino.

Non dissimile dalle figlie, un po’ trasognato come loro, è il padre, “nordico asceta”, figlio di un pastore evangelico scozzese, tutto assorto a ricordare il passato, e fuggitivo rispetto al tempo presente, in cui avverte di essere una inutile presenza, avendo appreso nella sua vita nozioni che in patria non servivano a niente: “Medico nella marina inglese, il destino lo aveva gettato a ventidue anni sulle coste delle Indie orientali. (…) Alto magro taciturno passava come un dio biondo tra le popolazioni nere di laggiù”. Ha trascorso molti anni a studiare qualche rimedio contro la lebbra, che in quei luoghi era una calamità e aveva colpito anche un amico francese, Jean Vital, ma senza ottenere alcun risultato. Poi, era stato richiamato in patria dalla sorella di suo padre, ammalatasi, la quale morendo gli aveva lasciato i suoi pochi beni, tra cui il Rose Cottage, dove ora viveva con le figlie. La zia era stata assistita da un infermiera “mansueta e silenziosa”, “figlia del pastore anglicano di Wild-Forest”,   Mary Evangeline, che Francis sposerà.

La vita delle due giovinette trascorre per la maggior parte del tempo all’interno della loro casa. La domestica e burbera Jessie, che aveva badato alla loro madre quando era bambina, le tiene sotto la propria rigida sorveglianza e aborrisce ogni novità che viene loro in testa: andare ai bagni di mare, comprare un pianoforte, e così via. Si sarebbero viziate. Ma le due ragazze, nondimeno, insistono e qualche volta l’hanno vinta, come accade per il pianoforte, che, una volta che Myosotis ha imparato a suonarlo in casa della maestra Miss Jones, arriva da Leeds e tutti si siedono ad ascoltare “la sonatina di Diabelli per ben otto o dieci o dodici volte di seguito”.

La lettura del romanzo di Charlotte Brontë, “Jane Eyre”, apre gli occhi alle due ragazze facendole riflettere che “La vita non aveva finora offerto alle loro labbra che la pura inconsapevolezza d’ogni cosa, come un fresco e insaporoso sorso d’acqua montanina.”. Scoprono che la loro vita è noiosa, “bianca e vuota!”.

Le cose cambiano allorché una villa signorile chiusa da anni, Villa delle Acacie, viene riaperta e vi va ad abitare “una signora dal bel nome aristocratico: Lady Randolph Grey.”. Si fanno le più svariate congetture su di lei, che ha nome Miranda: chi possa mai essere, e alcuni azzardano la ipotesi che sia la moglie di questo o di quest’altro influente personaggio della nobiltà inglese. Nei fine settimana cominciano ad arrivare alla villa ospiti creduti di lignaggio e anche su di loro si avanzano varie congetture. Si vocifera che ospite della Lady sia addirittura Sua Altezza il principe di Galles, ovvero l’erede al trono.

Una domenica, uscendo dalla Messa, la signora scorge le due figlie del dottor Harding, ne rimane colpita e chiede informazioni a Mrs Russel, una vicina degli Harding, la quale è ben lieta di riferirle che il loro padre “è una persona angelicamente buona; ma vive così lontano dal mondo, così fuori della vita, che quelle sue bambine non hanno amicizie, e si può dire che non vedono mai nessuno.”. In quel momento, Myosotis ha diciannove anni e Leslie quindici.

Entrando nell’intimità di Lady Miranda, scopriamo che il principe di Galles altro non è che un suo giovane spasimante, il barone Ottavio Tottenham, chiamato affettuosamente Totò, un bellimbusto nullafacente e annoiato del mondo, “che tutte le sue amiche le invidiavano e tutti i suoi amici detestavano”. Totò le manifesta la sua intenzione di lasciare la casa e l’Inghilterra in cerca di nuove emozioni e pensa di andare in Giappone. La nobildonna si agita poiché non vuole perderlo e subito trama qualcosa per trattenerlo, pensando alle figlie del dottor Harding, e con la scusa di un piccolo malore, manda a chiamare lui, invece del medico del villaggio, il dottor Methuen. Harding, frastornato dalle lusinghe, si presta a visitarla e a fare la sua diagnosi: “Si trattava unicamente di una leggera forma di anemia…”. Mentre scrive la ricetta, Milady insinua il proprio desiderio di conoscere le sue figlie, ma di fronte allo stupore del medico, che gliele descrive come “timide e selvatiche”, finge di non insistere.

Il lettore ha già capito che da questa donna, che ora gli appare astuta e viziosa, dovrà aspettarsi qualche suo inganno che rovinerà le innocenti figlie del dottor Harding. Come non pensare, così, al personaggio della marchesa de Merteuil, la sfrenata libertina   del celebre romanzo “Le relazioni pericolose” di  Pierre-Ambroise-Franí§ois Choderlos de Laclos, del 1792?

Il nostro lettore non ha da attendere molto. Di lì a poco giunge a casa Harding l’invito a recarsi con le figlie a Villa delle Acacie, dove si sarebbe tenuto un gran concerto con cantanti di prim’ordine, e al quale sono state invitate anche due famiglie conosciute dagli Harding.

Tutte menzogne, ma la rete è gettata.

Come si vede, la trama è tributaria di una letteratura nota e diffusa quale epigona del capolavoro francese. La si legge, comunque, con piacevolezza.

Le ragazze sono vestite con semplicità campagnola, e anche il padre: “Vi andarono; le fanciulle nei loro vestitini bianchi, le biondissime capigliature divise à la Vergine e fluenti dietro le spalle, parevano uscite da una vecchia tela di Romney; il papà aveva una lunga e antichissima palandrana scovata da Jessie in una cassa del solaio, e fortemente olezzante di naftalina.”.

Non v’è dubbio: l’autrice si sta anche divertendo attraverso l’uso abile di una sottile ironia (non dimentichiamoci che il titolo fa riferimento ad un serpente dal micidiale veleno).

Il barone Ottavio Tottenham (Totò) tende sempre di più a somigliare al visconte Valmont, anche se non possiede del tutto la maligna pervasività del personaggio delaclosiano.

Per mostrare l’innocente carattere delle due fanciulle, l’autrice ricorre ad un marchingegno: fa scrivere ad una di esse, Myosotis, delle lettere a zia Marianna, la curatrice di una rubrica femminile di un giornale di Leeds, “Mondo e Focolare”, per ricevere consigli sul comportamento da tenere quando saranno invitate da Milady addirittura a Londra. Vi apre il suo cuore e vi effonde le sue ingenuità. Sono lettere che ispirano simpatia, trasudando di spontaneità e di innocenza: “A me certo avete fatto un gran bene. Mi pare di potervi dire e chiedere tutto. E la visita a Londra, che mi faceva tanta paura, adesso me ne fa assai meno.”.

Le lettere hanno anche lo scopo di preparare l’azione futura, che si prevede terribile, mettendo in risalto e in contrapposizione la purezza delle due fanciulle. Sempre in una lettera indirizzata alla zia Marianna, troviamo scritte queste parole su Leslie: “Ella cresce e fiorisce così pura, così radiosa e traslucente, così lattea e luminosa, da parer quasi evanescente…”.

A fine novembre arriva l’atteso invito a Londra: “Era scritto su carta molto grande, color viola pallido, e fortemente profumata. Anche la calligrafia era assai grande, perpendicolare, con molti ghirigori e svolazzi.”.

Andando a Leeds con la maestra Miss Jones per fare degli acquisti in vista della partenza, Myosotis ha l’idea di far visita alla zia Marianna, recandosi alla sede del suo giornale e portando come omaggio un mazzo di rose. Grande è la loro meraviglia quando sono ricevute da un “uomo sulla quarantina, largo di spalle, con una gran barba bruna.”, il quale, alla loro domanda di desiderare un colloquio con zia Marianna, risponde: “La zia Marianna sono io.”.

In verità, il lettore già s’immaginava questo passaggio, dato che la verve ironica, presente qui ma che attraversa tutto il romanzo, lo aveva lasciato percepire. Vi si cela una specie di rabbuffo per le anime candide, restie per natura a presentire le malie e anche le mascherature del mondo.

Zia Marianna, il cui vero nome è Laurence Wilmer, si riconcilierà con Myosotis scrivendole una lettera prima della sua partenza per un’altra sede di giornale, situata a Edimburgo, e domandando di poter farle una visita per conoscere la sua famiglia, di cui tanto le aveva parlato nella fitta corrispondenza intercorsa tra i due, e soprattutto per conoscere Leslie, “dai capelli biondi ‘come i raggi del sole e della luna misti insieme’…”.

Come non pensare – riconoscendo le dovute differenze – al personaggio di “Piccole donne”: il professor Fritz Bhaer, che sarà così determinante nella vita di Jo, che alla fine sposerà?

Intrattenuto a casa degli Harding, chiacchierando con loro “A Wilmer pareva di tuffare lo spirito in una fresca fonte d’acqua montanina…”.

Il dottor Harding lo conduce a visitare il suo laboratorio e gli mostra il terribile cobra egiziano Naja Tripudians, e Laurence ha questa riflessione: “Pensavo alle ‘naie’ sociali delle nostre grandi città, di cui è tripudio il contaminare e corrompere ciò che ancora di candido, di sano e di sacro è nel mondo…”.

Pare una riflessione profetica su ciò che attende le due fanciulle quando si troveranno in casa di Milady, a Londra, accerchiate dalla sua molle perfidia e dal fascino di Totò, il barone Ottavio Tottenham.

Siamo arrivati al giorno della partenza. Recatevisi in calesse, alla stazione di Westham salgono sul treno per Londra. All’arrivo, le attende uno chauffeur con una “grande automobile verde”, una Rolls-Royce. Con lui era una signora dall’apparenza aristocratica che, una volta saputo che le fanciulle non sono accompagnate dal padre, si allontana.

“Ma è una reggia!” esclama Myosotis, una volta che sono entrate nel palazzo.

Il lettore avverte subito – guidatovi dall’autrice – il sentore di un’atmosfera lusingatrice e subdola, e accompagna con il proprio sentimento compassionevole le due sprovvedute fanciulle.

La vecchia cameriera, dopo aver mostrato loro le camere, tutte meravigliose e seducenti, e consegnato i vestiti da indossare, le invita a raggiungere Milady che ha cinque ospiti a pranzo, e precisa a Myosotis: “Ha detto la signora che lei, signorina, si pettini come al solito; e che la piccola qui, lasci i capelli sciolti.”.

Già dalle vesti, insolite e succinte, si respira aria di tresca viziosa. Leslie è vestita quasi da bambina e Myosotis indossa una veste che le lascia “scoperto il collo e l’omero e parte del petto.”. Le indossano con un po’ di stupore, ma tutto sommato felici di trovarsi in quella casa principesca. Quando Milady appare, si avvicina a Leslie e allorché questa le confida di sentirsi vestita come una bambina, le dice: “E bada, se chiedono la tua età dirai che hai dodici anni.”. Myosotis, invece, poiché indossa un abito alquanto trasparente, chiede di poter indossare una sottoveste ed avere delle maniche che le coprano le braccia ignude e riceve questa risposta: “Ma, mia cara, siete divina così! Vedrete che cosa ne diranno i miei invitati.”.

Tra questi, oltre a Totò, ovviamente, “c’è un vecchio diplomatico che ama molto le buone e belle bambine come te”, dice Milady rivolta a Leslie, e continua: “e c’è un americano, un po’ sordo, ma milionario…”.

Myosotis non se la sente di presentarsi con quell’abito che lascia indovinare tutto il suo corpo e indossa quello che si era portato da casa. Quando, un po’ in ritardo rispetto alla sorellina, compare davanti agli invitati, desta stupore e l’indignazione di Milady che non le rivolge lo sguardo. Ma gli occhi di Myosotis sono diretti soprattutto verso Leslie che, seduta su di una poltrona, sta sorseggiando un cocktail ed è circondata dagli ospiti che la intrattengono divertendosi e ridendo.

Le due fanciulle scoprono anche che in quella casa Milady tiene un gatto drogato, Moses, e assistono ad una iniezione di morfina. Ad un certo punto, giunge un nuovo invitato, Dafne Howard, “un uomo tinto come una donna?” si domanda Myosotis, il quale va al pianoforte, dove sta suonando Totò, e, dopo un’intesa con il pianista, si mette a cantare   “con una voce di soprano delicata e vibrante, prendendo gli acuti con una strana e dolce morbidezza.”. Fumerà poi dell’oppio. Anche Totò farà uso di droga. Ciò nonostante, Myosotis non si rende ancora conto, pur meravigliandosi di certi fatti, di trovarsi in una casa di vizio e perversione. Tuttavia, le due fanciulle cominciano a interrogarsi: “Immobili, attonite come due bambole, le due fanciulle sedevano sul divano assistendo ad uno spettacolo che non comprendevano, udendo delle parole che non intendevano. Ma era questo il mondo? Era questa la vita?… E allora Wild-Forest? Che cos’era? Era lo stesso mondo? Popolato dalla stessa gente?…”.

Il lettore, intanto, resta in attesa.

Sarà Myosotis, e subito dopo Leslie, che era stata drogata, a intuire finalmente la trappola in cui erano cadute. Myosotis riuscirà a fuggire dal palazzo per chiedere aiuto. È notte, per le strade di Londra, non c’è nessuno: “Allora Myosotis gridò, chiamò, strillò.”. Un poliziotto cercherà di aiutarla, ma Myosotis non saprà più ritrovare il palazzo; l’indirizzo che le era stato dato da Milady era quello di un ufficio postale: “Quella casa non fu ritrovata.”.


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Bart