LETTERATURA: Antonio Baldini: “Michelaccio”, 19414 Giugno 2019 di Bartolomeo Di Monaco Fu il padre di Gabriele Baldini, anglicista e giornalista insigne (Roma 29 agosto 1919 – Roma 18 giugno 1969). Quando nacque Michelaccio, il padre “prese una sbornia che durò tre giorni.”, e la madre quando lo allattò, tanto puppava il figlio, che “in poche settimane la poverina rese l’anima a Dio.”. Fu adottato dalla zio Salerno, un contrabbandiere che non si tirava indietro allorché c’era da fare qualche colpaccio sulla strada. Fu contento di tenere il nipote, in quanto parlava poco, e piuttosto mugolava. Stile freschissimo e vivace come già si nota. Perso anche lo zio trovato “stecchito, bocconi sul letto.”, comincia il girovagare di Michelaccio che si porta sulla spalla il pappagallo Loreto che fu dello zio: “Michelaccio non aveva in sé niente di bello: troppo grande di statura, viso rincagnato, larga mascella, lingua stenta con grandissima bocca, con un fare sonnolento e un passo disordinato che mostravano al primo apparire tutta la sua spaventosa negghienza.”. Si avvia così un’avventura picaresca, ricca di ambienti e personaggi popolari. Michelaccio non è molto sveglio di comprendonio e non è raro che sia guardato con meraviglia e sia preso in giro. La giovane vivandiera Faustina e la vecchia Signora del Castello ne ammirano la corpulenza e sono attratte sessualmente, così che noi vediamo questo istupidito personaggio tirato da una parte e dall’altra non solo dalle donne, ma dai tanti che ridono della sua complessione e della sua mente piccina. In realtà in Michelaccio si nasconde un qualche granello di saggezza popolare che ogni tanto gli fa reggere il confronto con il prossimo. Quando il capo dei banditi incontrati sulla montagna modenese, Domenico Amorotto, gli domanda di che cosa si fidi, Michelaccio risponde: “Del sol di maggio; delle strade molto battute; dei campanili in vista da lontano; dell’acqua che bolle nel rame; del nemico che fugge, mi fido; della donna che dorme; dell’uva quand’è passita, mi fido; di Cristo resuscitato, e di chi non ha motivo di farmi del male”. Baldini sa trasmetterci il suo divertimento. A volte al lettore vengono in mente favole e storie immerse in realtà fantasiose, in cui il vero metro di giudizio è la vivacità creativa del narratore. Quando compare il Castello della signora un pensiero va, anche se per un attimo, al capolavoro “Le avventure di Alice nel paese delle meraviglie” (1865) di Lewis Carroll. uando Oppure, allorché Michelaccio se ne va in giro portando in spalla il pappagallo, alla nostra mente si affaccia il ricordo de “L’Isola del tesoro” (1883) di Robert Louis Stevenson (di questo pappagallo, Loreto, non sapremo poi più nulla, e Michelaccio andrà pellegrino con sacca e bastone). In men che non si dica si trova sposato con la vecchia e orba da un occhio castellana (donna Marsilia di Bellamagione) e si ritrova marchese e in attesa di un figlio da lei. Dura poco, e una mattina presto fugge dal castello e torna a vagabondare. Michelaccio è un uomo libero e per mantenersi tale accetta qualsiasi condizione del vivere. Rifiuta perfino di approfittare della Fortuna, che un giorno compare sul suo cammino. Sulle montagne modenesi incontriamo Ludovico Ariosto che con la sua scorta da Ferrara si reca a Castelnuovo di Garfagnana. Il nostro prosegue invece per Roma. Dove troverà un tumulto, ma dove anche si sentirà a suo agio. Seguono altri racconti, tratteggiati sempre con arguzia. Dopo aver descritto la quiete e l’eternità del Parnaso, un altro racconto ci fa incontrare, come in un’apparizione, Dante Alighieri. Poi toccherà ai ritratti di Cimabue e di Giotto, con Cimabue che rimprovera il discepolo di non porre la dovuta attenzione ai suoi insegnamenti, che in realtà il discepolo applica superandoli: “i tuoi Angioli sono spalluti come uomini di fatica e con certe facce guanciute che sembrano ingrassati nella stia.”. E Giotto: “Quanto a me, la pittura intendo di servirla alla mia maniera, e solo nella misura ch’ella serve a me, per le ore belle che a prezzo d’una piacevole fatica mi sa dare.”. È una scrittura colorita, a tratti toscaneggiante, che si fa amare. Nella “Villa scarmigliata”, il bizzarro pittore Diego Spacca ha l’incarico di rimettere in sesto la dimora affrescandone le pareti. È l’occasione per far comparire sulla scena, come soggetti di ispirazione, taluni scrittori del tempo: Moravia, Ungaretti, Viani, Bontempelli, Palazzeschi, Saba, Bargellini, D’Annunzio, Bacchelli, Cecchi, Cicognani, Soffici, Cardarelli. Nel racconto omonimo abbiamo una plastica descrizione di ‘o monaciello: “Immàginatelo, in quanto alla statura, come fosse un bambino di tre anni, vestito da frate, a piedi scalzi, col suo bravo cordone alla vita e il cappuccio calato sugli occhi, con un visino color d’avorio e lucido per l’appunto come l’avorio, con due occhietti neri come i punti del domino.”. Chi ha la sventura di avercelo in casa, subisce tutti dispetti possibili, ed anche cambiando casa non ci se ne libera. Racconto tra i migliori. Clemente in “Telesforo” ha un amico che porta questo nome. Egli lo ha addestrato come fosse un cane. A che cosa? Ad arrabbiarsi al posto suo, così da poter stare in pace. Ma Telesforo muore e gli amici sono convinti che per Clemente sia una liberazione, legato com’era ad una persona così irascibile. Non sanno invece che d’ora in poi saranno guai per lui: “E dire che l’avevo addestrato così bene a pestare per mio conto i calli all’universo mondo!”. Baldini prende pure in giro (“Un successo a qualunque costo”) gli uomini che vogliono arrivare in ogni modo alla notorietà, come il presuntuoso scrittore Stamburè, una situazione che può considerarsi viva tutt’oggi. Del libro, Enrico Falqui scrisse su “La Gazzetta del popolo”: “Baldini anche quando baldineggia rimane altezzosamente nell’ambito di un’appropriata classicità.”. Giudizio da condividere, anche perché questo baldineggiare è indice di una assoluta padronanza della lingua, che il nostro, comunque gli si presenti l’idea, sa mettere al servizio del piacere del lettore. Di errori giudiziari, così frequenti al giorno d’oggi, Baldini scrive nel racconto, datato 1923, dal titolo: “Povero e buono avanzo di galera”. Uno sfortunato Metastasio sconta innocente ben diciotto anni di carcere finché il vero colpevole, giunto in punto di morte, non si accusa del delitto. Liberato, rinasce alla vita, assaporandone misteri e bellezze. Tuttavia si rende anche conto che poco è cambiato e che gli anni di prigione sono serviti, però, a migliorare la sua percezione della realtà, a distinguerne pregi e difetti: “Prima di andare in galera io non sapevo neanche lontanamente quel che volesse dire: io penso.”. Ma anche: “M’è rimasto il gusto delle quattro mura nel sangue. Oramai tutte le mie stagioni restan quadrate. Han preso una volta per tutte quella forma. Non sento più il bisogno di comunicare con nessuno.”. Sempre di carcere si parla nel racconto successivo, “Il sogno del vecchio carceriere”, in cui si disegna la malinconia di Gianni Spranga, il guardiano che un giorno si ritrova senza reclusi da sorvegliare. Nessuno dei racconti cade nell’ovvio e nella banalità. Hanno una originalità accattivante pari allo stile piacevole che li accompagna. In qualche caso da favolista (“ogni giorno della settimana vedeva le cose d’un colore differente dal giorno precedente.”) e anche da narratore alla Collodi (“Il medico si tirò a lungo la barba e gli ordinò che provasse a tenere i piedi nell’acqua calda.”), come in “Maestro Mondo”. Così pure in un altro racconto, “La Reggia parlante”: “C’era una volta un Re d’un piccolo reame”. I personaggi curiosi, da prendersi perfino come metafore, frutto di una scanzonata fantasia, non si contano. Mambrino Mambrone (è anche il titolo del racconto) è uno di questi: “a quella cert’ora ch’egli si metteva in giro con quei suoi passettini, Mambrino cominciava a vedere da per tutto niente meno che il proprio monumento.”. Un racconto, “Disertore della luna”, ci narra di un individuo che riesce ad arrivare sulla luna, ma nel giro di una mezz’ora fa “macchina indietro” poiché non è sicuro di “aver chiuso o no la porta di casa e se avevo chiuso o no il gas in cucina” ed altre divertenti inezie simili. Un avviso. Nel corso di queste letture, ci troveremo a constatare l’uso di termini scomparsi, che erano gradevoli all’epoca e lo sarebbero ancora oggi. Ne citiamo qualcuno (lo abbiamo già fatto in occasione d’un’altra lettura, e talvolta lo rifaremo): ghiare, riempiuto, stuore, ondante, epispero, fiscelle, schioppare, carra, santimonia, annoiosa, uose, insueta, contraggenio, immollarono, rocchio, grima, prescia, sbaioccarla. Delizioso l’ultimo racconto:“Dies illa (sine ira)” in cui due fannulloni discutono su quale fine del mondo sia la migliore. Uno di loro dice: “A conoscerlo prima il giorno della Chiusura, ti farei vedere, io, una Uscita di Vita che i santi in Paradiso si dovrebbero mangiare le mani dall’invidia.”. Ma è lo stesso che subito dopo riflette: “Peccato, invece, che non se ne farà nulla, e che l’ultima ora ci piglierà a tradimento, chi sa in quale brutta giornata di pioggia e di scivoloni.”. Un’opera che dovrebbe essere ristampata.
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