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LETTERATURA: Cesare Pavese: “La luna e i falò”. Einaudi, 1998

12 Gennaio 2008

di Alfio Squillaci

[L’ultimo libro di Alfio Squillaci: “Mare Jonio”, Sedizioni, 2007]

Da giovane ho amato molto Cesare Pavese. Unitamente ad Hemingway è stato lo scrittore che più ho letto, praticamente da cima a fondo, dai quindici   ai vent’anni.

Poi me ne sono distaccato, e ad un certo un punto – sotto la suggestione di qualche giudizio
tranchant di Moravia che stimo molto anche come critico – l’ho ritenuto uno scrittore illeggibile, sicuramente lontano dalla mia nuova sensibilità di adulto.
Talvolta mi accadeva di prendere dalla mia   libreria   qualche vecchio
oscar mondadori   (edizioni in cui è raccolto tutto il mio Pavese di studente povero) ormai dalla carta quasi abbrustolita e ne ritentavo la lettura. Niente da fare, non trovavo il ritmo, mi disturbava quella prosa reticente, quel lirismo smozzicato, quel ricorso all’ asindeto,   quell’assenza di respiro di grande narratore cui mi avevano abituato nel frattempo i grandi dell’800, i russi e i francesi, che avevo letto alla disperata negli anni successivi. Eppure ricordavo che almeno La luna e i falò mi era piaciuto più di ogni altro suo   libro.
Quest’estate (2001), tornato nella vecchia casa di mia madre, ho ritrovato   questo libro di Pavese, l’ho sfogliato, l’occhio mi è caduto sulla data di acquisto e di lettura, 1976, venticinque anni fa… ho avuto quasi uno squasso al cuore, l’ ho cominciato a leggere una sera sul balcone davanti al mare buio e zincato della mia Sicilia e non ho più smesso se non dopo averlo finito, a notte inoltrata. Sono andato a letto coi brividi e per tutto il sonno il libro non mi ha abbandonato: è un libro bellissimo.  

Un libro ispirato, intenso, una visione spietata della campagna italiana,   del suo viverci e morire, delle sue miserie (dove anche i cani sono tanto affamati da abbaiare alla luna scambiandola per polenta). Il rapporto tra uomo e natura è colto nei suoi termini essenziali, aspri e verghiani (Pavese ci dà qui la sua “Vita dei campi”). Se c’è poesia – e mi sembra che ce ne sia tanta – viene su dall’opera, spontaneamente, come la nebbia dai campi e non per un effetto imposto, un’intenzionale sovrapposizione della scrittura. La mitologia dei luoghi, frutto di una ossessione toponomastica, si genera dal semplice evocarli: Canelli (da dove comincia il mondo), Calamandrana, Calosso…C’è negli occhi di Anguilla piccolo (il personaggio schermo di Pavese, un trovatello   fuggito in America,   qui arricchitosi e di ritorno al paese natio dopo molti anni), negli altri personaggi,   in quelli di Nuto, di Cinto, lo stupore del primo schiudersi dello sguardo sul mondo, l’incredulità di vedere le cose al loro primo apparire, l’assoluta verginità delle sensazioni. E tutto ciò emerge dalla pagina per effetto di una prosa pointiliste, essenziale, fatta di piccoli tocchi, di minute osservazioni, di enumerazioni lievi. Una prosa che procede per ellissi, reticenze, soppressioni, che ci dà l’aura delle cose semplicemente indicandole. (Se Flaubert diceva che per capirle le cose il suffit de les régarder, qui è sufficiente nominarle).
Realismo naturalistico (neorealismo) o impressionismo? Solo schemi scolastici. A un grande scrittore stanno strette entrambe le gabbie stilistiche. Ormai sappiamo, dai tempi   di Verga e Pirandello, che l’ impressionismo e l’espressionismo nascono da una piena del   naturalismo, da una sua esondazione.
Ma nonostante gli spasmi lirici che sembrano condurre il tutto ad un puro   franare di sensazioni e rammemorazioni, la strategia narrativa c’è ed è sapiente, salda e struggente in questo libro. Essa è a doppio livello. Il primo quello dell’ “adesso” narrativo   è la storia della fattoria Gaminella   che si chiude nel drammatico falò appiccato dal folle e disperato Velino. Il secondo segue sul filo del ricordo le vicende della Mora (fattoria dove Anguilla fu servitore in fanciullezza), con le storie del sor Matteo e delle sue infelici figlie Irene, Silvia, Santa. Anche questa storia si chiude con un falò, quello appiccato al cadavere di Santa fucilata dai partigiani, spia doppogiochista della guerra civile.
Si sbaglia dunque chi   vede ( o cerca) in questo racconto solo l’idillio o il dramma campestre. C’è dell’altro, e c’è di più: l’urto delle classi sociali, la spietatezza dei rapporti di interesse (per la disputa su un modesto raccolto di fagioli e patate esplode la follia del Velino che uccide a calci la moglie e incendia la Gaminella e poi si impicca), il dramma della lotta partigiana e la conseguente e senza ritorno scelta di campo (“o di qua o di là”, o   coi repubblichini o coi partigiani).
La doppia   tragedia che chiude il racconto (e in cui si saldano i due livelli cui si accennava sopra) nasce da questi contrasti reali, e il doppio bagliore dei falò – non più, o non solo, rito ancestrale ctonio – sembra accogliere in unica vampa tutto il dolore esistenziale e sociale che brucia in questo struggente racconto.


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