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LETTERATURA: CINEMA: Cinefilia e bulimia cinematografica (parte prima)

16 Gennaio 2009

di Francesco Improta

Era il 2000, l’anno in cui, dopo trentasei anni d’insegnamento in diversi Licei di Napoli e successivamente nel Ponente Ligure, avevo deciso di andare in pensione non per raggiunti limiti di età ma per stanchezza e per poter dedicare più tempo a me stesso e alle mie passioni esclusive e totalizzanti: il cinema e la letteratura. Ho sempre considerato i libri e soprattutto i film le indispensabili provviste per l’inverno dello spirito. Nella mia mente, infatti, sono depositate innu ­merevoli sequenze cinematografiche: dall’attesa sugli scogli di origine lavica delle donne siciliane, avvolte nei loro scialli neri, simili a corvi svolazzanti, in La terra trema di L. Visconti alla straziante e suggestiva visione conclusiva del mare di Normandia del piccolo Antoine Doinel in I quattrocento colpi di F. Truffaut, dal duello tra il gesuita e il gian ­senista, dove ogni affondo è scandito da una battuta sul tema della Grazia in La via Lattea di L. Buňuel alla partita a tennis simulata in Blow up di M. Antonioni; dai flashes a ripetizione con i quali J. Stewart, immobilizzato su una sedia a rotelle, acceca il suo aggressore in La finestra sul cortile di A. Hitchcock alla scena di violenza gratuita, esorcizzata dalla musica di Singing in the rain fino ad acquistare le movenze di un leggiadro balletto, in Arancia meccanica di S. Kubrick. Ed essendo io un cinefilo inguaribile potrei continuare all’infinito; il più delle volte i ricordi fluiscono spontaneamente, in maniera disor ­dinata, talvolta, invece, li monto io stesso seguendo certi percorsi interni, una logica tutta emozionale, fino a formare un’unica, inter ­minabile pellicola lunga quanto tutta la mia vita. Ed era questa messe di ricordi che volevo arricchire all’indomani del mio volontario collocamento a riposo, attraverso una scorpacciata di film di ogni genere. Fu allora che ritrovai la voglia di Cinema e il piacere ineffabile di poterne fruire; purtroppo la maggior parte di quelle pellicole mi lasciò dentro poco o nulla; il cinema attraversava – e attraversa tuttora – una crisi di enormi proporzioni dovuta a mancanza di idee e di registi geniali (gli ultimi validi o sono stati emarginati dalle grandi Major come Cimino e Ferrara o hanno scelto la via, più redditizia, della pro ­duzione come Coppola e Spielberg oppure sono deceduti come Altman, per limitarci al solo Cinema americano) o a problemi economici e sociali (scarsezza di finanziamenti soprattutto in Europa e in Italia in particolare, concorrenza della televisione e riluttanza a uscire di sera anche per problemi di scarsa sicurezza). Non tutto però di quella mia bulimia cinematografica, durata più di un biennio, fu rigettato, fu allora, infatti, che vidi un film straordinario di un giovane regista bosniaco Danis Tanovic No man’s land (2001) che ha vinto l’Oscar come miglior film straniero e credo che mai premio sia stato più meritato. Sembra un film di genere, un War-Movie, e l’incipit con una pattuglia che si perde nella nebbia e finisce trucidata dal fuoco dell’artiglieria nemica, lo conferma in pieno. Dopo non molto, però, il film restringe il suo raggio d’azione ad un fazzoletto di terra (una trincea abbandonata) e a tre personaggi, di cui due sono nemici (un Serbo e un Bosniaco) e un terzo, anch’egli Bosniaco, è gravemente ferito ed è sdraiato su una mina balzante, che esploderà nel momento stesso in cui il suo corpo verrà spostato. Si allarga a dismisura, invece, il significato del film che diventa una metafora degli odi, spesso immotivati, che dividono gli uomini e delle guerre assurde e feroci che incendiano il mondo. E’ un atto di accusa di grande intensità ed efficacia, e senza neanche un briciolo di retorica, nei confronti della guerra tout-court e della guerra nella ex-Yugoslavia in particolare, dove per mostrare i muscoli s’impugnano le armi e dove la colpa è sempre del più debole. Non vengono risparmiati naturalmente i media che non solo riprendono, compiaciuti, questo serraglio in cui le belve si scan ­nano ma favoriscono anche queste zuffe, e spesso le creano arta ­tamente, per darle in pasto ad un pubblico, pantofolaio e teledipen ­dente, sempre più assetato di sangue e di orrori. L’attacco più duro, però, è rivolto alle forze multinazionali dell’ONU, ai caschi blu, che cercano di salvaguardare solo la propria incolumità e al contempo di guadagnarsi una buona immagine mediatica; da antologia la pagina in cui portano soccorso ai tre soldati sotto l’occhio delle telecamere. Il loro stesso concetto di neutralità è, a dir poco, aberrante, come fa no ­tare un sergente francese, la coscienza critica del film. Coscienza cri ­tica che non deve indurre in errore, perché il film non è moralista, privilegia, invece, i toni dell’assurdo e del grottesco, talvolta si ha l’im ­pressione di leggere una pagina dei Ragazzi della via Pal o di La guerra dei bottoni, senza che, per questo, la scena perda la sua dram ­maticità. Forse perché la guerra, questa volta, è dietro l’angolo, in un cortile da fiera o da sagra paesana e non nelle selve del Vietnam o delle Filippine.    

No man’s land ( Italia/ Belgio/ Slovenia/ G. Bretagna 2001)
Regia di Danis Tanovic
Cast: Branko Djuric, Rene Bitorajac, Filip Sovagovic, Simon Callow.  

   

Passando a un altro argomento cinematografico, concordo con quanto è stato detto su La balia (1999); con questo film Bellocchio si libera finalmente dell’influenza nefasta di M. Fagiuoli e torna ai capolavori degli esordi; di questa rinascita artistica del regista avevamo avuto sentore già in Il principe di Homburg ma è soprattutto con La balia che Bellocchio ritrova il migliore se stesso. Il protagonista è uno psichiatra, e questo all’inizio può lasciare alquanto perplessi, quasi egli non fosse riuscito a recidere il cordone ombelicale con la psi ­canalisi, ma alla fine ci si rende conto che Bellocchio in questo modo ha voluto esorcizzare i fantasmi del passato e ci è riuscito perfetta ­mente. il film coniuga senza strappi privato e pubblico, risultando alla fine un film politico nell’accezione più ampia del termine, alla maniera – per intenderci – di I pugni in tasca; la storia di una maternità impossibile e rifiutata riflette una contrapposizione di classe tra una borghesia (rappresentata da Valeria Bruni, bravissima in un ruolo difficile ricco di sfumature e di implicazioni psicologiche) ormai ste ­rile, incapace di allattare e, quindi, di nutrirsi e di crescere e un proletariato (rappresentato dalla balia) pieno di energie e di risorse a tutti i livelli; non ci dimentichiamo che il film tratto da una novella di Pirandello, largamente rimaneggiata, è ambientato all’inizio del se ­colo; minuziosa, credibile e ricercata senza manierismi la ricostru ­zione.  

La balia (Italia, 1999)
Regia: Marco Bellocchio
Soggetto da una novella di Luigi Pirandello
Cast: F. Bentivoglio;V. Bruni Tedeschi; M. Sansa; M. Placido

 

Interessantissimo è anche L’elemento del crimine (1984) di Lars Von Trier, uno straordinario esperimento sul colore, livido, acido e conti ­nuamente sbavato, non diversamente dalla fotografia che si sfrangia in continuazione, risultando comunque sempre granulosa e polverosa. Si tratta di un esercizio di stile che dimostra in maniera inequivocabile il talento geniale del regista danese; il film, girato nel 1984, è il primo lungometraggio di Von Trier e apre la trilogia di cui fanno parte anche Epidemic ed Europa, tutti e tre film visionari, contrassegnati da un uso spregiudicato e sapiente della macchina da presa: le inquadrature hanno un taglio originalissimo, spesso riprendono gli attori di sbieco, inserendoli in prospettive angosciose e senza fine, altre volte li schiac ­ciano dall’alto per materializzare un senso reale di asfissia. Il film che è un incubo delirante, mescola continuamente il piano della realtà e quello dell’immaginazione e ha una struttura particolarissima, simile all’anello di Moebius, di cui non si riesce ad individuare né l’inizio né la fine. Debitore nei confronti di Tarkovskij (Stalker) e di Lynch (Eraserhead: la mente che cancella), appare creditore nei confronti Di R. Scott (Blade Runner) e dello stesso Lynch di Strade perdute.  

L’elemento del crimine (Danimarca 1984)
Regia: Lars Von Trier
Cast: M. Elphick; M. M. Lay; E. Knight; J. Wells  

 

Non al livello dei film precedenti, ma sicuramente accattivante è Pane e tulipani di Silvio Soldini che non a caso, nel 2000, ha ottenuto nove (9) David di Donatello. È una delicata commedia sui sentimenti, che mi ha riportato alla mente il migliore Almodovar (per intenderci, quello di Legami e Donne sull’orlo di una crisi di nervi) anche per la capacità di amalgamare toni diversi in maniera sapiente ed efficace. A differenza però del regista della movida, Soldini propende per una dimensione più onirica che iperrealistica. Il finale del film, molto bello, mi ricorda il carosello conclusivo di Otto e mezzo di Fellini. Il titolo del film deriva da uno slogan di alcune operaie tessili americane che all’inizio del secolo chiedevano non solo pane ma anche rose per soddisfare un bisogno dell’anima non meno impellente di quello del corpo. Sono pronto a scommettere che Soldini, se imparerà a usare la macchina da presa con maggiore libertà creativa e a scegliere le inquadrature in ma ­niera più rigorosa, diventerà uno dei grandi registi del cinema Italiano, pochi registi, come lui, hanno una conoscenza così approfondita del pianeta-donna; nel film in questione, aiutato da una straordinaria Licia Maglietta – sua compagna nella vita – ha creato uno dei personaggi femminili più riusciti di questi ultimi anni, un personaggio a tutto tondo, capace di una gamma di sentimenti e di emozioni veramente unica, una donna schiacciata da un’esistenza di rinunce e di umiliazioni e da un marito grezzo ed insensibile che in punta di piedi, senza alzare la voce, decide per la prima volta in vita sua di ascoltare il battito del suo cuore. Eccezionale anche l’interpretazione di Bruno Ganz e di un caratterista, mai visto prima, Giuseppe Battiston (logicamente parlo del 2000, anno in cui uscì il film e sempre a quell’anno va riferito il mio giudizio su Soldini, in parte smentito dalle prove successive) ch’è una vera e propria rivelazione.  

Pane e Tulipani (Italia 2000)
Regia: Silvio Soldini
Cast: L. Maglietta; B. Ganz; M. Massironi; G. Battiston; A. Catania.

 

In questa rapida ricognizione, a volo di uccello, non posso non citare un film straordinario come Il mestiere delle armi (2001) di E. Olmi, la cronaca dettagliata degli ultimi giorni di vita di Giovanni delle Bande Nere. Un film che mescola sapientemente storia e fiction per darci un ritratto potente non solo di un personaggio, guardato benevolmente per le sue straordinarie doti di uomo e di guerriero, ma anche di un’epoca, fatta di tradimenti, di congiure, di promesse non mantenute, nel rispetto delle teorie politiche del Machiavelli, visto qui come punto di riferi ­mento imprescindibile e più volte citato da Pietro Aretino che fu al servizio del capitano di ventura, dopo essere stato espulso da Roma da Clemente VII per i 16 sonetti lussuriosi, scritti per illustrare altrettanti disegni erotici di Giulio Romano. Il film descrive un breve lasso di tempo, dal 23 Novembre del 1526 al 30 dello stesso mese, giorno in cui Giovanni muore per le ferite riportate nella battaglia alle fornaci di Governolo, ferite da arma da fuoco, evidente in questo caso la denuncia dell’uso della polvere da sparo che sminuisce o pone in secondo piano il coraggio e il valor militare dei guerrieri (tale condanna del resto si nota anche nei Dialoghi dell’arte della guerra del Machiavelli). Straordinaria e filologicamente corretta la ricostruzione ambientale e curatissima la scelta delle inquadrature, caratterizzate da una particolarissima figura ­zione, per cui i personaggi non riempiono la scena ma s’inseriscono in essa amalgamandosi perfettamente con il paesaggio, quello della pianu ­ra padana brumoso e struggente, particolarmente caro a Olmi che ne rende, con estrema semplicità e naturalezza, tutta la straordinaria poesia.  

Il mestiere delle armi (Italia 2001)
Regia: Ermanno Olmi
Cast: C. Jivkov; S. Ceccarelli; S. Grammatico; D. Tenekedjieva


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1 commento

  1. Commento by marino — 16 Gennaio 2009 @ 10:40

    Come ci sento la tua voce in questo pezzo, Professore!
    Ti abbraccio e spero di vederti presto.

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