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LETTERATURA: E dopo… il silenzio

29 Ottobre 2008

di Gian Gabriele Benedetti

[Oltre a numerosi libri di poesia, ha pubblicato la raccolta di racconti “Paese”, Lalli Editore, 1986]

Silvano si alzò che ancora le stelle erano appese al soffitto del buio. Si sciacquò il viso con l’acqua fredda della catinella, per cacciare il torpore del sonno dagli occhi, e scese in cucina.
                      Il caminetto emanava, anche a quell’ora, un dolce tepore, ché sotto la cenere covavano sempre le braci del ciocco, lasciato lì per la notte. Le sparse con le molle e subito si precipitarono a dar vita a tutta l’ansia repressa su per la cappa del camino, che si inebriò di un brulichio festoso di scintille. Mise legna nuova e la stanza, dopo un fumigare denso, si ravvivò al richiamo bleso della fiamma rinata.
                      Prese  a  prepararsi  sveltamente  ed  a   mangiare   un   boccone   affrettato: ché  il giorno-fanciullo non lo trovasse tuttora in casa. Già il gallo cantava alle porte dell’alba.
                      L’aria umida e fresca di un autunno inoltrato lo investì, non appena fu nell’aia davanti casa. Più che freddo, si sentiva odore di campagna matura e di foglie marce, ma la giacca sulle spalle ed il cappello in capo facevano bene. Gettò alcune manciate di granaglie ai polli, che, pur nell’ oscurità, in un frenetico svolazzare, vi si buttarono sopra.
                      E si trovò sul viottolo, con la vanga sulle spalle, a scendere, pratico, lungo una fuga di campicelli terrazzati, che a stento si intravedevano. Un leggero venticello muoveva a tratti i rami quasi spogli, lasciandoli poi, all’improvviso, immobili, come stanchi, ma ancora si sentiva sparso il ticchettio delle ultime foglie secche al distacco.
                      Non si fermò che al campo grande a mezza costa. Dal monte ormai si riversava lenta la spuma aurorale e cominciava a sbiadire i lumi della notte già vinta. Qualche calandra canterina faceva dimenticare per un attimo la fine della stagione.
                      Silvano, appoggiato alla vanga piantata nel terreno sodo, sostò   un poco, come per ascoltare il respiro della terra, della sua terra. E quando dall’alto si aprì un cielo così luminoso e profondo che pareva di caderci dentro a capofitto, si segnò e prese a rivoltare   le zolle maligne con la cadenza solenne di un rito.
                      Giù, nella valle a mezzaluna, si spalancava un vuoto pieno di nebbia, con qualche ramo rinsecchito a spuntare come scheletro nel nulla. Intorno, sopra il mare bianco, ancora campicelli a terrazzo, trasandati e solitari, e, qua e là, occhi tristi di vecchie case coloniche in abbandono. Più in alto la ventata scura del bosco compatto.
                      Il lungo silenzio, ora, veniva rotto solo dal tonfo cadenzato della vanga.
                      Ed era quella l’ultima voce amica della mia campagna avara a cantare le ore brevi rimaste per labili estremi segni di vita. Poi solo una memoria struggente a ridarci quel mondo di grazie disperse, che si porta dentro, gelosi, nelle radici segrete di noi, per non smarrire del tutto l’antica luce di isole bianche, preziose, intimamente invocate e amate.


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Bart