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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

FAVOLE: Storie del Piccolo Oro: Mahcù #8/8

27 Ottobre 2008

di Bartolomeo Di Monaco

[Per le sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.]

Poiché hai avuto la pazienza di seguirmi fino a qui, amico lettore, voglio adesso sbalordirti con una notizia alla quale, ne sono certo, non crederai mai; svelarti che in un luogo della Terra, probabilmente molto lontano dal tuo paese, c’è… (spalanca la bocca, sbarra gli occhi per la meraviglia) c’è il regno della felicità; sì, quello vero narrato dalle leggende, vagheggiato nelle favole dei nonni; tutto come lo hai visto nei tuoi sogni: bei giardini, boschi ricchi di laghi, leggiadri animali in libertà, case ordinate, castelli meravigliosi; ciascuno dedito al proprio lavoro, nessuna lite, amicizia a piene mani, il buon senso dispensatore infallibile di giustizia.
Devi anche sapere (e come potresti altrimenti essertene accorto?) che da quando esiste il mondo, tutti i governanti della Terra mandano in gran segreto gli uomini più forti e coraggiosi alla ricerca di questo regno. Infatti, una leggenda antichissima promette a colui che riesce ad entrarvi, e al suo paese, fortuna e felicità.
E siccome fin dai tempi di Adamo ed Eva l’umanità si dibatte nel dolore e nella miseria, si può immaginare quanto sia ancora oggi desiderata una tale conquista.
Addirittura, degli uomini eccezionali vengono addestrati per lunghi anni. Si racconta, infatti, che l’incantevole regno sia davvero impenetrabile, circondato ai quattro lati da mura possenti; ad ogni ingresso, sbarrato da porte massicce, vegliano notte e dì animali feroci, simili a leoni, ma giganteschi, mai visti sulla Terra; sette per ciascuna delle quattro porte.
E poiché da quel regno nessuno esce mai, né desidera uscirne, le sue porte si aprono molto raramente e all’insaputa di tutti. Quando ciò avviene, si leva alto il ruggito delle belve e la loro inquietudine si avverte a mille miglia di distanza.
Avrai già capito che è assai difficile perciò entrarvi e, se ti guardi attorno, avrai anche compreso che nel tuo paese nessuno, per quanti bravi eroi vi abbiano provato, è ancora riuscito nell’impresa.
Ebbene, se tu lo desideri, posso aiutarti a compierla.
Come? Svelandoti i suoi segreti, con il racconto di questa storia vissuta dal piccolo Oro.
Proprio così. Attraverso questa storia, tu ed io saremo forse gli unici al mondo a percorrere i sentieri che conducono al regno favoloso.

Oro, infatti, era capitato in un paese davvero sfortunato; miseria e tristezza dominavano dappertutto; i bambini morivano affamati, e quelli che sopravvivevano avevano le lacrime esaurite dal pianto; la gente viveva senza colpa sopra terre maledette, aride, dove nulla cresceva e il sole stesso era una sciagura.
Nessuna Nazione sembrava udirne il lamento.
Oro decise di fare qualcosa per quei poveri sventurati, e scelse l’uomo per quella straordinaria avventura. Lo scelse giovane, forte, coraggioso.
«Vuoi trovare il regno della felicità? »
Spiegò quali piacevoli conseguenze avrebbe avuto per la sua gente: «Sarete felici per sempre, non avrete più fame né miseria. »
«Ma come faccio a riuscire? »
Per giorni e giorni, Oro volle raccontargli tutto ciò che era necessario sapere.
La strada era assai lunga. Si dovevano attraversare catene montagnose quasi inaccessibili: dagli Urali, alle Alpi, all’Himalaya; oceani come il Pacifico, mari come il Mediterraneo, deserti infuocati, vastità glaciali.
«Non posso, non posso » esclamava il ragazzo. «Non potrò mai riuscire! »
«Ti aiuterai con questi » lo incoraggiò Oro, e mostrò allo sfiduciato Mahcù una giacca e una bisaccia.
Non si trattava di semplici oggetti, naturalmente; indossando la giacca avrebbe potuto camminare a velocità eccezionali, oppure anche volare! Ma nessuno doveva vederlo. «Non avresti più pace e dovresti passare il tempo a nasconderti, perché gli uomini cercherebbero di rubartela. »
«E la bisaccia? »
«Ogni mattina vi troverai del cibo; non avrai così da preoccupartene, e potrai badare soltanto a raggiungere la meta. Passeranno forse degli anni prima che tu arrivi davanti alle porte della città. »
Ma Mahcù era ben lungi dall’essersi convinto a partire.
«Come farò a seguire la strada giusta? »
Oro aveva pensato anche a questo.
«Te lo dirà la bisaccia; se una mattina la troverai vuota, vuol dire che devi cambiare rotta. Basterà quindi orientarla verso il punto cardinale giusto, e di nuovo la bisaccia avrà cibo per te. »
Alla fine prevalse in Mahcù la convinzione che qualcosa doveva fare per la sua gente tanto infelice.
Così una mattina, salutato Oro, si decise a partire in gran segreto.
Ne vide di albe e tramonti, con la sua bisaccia sulle spalle!
Quando era stanco, si fermava in una grotta o dentro qualche capanno di cacciatori. Gli ronzavano intorno, incuriositi, gli animali selvatici; qualcuno si spingeva fino ad annusarlo.
Cammina e cammina, Mahcù aveva già varcato le Alpi, visto la bella Italia, con le sue dolci colline, le sue città famose, ricche di arte e di fascino. Superò l’Austria e la Svizzera. Più d’una volta fece ricorso alla giacca magica, soprattutto di notte per non essere visto. Davvero raggiungeva la velocità del vento quando le gridava: «Corri! » oppure: «Vola! » Se si librava nel cielo, che spettacolo vedere sotto di sé la Terra!
Cominciava a provare piacere al viaggio; e com’era eccitante aprire al mattino la bisaccia! Ogni volta una novità, e sempre cibo di suo gusto, mai una cosa sgradita.
E quando sbagliava strada?
Machù metteva la mano dentro la bisaccia, sentiva il fondo… vuota! Oh sì, un po’ si disperava: «E ora che cosa faccio? », «Dovrò tornare indietro? », «Quando mai arriverò? »
Ma bastava che la orientasse verso questo o quel punto dell’orizzonte e tac, subito la bisaccia era piena, e il cibo assicurato.
Gli parve un gioco, e col tempo vi prese anche gusto.

Ma ecco che un giorno, sul fare del mezzodì, il sole alto e luminoso nel cielo, gli comparve davanti, improvvisamente, un grande crepaccio. Stupito, si guardò attorno, cercò un punto dove valicarlo, ma la larga fenditura si allungava, si allungava…
«Bene » si fece coraggio Mahcù, e …«Vola! » ordinò alla giacca.
In un lampo fu dall’altra parte.
Ma aveva fatto appena pochi passi, quando dalla vicina boscaglia udì sopraggiungere delle grida.
Si precipitò di gran corsa in quella direzione e vide una donna che si dibatteva nel tentativo di liberarsi da un grosso grifone; gli artigli dell’uccello erano conficcati sulle sue spalle, le ali fendevano l’aria.
Subito la bestia si allontanò; si posò su di un alto ramo e stette ad osservare l’intruso.
«Sono disperata » gli corse incontro la donna. «Non so come sia capitata in questo luogo, ma dacché vi sono, non mi è più possibile allontanarmene; una voragine mi divide dal resto del mondo, e questo uccello mi assale continuamente, tormentandomi con pene indicibili. So, oramai, che non vuole uccidermi, perché altrimenti lo avrebbe già fatto, ma soltanto farmi soffrire. Liberami da lui, ti prego. »
Supplicava, teneva le mani sul petto di Mahcù.
Era bella la donna.
Ricordò Mahcù che Oro lo aveva messo in guardia da certi strani incontri: «Ti regolerai come meglio ti parrà, ma ricordati che tutto ciò che farai avrà importanza nel tuo viaggio. »
Qual era mai il senso di queste parole?
Il grifone sbatté le ali; si agitarono i rami circostanti; la testa del rapace era allungata verso il basso, rivolta a Mahcù; gli occhi erano spalancati, come in attesa.
«Aiutami! » tornò a supplicare la donna.
Senza più indugio: «Vola! » gridò Mahcù, e subito si alzò incontro al grifone, teneva il coltello nella mano.
Il rapace si librò nell’aria, spiegando le ali e volteggiando maestosamente, come per mostrare tutta la sua potenza.
Si azzuffarono. Gli artigli ferivano il corpo del ragazzo con tagli profondi, il becco infieriva.
Mahcù non riusciva a stringere a sé l’animale per colpirlo; ogni volta il suo assalto gli procurava nuove ferite.
La donna li guardava, con il viso rivolto all’insù, muta.
Finalmente il pugnale trovò il cuore della bestia, che emise un lamento terrificante, poi gli artigli lasciarono la presa, le ali abbandonarono l’aria, e il rapace precipitò a terra con uno schianto.
Lo vide, da lassù, disteso, immobile, con le grandi ali aperte. La donna vi stava chinata sopra e lo osservava.
Scese anche Mahcù, si guardò le ferite, gli bruciavano.
Ma quando rialzò gli occhi per chiamare la donna… quale inaspettata sorpresa lo colse: era sparita!   E con lei il grifone! Davanti a Mahcù non c’era nessuno. Restava soltanto il bosco col suo silenzio.
Incredulo, vagò alla loro ricerca. Frugò e perlustrò dappertutto, ma non trovò traccia di alcun essere vivente, solo un silenzio sconfinato, allucinante.
Se ne andò.

Trascorsero ancora degli anni…
Ne vide di cose, Mahcù! di cui non immaginava nemmeno l’esistenza.
Finché giunse ai confini tra Europa e Asia, sulla cima di una montagna spaventosa.
Che fatica lungo quei sentieri pietrosi, coi pericoli sempre in agguato!
Salì   sul punto più alto e con somma meraviglia scoprì che era abitato.
Vide infatti delle capanne sparse qua e là, alcune disposte in semicerchio.
Si avvicinò. Pensava di incontrare qualcuno, ma non scorgeva anima viva.
Attese; si sedette sopra un sasso per riposare.
Soltanto dopo molte ore – il sole già alto – udì dei rumori provenire dalla boscaglia vicina, e farsi sempre più forti, convulsi, disordinati. Infine ecco apparire gli abitanti di quel piccolo villaggio.
Portavano armi rudimentali; tornavano, si vedeva bene, da una qualche sciagurata spedizione, vestiti di pelli di animale: uomini, donne, bambini.
Si arrestarono appena lo videro; Mahcù si alzò e cercò di spiegare a gesti come fosse capitato al loro villaggio.
Riuscirono infine ad intendersi, e così sappiamo anche noi che un maleficio gravava sul luogo e sulla sua gente; le peggiori calamità della Terra (malattie, carestie e quant’altro di terribile) si abbattevano su di loro, e vanificavano ogni sforzo fatto per vivere in pace.
Tutto era cominciato molti e molti anni prima, quando uno strano individuo, malvagio e corrotto, era capitato al villaggio; e poiché non era riuscito a predare quella gente, aveva scagliato la tremenda maledizione: il villaggio avrebbe sofferto pene indicibili finché non fossero riusciti a scorgere un grosso lupo che da quel momento avrebbe vagato per la boscaglia, emettendo terribili ululati.
Da allora, appena lo udivano, subito lasciavano ogni cosa e accorrevano nella speranza di sorprenderlo.
La loro vita era oramai sconvolta; quegli ululati li facevano impazzire, ed erano giunti al punto di non sapere più se fossero veri o frutto della loro mente angosciata.
Pur tuttavia correvano al bosco… tante erano le disgrazie da cui dovevano liberarsi.
Anche quella volta la spedizione era stata inutile; e incontrare Mahcù al ritorno – spiegarono – aveva richiamato alla mente, purtroppo, il malvagio, causa della loro sciagura.
Mahcù decise di aiutarli.
«Come posso proseguire il viaggio, senza aver prima tentato in qualche modo di alleviare le sofferenze di questi infelici? » pensò, udito il racconto.
La sera, radunati intorno al fuoco, prepararono un piano.
Se il lupo avesse ululato, non si doveva andare alla rinfusa, spiegò Mahcù, ma predisporre delle squadre, e ciascuna avrebbe dovuto raggiungere un punto stabilito del bosco; e da lì proseguire perlustrando lo spazio circostante palmo a palmo, nelle tane e perfino sugli alberi; e stringere così il cerchio intorno alla belva.
Non avrebbe avuto scampo.
Andarono a dormire rasserenati. Alcuni restarono di sentinella, pronti a far scattare il segnale.
E così, quando l’ululato venne – terrificante, lugubre – non ancora l’alba, subito fecero come stabilito. D’un lampo, ogni gruppo fu al suo posto, e Mahcù avanti a tutti, anche lui armato del coltello.
L’ululato continuava: davvero era protervo, pieno di sfida.
Ciascuno batteva palmo a palmo il terreno, alzava gli occhi sui rami, scrutava tra il fogliame.
In mezzo a loro, lo si udiva bene, partiva l’urlo terribile; tra poco avrebbero raggiunto la belva e forse, finalmente, l’avrebbero vinta.
Ansimavano, colmi di speranza; rimuovevano pruni, rami caduti, ostacoli d’ogni sorta.
Infine, ecco spuntare il lupo. Mamma mia, com’era enorme! Nero, aveva la lingua e gli occhi rossi come il fuoco, e la gola spalancata nel grido.
Fu un attimo. Non fecero in tempo a scorgerlo che il grosso animale, le fauci ancora rivolte all’insù, sparì di colpo, dissolto nell’aria.
«Ma è l’uomo della maledizione! » gridò qualcuno.
«È lui, è lui! » fecero gli altri.
E tutti affermarono di aver visto il lupo in un attimo diventare uomo e con la stessa fulminea rapidità dileguarsi, e sciogliersi nell’aria.
Con la speranza nel cuore, fecero quindi ritorno a casa.
Invitarono Mahcù a restare per sempre con loro.
Ma egli rimase fintanto che fu certo che la maledizione se n’era andata davvero insieme col lupo; e allorché il momento giunse, piano piano, prima dell’alba, senza far rumore, quando tutti dormivano, lasciò il villaggio.

Ne fece ancora di strada!
Albe e tramonti lo sorprendevano quando in mezzo ad un fiume tumultuoso, quando nel deserto, o mentre attraversava sterminate pianure, o superava impervie montagne, coperte di ghiacci.
Come avrebbe fatto – pensava sempre più spesso – senza quella giacca provvidenziale, così docile e pronta al suo comando? O senza quella bisaccia straordinaria, che ogni mattina gli assicurava di che nutrirsi, oltre che la giusta direzione?
Mahcù cominciava a credere in quel viaggio. Forse sarebbe riuscito a compiere l’impresa; non vedeva l’ora; principiò perfino ad essere impaziente.
«Dove sarà mai questo regno della felicità? Ma ti scoverò, alla fine; troverò il tuo nascondiglio segreto! »
E quando se l’immaginava tra i monti, e quando in riva al mare, o adagiato sulle sponde di un bel fiume, o nel mezzo di una verde pianura.
«Come deve essere bello! » sospirava.
Ma di nuovo passarono gli anni.
Mahcù conosceva ora gran parte del mondo, e tutto ciò che aveva incontrato gli era parso meraviglioso.
Animali, piante, uomini, perfino le montagne, gli sembrava che rispondessero a regole, leggi eguali ovunque egli capitasse, a Nord come a Sud, a Est come a Ovest; e com’era curioso paragonare le abitudini di un animale visto chissà dove a quelle di un altro – magari simile – incontrato all’estremo del mondo!
Era così anche per gli uomini; in fondo tutti eguali, mossi dal sentimento, guidati dalla ragione.
Ma ecco che un giorno, proprio nel bel mezzo di un deserto, quando meno se l’aspettava, udì sopraggiungere, da non molto lontano, come dei lamenti; infine distinse il ruggito delle belve descritte da Oro.
«Sono arrivato! » ansimò, preso da smarrimento, e anche da incontenibile gioia.
«È il regno della felicità! Ce l’ho fatta! Ce l’ho fatta! » e saltava, saltava sopra quella sabbia rovente.
Vide le belve, infine! Gigantesche come le aveva immaginate: sette per ogni porta, con gli occhi enormi, gli artigli possenti piantati sulla sabbia.
E vide le porte, chiuse come gli era stato detto, alte decine di metri, di oro massiccio; le belve vi stavano innanzi guardinghe, le sette teste spiavano in ogni direzione. Com’erano alte e profonde le mura, imponenti! Mahcù non ne scorgeva la fine; non riusciva ad intuire i confini di quel regno.
«Non ce la farò mai ad entrare » brontolò sconsolato.
E anche tu, amico lettore, giunto a questo punto, ti domanderai come farà Mahcù a superare quegli ostacoli terribili; penserai che forse potranno giovargli la bisaccia e la giacca magiche, che tanto lo hanno aiutato o, forse, sarà lo stesso Oro a toglierlo d’impaccio, come ha fatto molte volte nei confronti degli altri protagonisti di queste storie.
E invece nulla di tutto ciò sarà necessario.
Perché Mahcù ha trovato da sé lungo il viaggio le chiavi di quel regno: generosità, spirito di sacrificio, pazienza, disponibilità verso il prossimo, amore per la natura, e molte altre virtù ancora, che tu, ne sono certo, avrai riconosciute.
Mahcù ebbe così il privilegio, unico tra gli uomini, di vedere le belve farsi da parte al suo passaggio, e accovacciarsi ai suoi piedi.
Ebbe paura, però.
«Ora mi saltano addosso, mi sbranano. »
Chiuse gli occhi e raccomandò l’anima a Dio.
E invece udì le porte massicce girare sui cardini, e gli apparve la città: bella, armoniosa, incantevole come l’aveva descritta Oro.
I suoi occhi non avevano mai visto meraviglia più grande; entrò e fu accolto come uno di loro.


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3 Comments

  1. Pingback by Monaco » Paris: Monday OOP — 27 Ottobre 2008 @ 13:45

    […] LETTERATURA: FAVOLE: Storie del Piccolo Oro: Mahcù #8/8di Bartolomeo Di Monaco. [Per le sue letture scorrere qui. Il suo blog qui.] Poiché hai avuto la pazienza di seguirmi fino a qui, amico lettore, voglio adesso sbalordirti con una notizia alla quale, ne sono certo, non crederai mai; … […]

  2. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 27 Ottobre 2008 @ 22:08

    Che sia bentornata la favola del Piccolo Oro! La favola-metafora della felicità, questa. Quella felicità sempre vagheggiata, ma impossibile o quasi a trovarsi. La si può raggiungere solo quando siamo in pace con noi stessi e con gli altri, quando ci siamo accettati, cercando di migliorarci, e ci siamo spesi soprattutto per aiutare il prossimo, per fare del bene. Al di fuori di tale contesto, pur in possesso di enormi ricchezze, non c’è felicità. Significativa, in questo senso, anche la favola “La camicia della felicità”. L’uomo che dimostrava di essere felice, non aveva una camicia.
    È per noi tutti, ma soprattutto per i ragazzi, questa bella e significativa pagina, un sano e saggio indirizzo, un insegnamento che non può far che bene. Ed è una luce che può limitare, se non annullare quel buio che produce tanta letteratura-spazzatura, non rara, purtroppo, ai nostri tempi.
    Ritengo importante qui ricordare quanto ebbe a dire sulla felicità Adorno: “La felicità è come la verità: non la si ha, ci si è […]. Per questo nessuno che sia felice può sapere di esserlo. Per vedere la felicità, ne dovrebbe uscire […]. L’unico rapporto fra coscienza e felicità è la gratitudine”. E, in modo ironico, Prevert scriveva: “Bisognerebbe tentare di essere felici, non foss’altro per dare l’esempio”.
    Buona felicità a te, Bartolomeo, ed a tutti!
    Gian Gabriele Benedetti

  3. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 27 Ottobre 2008 @ 22:18

    Grazie, Gian Gabriele. Vorrei che davvero esistesse su questa Terra il piccolo Oro. Nella mia fantasia è esistito! Anzi, esiste ancora!

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Bart