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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Giulia

29 Maggio 2009

di Valeria Caristia

[La rivista dà il benvenuto alla nuova collaboratrice, che lavora a Roma come consulente (contratti a progetto) in qualità di Instructional Designer, ovvero redattore di contenuti e storyboard per wbt – web based training -, corsi su computer e per la formazione a distanza).
Ha collaborato alle recensioni letterarie per una rivista di Roma, “Storie†e ha svolto un breve stage in ufficio stampa per la redazione di news on-line e la correzione di bozze.]

Giulia! Giulia! Giulia, Giulia, Giulia! Oh Giulia, avresti fatto meglio a rimanere in Italia, anziché venire qui a New York con il sogno di fare l’attrice. Ah, l’attrice…Sì, certo. Come Julie Andrews, Audrey Hepburn, Kim Basinger. Ma va! Aveva ragione tua madre:
“Non ce la farai mai: cosa credi, che basta aver una bella faccia e un bel culo per diventare famose. Tu te la tieni troppo stretta e invece quelli è solo lei che vogliono. Non ci riuscirai mai!”
Aveva ragione! Tu l’hai data. A tanti. E però te ne stai qui, in questo fast food di merda a fare la cameriera, come dieci anni fa.
Trentacinque anni e neanche uno straccio di fidanzato. L’attrice, poi, la fai, tutti i giorni, per non vomitare. Verresti licenziata.
A questo pensavo quel giorno, come ogni giorno.
E mi sembra così lontano quel giorno, quasi una vita.
Ora te ne stai qui ad aspettare.
Arriverà tra poco e io l’aspetto, già da mezz’ora, ripensando a quel giorno, così lontano. Eppure era solo ieri. Ieri che avresti pagato oro purché qualcosa, qualcuno ti portasse via di lì, da quel ristorante puzzolente, da quella vita persa, senza un verso, né capo né coda. Ma ora che ci sei, in un’altra vita, vorresti tornare indietro. Ma non puoi. Non potevo.
Mi aveva dato delle istruzioni molto precise e io, come al solito, le avevo eseguite alla lettera. Ci avevo messo tutta la mattina per trovare tutto quello che mi aveva chiesto: venti tubi innocenti, quaranta pannelli di legno plastificato, viti, bulloni, chiodi. Li avevo stipati nel casotto del generatore elettrico, nel prato dietro al caseggiato marrone. Era stato un gioco da ragazzi; avevo lavorato in un vecchio magazzino i primi anni a New York. Ora era abbandonato, ma un vecchio venditore ambulante lo usava per nascondere merce rubata. A volte si trovavano cose interessanti, certo mai roba di valore. Mi aveva detto che dovevamo muoverci prima di tutti gli altri, per poterci salvare: bisognava accaparrarsi tutto il necessario per poter sopravvivere prima che gli altri scoprissero che mancava così poco tempo. Avremmo dovuto lavorare molto. Ma io non avevo paura, non ho paura: sono abituata a sopportare la fatica e il lavoro duro mi ha fatto sempre sentire viva.
Il sole è caldo! Troppo caldo. Uffhh! Sto sudando come un maiale. Chissà perché si dice così. Che il maiale sudi più di altri animali? Forse è per il senso di sporcizia che quest’essere ispira, stando in quei recinti lerci, putridi, pieni di merda. Ma è così che vivono i maiali? Quegli animaletti rosei, con la coda arrotolata che poi finiscono nel mio panino e in quello di tutti i porci clienti che si strusciano sul tuo culo quando ti chini a raccogliere qualcosa che è caduto e loro stanno lì, dietro di te, non si sa per quale fortuita casualità.
Avessi almeno un cappello! Mi sta scoppiando la testa…Sono le quattro e mezza; ormai è quasi un’ora che aspetto. Ma lui che ne sa! E’ dalle cinque di stamattina che sono sveglia, ho le gambe gonfie e mi strapperei i collant di dosso se potessi. E lui mi dà buca! Come se non fosse lui ad aver montato tutta questa storia. Non che non gli creda, ma è tutto così assurdo, lontano, incredibile; lui, però, sa molte più cose di me che ho a mala pena la terza media. Quando ero in Italia pensavo solo che volevo diventare famosa, comprarmi una casetta con un giardino e fare tante cene per gli amici. Lui invece è laureato in matematica a Berkeley in California. E io che pensavo a quello stato come la patria dei surfisti, dei vecchi ricchi in pensione, amanti del mare e del vino. Invece quell’università è famosa, come i gruppi che vendono più dischi qua. California. Vorrei andarci un giorno, prima che sia troppo tardi.
Dice che è da lì che inizierà tutto: la terra comincerà a sprofondare e l’enorme volume d’acqua coprirà d’improvviso tutto. Proprio sopra il Tropico, in quella che viene chiamata Valle della morte, dove s’incrociano due correnti, quella fredda dell’Alaska e quella calda della California, o forse mi sbaglio, il contrario. Beh, comunque non ho capito bene come, ma per qualche ragione una grande onda si formerà dall’oceano e portata da questi venti, arriverà alla terra e sarà l’ultima cosa che vedremo, non avremo tempo nemmeno di dire: oh, cazzo!
Così dice lui, io gli credo, o forse ci voglio credere. In tutta questa sfiga da quando sono nata, forse lui è la mia salvezza, in fondo è sempre così nelle storie dei film: c’è sempre qualcuno, uno o due al massimo, che conosce la verità, o il futuro e che si salva, alla fine, per raccontare la storia, il come va a finire. E forse sono proprio io, grazie a lui, che mi ha scelta.
Ecco. Questo non l’ho capito ancora bene: perché ha scelto me? Per amore? Aha…cazzate! L’amore non esiste, almeno per quelle come me, abituate a chi ti prende dentro un bagno e strappa il perizoma con i denti, tanto poi sei tu che devi cucire. Non che non mi sia divertita: non devi preoccuparti di tenere sempre la casa in ordine, di avere sempre qualcosa in frigo e non devi lavare le mutande a nessuno. Però quelli che ti porti casa, spesso hanno qualcuna che gliele lava le mutande e da loro tornano sempre e a te ti vedono così, come un bicchiere di birra, ti gustano fino a che sei fresca, pronta da bere, nel bicchierone, servito quando ne hai voglia. Due dollari e mezzo e passa la paura.
Lui però non mi ha mai strappato un indumento di dosso e a dire il vero non mi ricordo nemmeno se abbiamo mai avuto un rapporto completo. Non è un grande amatore. Ma a me sta bene così, un po’ di riposo ci vuole anche per me. Certo, quando l’ho visto per la prima volta, aveva anche lui una birra di fronte, aveva quello stesso sguardo perso come tutti quelli che sembra aspettino qualcuno, che poi non arriva mai. Era gentile, l’occhio vispo, intelligente e due grandi belle labbra; sì proprio un gran bel ragazzo.
Cazzo! Fa proprio caldo e il trucco mi sta colando sul collo; mi brucia un po’ la pelle, i peli stanno già ricrescendo, ma non posso grattarmi, i bulbi prenderebbero a gonfiarsi, la faccia ad arrossare e sulla mia fronte si leggerebbe Giulio.
Devo andarmene. E’ del tutto inutile continuare ad aspettare, lui non verrà.
Dovevo andarmene, dovevo camminare a lungo per arrivare a casa, avevo   bisogno di una doccia gelata, che mi togliesse quell’inquietudine di dosso; avevo bisogno di staccarmi quella maschera.
Aperta la porta, lasciai cadere le   mie cose accanto all’appendiabiti, lanciai le scarpe in un angolo e mentre mi spogliavo camminando verso il bagno mi accorsi che la luce della segreteria lampeggiava: c’era un messaggio.
Doveva essere lui. Beh, perlomeno è una persona educata, pensai, sicuramente vorrà scusarsi per avermi fatto aspettare così a lungo. Mentre il nastro si riavvolgeva promisi a me stessa che non l’avrei perdonato, almeno per il momento, volevo farlo stare sulle spine, volevo vedere di che pasta era fatto. Ero oramai completamente nuda, quando la segreteria scattò e una voce da lì dentro cominciò a parlare. Non era lui, era una voce di donna. Al momento non la riconobbi, ma quando finì di pronunciare quelle parole, compresi chi fosse:
“Giulio, tua madre è morta, stanotte nel sonno. Non ha sofferto, te l’assicuro. Vieni appena puoi, io e tuo zio ci stiamo occupando del funerale”.
Rimasi lì per terra non so quanto, ma abbastanza perché il sudore mi si gelasse sulla carne fino a farmi tremare. L’avevo sempre amata. Era l’unica che mi aveva sempre trattata per quello che ero, senza farsene una colpa. Era una donna forte, non aveva mai avuto una bella opinione degli uomini, a cominciare da suo padre, che l’aveva sempre fatta sentire una nullità, non solo per le botte con cui le aveva svuotato il cuore. Suo marito, poi, mio padre, l’aveva abbandonata una volta saputo che era incinta.
Cristo santo! Ora è morta. Sono dieci anni che non la vedo e ora mi tocca metterla sotto terra. Non riuscivo a piangere, mi sembrava tutto così lontano, in fondo a lei non erano mai piaciuti i funerali. Del resto a chi piacciono; ma è che lei era convinta che sono solo un modo, per chi si è dimenticato di te, di togliersi un peso dalla coscienza. Aveva ragione, ma io era la figlia, non potevo non esserci.
Aprii l’acqua e m’infilai sotto la doccia. Insieme alla schiuma, al sudore e ai peli tagliati dal rasoio, finirono nello scarico anche tutte le immagini di mia madre, quella volta che mi scoprì abbracciata a un amichetto, l’altra che mi pettinava i capelli. Le erano sempre piaciuti, lunghi e biondi.
E insieme all’acqua cominciarono a colare anche le mie lacrime, grosse, pesanti. Lo stomaco mi si contorceva sotto le costole, mi piegai su me stessa, mentre nelle orecchie mi suonavano le parole di quella canzone che lei amava e che cantava sempre, con quella voce calda e seria che io adoravo  

a mezzanotte sai, che io ti penserò, ovunque tu sarai sei mia
e stringerò il cuscino tra le braccia, mentre cercherò il tuo viso
 che splendido nell’ombra apparirà
 mi sembrerà di cogliere una stella in mezzo al ciel
e quando mezzanotte viene
 se davvero mi vuoi bene
pensami mezz’ora almeno
e dal pugno chiuso una carezza nascerà…nanananannannana…  

Nella valigia misi poche cose, non avevo intenzione di fermarmi a lungo nel paese di mia madre. Salii sul taxi e mentre mi sistemavo il trucco mi accorsi che il tassista mi stava guardando; gli sorrisi e lui, arrossendo, si calcò il cappello sulla testa e riprese a guardare dritto davanti a sé.
New York, New York. Doveva essere stato aperto qui il vaso di Pandora. Le strade sono sempre affollate di gente di tutti i colori, vestiti di tutti i colori, vetrine di tutti i colori, panini di tutti i colori.
Il sole era caldo e il cielo di un blu che mi sembrava di non avere mai visto, neanche una nuvola.
Il taxi si fermò di fronte all’uscita dei voli internazionali e l’uomo fece una cosa che mi lasciò esterrefatta. Scese prima di me, mi aprì la portiera, mi porse la mano e, toltosi il cappello, mi disse:
“Buon viaggio, madame, spero di trovarmi nei paraggi quando tornerà”
Aveva gli occhi troppo grandi per essere uno stronzo e la sua mano era così morbida che mi diede un brivido lungo tutta la schiena. Grazie, gli dissi, arrivederci.
Eravamo partiti in perfetto orario e viaggiavamo ormai da circa quattro ore. Avevo già visto un paio di film sul grande schermo di fronte a me, ci avevano servito il pranzo e la testa mi girava un po’ per gli alcolici che avevo bevuto. Non mi piace granché volare e le poche volte che l’ho fatto mi sono sempre intontita chiedendo qualcosa da bere, pur di non pensare che ero a chissà quanti chilometri di altezza sopra le nuvole.
Mi appisolai con le cuffie sulle orecchie e mentre nei miei sogni si affollavano volti noti e sconosciuti, sentii una voce che ci avvisava di uno strano evento che si stava verificando di fronte alle coste africane. Certo che quei poveretti non hanno mai pace, pensai, vivono già senza avere praticamente nulla e perfino la natura si accanisce contro di loro. Anche se Lui mi aveva spiegato che è quasi sempre l’uomo, con la sua tecnologia, la sua mania del progresso, ad alterare il corso degli eventi.
Qui però si trattava di un’eruzione vulcanica, di un’isola detta Palma. Che colori, che mare stupendo c’era da quelle parti! Le immagini del notiziario scorrevano mentre la gente sull’aereo prendeva ad agitarsi. Sì perché l’eruzione pareva stesse provocando anche scosse di terremoto piuttosto violente.
Non c’è fine alla sfortuna di questa gente, pensai. E mentre ascoltavamo tutti le novità sempre più sconvolgenti, pensai a Lui, a quello che mi aveva detto. Mi aveva parlato di un’onda, uno tsunami, come quello che aveva distrutto, nel Natale del 2004, le coste del sud-est asiatico, dove una quantità impressionante di gente aveva perso la vita, a parte gli stranieri in vacanza, gente che viveva di pesca o di turismo che, alterando i propri costumi, aveva preso a vivere sulle coste e non nell’entroterra, come la loro cultura aveva insegnato, protetti dalla barriera corallina e dalle mangrovie. Ma ora né l’una né l’altra erano rimaste a difenderli dall’onda anomala, strappate per lasciar il posto a spiagge, sdraio ed ombrelloni.
Pazzo mondo, la natura gli si ribella contro. Ed ora di nuovo, in un paese già povero.
Ma, un momento…
Qui le cose sembrano diverse, più gravi.
Mi sentivo gelare il sangue nelle vene.
Quel terremoto veniva da tanto in basso, dalla crosta terrestre, sotto quell’isola vulcanica.
Il mare si stava scaldando e si stava creando un’onda enorme, potente, inarrestabile, che si sarebbe abbattuta sulla costa orientale degli Stati Uniti di lì ad otto ore.
Non è possibile, è tutto vero!
Non era una sua fantasia! Non era un pazzo.
Ma dov’è adesso, cosa starà facendo? O mio Dio, la mia casa, resisterà? Quanto avanti si porterà quest’onda?
Non posso crederci.
Forse si sbagliano, dice l’hostess alla gente che, impazzita, chiede di tornare indietro. Molti di loro hanno lasciato la propria famiglia, molti di loro vivono proprio sulla costa, molti vorrebbero chiamare, mettersi in contatto con New York. Ma non è possibile, è severamente vietato usare i telefoni su un aereo.
Hostess e steward fanno davvero fatica a mantenere la calma e spiegano che, se davvero quest’onda arriverà fino alla costa degli Stati Uniti, ci metterà molte ore e la gente avrà il tempo di mettersi in salvo. Ma delle case, dei malati, dei vecchi che ne sarà? Si salveranno? E dopo? Cosa succederà? Bisognerà ricostruire tutto? Con che soldi?
A tutte queste domande l’equipaggio non è in grado di rispondere.
Ed io?
Io non ho molto da difendere dalla vendetta della Natura. Mia madre, l’unica costola che mi lega a questo mondo, è   morta.
Che tempismo! Pensavo. Mi chiami a te proprio il giorno dell’apocalisse.
“Sto arrivando mamma”, dissi a bassa voce mentre mi riaddormentavo con le immagini digitali del notiziario che ricreavano il possibile scenario di New York sotto l’acqua.
Per il momento, quassù, sono al sicuro.


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5 Comments

  1. Pingback by Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: Giulia — 29 Maggio 2009 @ 22:41

    […] Per approfondire consulta la fonte: Bartolomeo Di Monaco » LETTERATURA: Giulia […]

  2. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 29 Maggio 2009 @ 23:20

    Avventura di un “viaggio†sulla complessità del vivere. Ai fatti contingenti, si fissa la riflessione dell’assunto interiore. L’aridità di un quotidiano, che rende quasi piatta o indifferente l’adesione emotiva, si allinea con la morte di una persona cara e con l’incertezza di una catastrofe che incalza e probabilmente distrugge.
    Assai complesso il personaggio “Giuliaâ€, che mostra i segni di una tensione e di una conflittualità esistenziale e si scontra con un reale spesso deludente e, forse, ormai privo di “voli†nuovi.
    Linguaggio sostenuto, immediato e vibrante. Linguaggio che non indulge e mostra immagini ed abbandoni interiori densi, veri e forti. Linguaggio sapientemente e modernamente “costruitoâ€, sempre in grado di tradurre in maniera immediata e polarizzante la problematicità dei contenuti e dei sentimenti
    Gian Gabriele Benedetti

  3. Commento by enzo ferrari — 31 Maggio 2009 @ 21:58

    Complimenti per il racconto, per la complessa avventura che abbiamo vissuto.

    Enzo Ferrari

  4. Commento by sonia — 3 Giugno 2009 @ 11:21

    Complimenti all’autrice Valeria! Un gran bel racconto, ritmo e riflessione!

  5. Commento by Valeria Caristia — 4 Giugno 2009 @ 12:20

    Vi ringrazio molto per i bei commenti: la capacità di Gian Gabriele Benedetti di scoprire il punto d’innesco della storia di un essere femminile e il sincero coinvolgimento in questo viaggio della fantasia provato da Enzo Ferrari e Sonia Scorziello mi hanno emozionata davvero.

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