LETTERATURA GOTICA: Francesco Mastriani: “I misteri di Napoli”
25 Agosto 2020
di Bartolomeo Di Monaco
(Avvisiamo che per la seguente lettura del romanzo, si è tenuto conto di due edizioni, quella del 1966 dell’editore Casini con l’introduzione di Giorgio Luti, e quella dell’editore Vallecchi del 1972 con l’introduzione di Giuliano Innamorati, che ha però delle parti riassuntive)
Tutto immerso nell’Ottocento e autore prolifico, Mastriani, nato a Napoli il 23 novembre 1819 e ivi morto il 7 gennaio 1891, chi lo ricorda più? I suoi romanzi di appendice erano molto attesi e si può dire che egli fu tra i primi rappresentanti di quella letteratura gotica che ebbe un altro esponente di rilievo nella più giovane Carolina Invernizio.
Furono autori minori che la storia della letteratura ha ignorato o vi accenna appena, a confronto dei giganti riconosciuti universalmente come Horace Walpole, Bram Stocker, Allan Poe, Ann Radcliffe, Mary Shelley, Matthew Lewis, per citare solo alcuni dei più noti arrivati sino a noi.
Nella introduzione, così ce lo descrive Giuliano Innamorati: “Piccolo di statura, gli occhi sempre vivaci ed irrequieti, quasi calvo ormai, ma fornito di barba e baffi alla Napoleone III, di un biondastro ingenuamente anacronistico e spavaldo, l’anziano Mastriani tesseva e ritesseva le fila dei suoi percorsi cittadini, partendo dal quartiere di Sanità, dove abitò sempre, e là tornando ogni sera dopo il via vai dell’ufficio, delle ripetizioni, delle visite in tipografia.”.
Nel 1869, Mastriani affronta un libro voluminoso, “I misteri di Napoli. Sudi storico-sociali”, l’ultimo della trilogia sociale che vede il suo inizio con “I Vermi. Studi storici sulle classi pericolose in Napoli”, del 1863 (avrà come seguito “I figli del lusso o Oro e fango. Storia infernale”, del 1866) e nel 1868 “Le Ombre, lavoro e miseria o La figlia del forzato”.
Scrive Giorgio Luti nell’altra introduzione (non troppo generosa, in verità), a proposito della sua scrittura: “capacità di cogliere e raffigurare con diretta spontaneità un ambiente tragico, proporre nei termini giusti di lingua e di stile un’azione fantastica, realizzata tuttavia con saporose pennellate di colore locale, degne veramente di un grande maestro.”. Non è propriamente un romanzo gotico (di lui ne affronteremo altri più in argomento), ma è tra le opere più importanti di questo autore, come del resto anche “I Vermi” e “Le Ombre”, di cui ci occuperemo in altre letture, pur non appartenendo esse propriamente al genere gotico, ma per la loro importanza descrittiva e sociale, limitandoci qui a scrivere quanto su “I Vermi” riporta Giorgio Luti sull’importanza che Mastriani dava a quest’opera scritta nel 1863: “… che è mai cotesto rumore che si leva intorno al realismo? il realismo l’ho inventato io. Che è cotesta Nanà [romanzo di Émile Zola], che tutto il mondo n’ha da discorrere come dell’ottava meraviglia? Io ho scritto I Vermi. C’è niente di più realista dei vermi? Io vi domando in coscienza se si può scendere più in basso. Di più, voi, realisti da strapazzo, sguazzate nel sudiciume; ed io, come vedete, vi servo in tavola l’anima stessa del medesimo in tante pagine strappate dall’albero della mia fantasia ancora verdi e sanguinanti.”.
L’autore fa precedere “I misteri di Napoli” da una lunga prefazione in cui spiega le ragioni che lo avevano tentato a pubblicare l’opera con un titolo diverso, in quanto quello immaginato era stato preceduto da “I misteri di Parigi” di Eugène Sue, del 1842/1843, che aveva riscosso un enorme successo, inducendo altri numerosi ad imitarlo in Europa. Non desiderava apparire tra questi.
Scrive che la sua opera “avrà dunque lo scopo di additare la virtù cozzante co’ vizi della presente società e co’ mali inseparabili da’ presenti ordinamenti sociali.”.
C’è una parte di questa prefazione che ce ne dà un assaggio, il quale ancora oggi stupefacentemente si adatta alla nostra società proprio a riguardo delle sue incoerenze e dei suoi vizi: “Noi confondiamo la libertà di coscienza collo assoluto indifferentismo su qualsivoglia credenza religiosa; vogliamo l’indipendenza e la libertà, e non apprezziamo che ciò che è francese, inglese o giapponese, e non sappiamo perdonare al nostro vicino di avere una opinione contraria alla nostra; vogliamo l’eguaglianza civile, e non ci vergogniamo di farci dare l”Eccellenza’ dai nostri servi; gridiamo al malgoverno, e non ci vogliamo prendere l’incomodo di andare a porre una scheda nell’urna; predichiamo filantropia, e diamo croci e premii a chi inventa modo novello di distruzione più pronta e più sicura; mentre lasciamo crepar di fame la virtù e l’ingegno; diciamo di essere uomini positivi, e paghiamo dieci mila lire al mese a qualche saltatrice più o meno in grido; facciamo arrestare i ladruncoli di fazzoletti, e lasciamo andare a’ seggi governativi quelli che rubano i milioni; vogliamo più o meno l’emancipazione della donna, e per poco non diamo la berlina a una povera signora che cammini sola per le strade; ci crediamo ‘uomini’, e non siamo che scimmie.”.
Il brano ci induce a domandarci quanto tempo occorra all’uomo per una migliore civilizzazione e per una convivenza più giusta e più pacifica. Sono trascorsi più di 150 anni da un tale scritto, eppure se ne conferma con estrema chiarezza ed urgenza la sua attualità.
Non vi è dubbio che Mastriani ha mirato in alto mescolando missione e ambizione. Insieme con l’altra opera ponderosa, “I Vermi”, uscita qualche anno prima, ce ne dà prova. Quando dissemina i suoi lavori di riflessioni che marcano, a distanza di così tanto tempo, la loro attualità, significa che l’opera è stata avviata e condotta per più alti scopi che non un passatempo gradevole da consegnare ai lettori come un feuilleton. Facciamo un esempio: “C’è dappertutto un malvagio su dieci onesti e virtuosi.
Sembra pertanto tutto il contrario, poiché il malvagio fa rumore, si agita, fa parlare di sé, mentre i buoni faticano, soffrono e tacciono, e Dio solo li conosce, li conforta e di loro si compiace.”.
Per dare conto della scrittura ottocentesca e forbita di Mastriani, basta citare l’avvio del romanzo: “Nel Borgo S. Antonio Abate è un vicoletto addimandato de’ Lepri, che mette capo in un altro vico dello stesso nome. In quel vicoletto è un portoncino scuro, affumicato, fetido e sgocciolante acqua da tutti i pori. A gran ventura i mariuoli del quartiere non aveano badato a tí´r via il martello ch’era ad una delle bande. Ciò forse era dipeso che quel portoncino non era stato mai imbarrato né di giorno né di notte. Spesse volte chi si fosse trovato a passare per quella viuzza avrebbela veduta ingombra di mastelli e di bariglioni: il che naturalmente dava a pensare che in quel portoncino o nelle vicinanze fosse un mercante di vini o di olii o di altro liquido.”.
È la prima avventura, quella della sua scrittura, che il lettore si trova a percorrere; una specie di lastricato di una via romana che presenta qualche incomodo ma che mantiene una sua bellezza impressale dal tempo passato.
Non ci saranno perciò difficoltà a proseguire, salvo accettare di condursi con un passo lento riflessivo, sapendo che il cammino sarà lungo, poiché le pietre antiche, ossia le pagine, che compongo il lastricato sono molte.
L’ambiente in cui si muove il racconto è tra il popolare, anzi ancora più giù, vicino ai bassifondi di una Napoli avvinghiata alla sopravvivenza, ai vizi e ai maneggi per non soccombere e morire, e un’aristocrazia avida e corrotta.
L’anno dell’inizio è il 1846. Ma andremo spesso a ritroso e qualche volta anche avanti, fino al 1861.
I primi personaggi che incontriamo sono Pilato detto lo Strangolatore o il Masto (cioè vocato “ad un certo predominio e comando”) e Serafino Jojema o anche Serafino Jommero, detto Cecatiello, in quanto aveva perso un occhio nel corso di una lite con Lu Tizzone (“forse perché era sì nero di faccia, che pareva avesse raccolto sul viso tutta la fuliggine di un camino.”). Così è descritto Pilato: “Era un perticone disgraziato a vedere, con certe lunghissime braccia che gli arrivavano ai ginocchi e con certe gambe che sembravano di legno.”. Pare di vedere Frankenstein, il personaggio creato dalla diciannovenne Mary Shelley, sposa del grande poeta romantico Percy Bysshe Shelley. E troveremo anche: “Invaghirsi di qualcuno o di qualcuna significava per Pilato esser preso dal prepotente desiderio di strozzarlo.”. Dunque, pure un maniaco. Su Cecatiello, cieco da un occhio, leggeremo queste parole dette da un altro brutto ceffo, Cuoppo di pepe (“cartoccio di pepe”): “Non ha che una finestra; ma questa vale più delle quattro di vostra eccellenza e delle mie due che sono intonacate dalla vecchiezza.”. Pilade si diverte a strangolare e dopo averlo fatto ride per il piacere provato. Uccide perfino una bambina di tre anni: “non tutti gli uomini sono della medesima specie…”; “A Napoli, due elementi come lo Strangolatore e Cecatiello erano due elementi necessari allo sviluppo del male.
Il male è necessario nel mondo, come il vento, la pioggia, la bufera e il fulmine sono necessari nell’ordinamento fisico universale.
Cecatiello era il vento; Pilato, la folgore.”.
Sono mariuoli e assassini che rubano e uccidono senza scrupoli. Nessun rispetto umano, ma la furia e l’egoismo dettati dalla miseria morale e materiale più nera. Le catacombe di San Gennaro, a Napoli, erano il labirinto in cui si muovevano per raggiungere i vari punti della città: “Sono antichissime escavazioni che si perdono nei più lontani tempi. Fu forse una via segreta aperta tra Napoli e Roma nelle prime lotte del cristianesimo contro le false credenze. È una città scavata sotto un’altra: corridoi, stanze, basiliche, rotonde, gradinate che mettono a piani superiori. Gli ambulacri, alti alcuni fino a venti palmi dell’antica misura napoletana, sono conterminati da sepolcri, in cui cadaveri conservati intatti si polverizzano al contatto dell’aria.
Questi ambulacri avevano parecchie diramazioni di uscite, delle quali si giovarono in appresso i facinorosi e i ladri.”.
Non vi nascondo che, per il fatto che lo Strangolatore e il ladro Cecatiello, li vediamo spesso in coppia (“Noi facciamo coppia fissa” gli dice lo Strangolatore), ho pensato qualche volta al Gatto e la Volpe de “Le avventure di Pinocchio” di Collodi, opera tuttavia posteriore, cominciata ad uscire puntate nel 1881 e raccolta in volume nel 1883.
Lo abbiamo già accennato: il romanzo si avvale del gergo napolitano che per certe locuzioni ci diventerà simpatico grazie alla loro efficacia: stribbiarsi per stropicciarsi, assannare per azzannare, controlloro per controllore, ciacco per maiale, bùlima per folla, fare greppo per essere sul punto di piangere, zigaro per sigaro, careggiando per carezzando, bobolchi per bifolchi, lonzo per floscio, tucca per punta, nimistà per inimicizia, cianghellini per depravati, interriato per atterrito, tremuoto per terremoto, impazzato per impazzito, renduto per reso, mensuale per mensile, appaurati per impauriti, malèa per malata, invoglia per involto, butirro per burro, risensò per rinvenne, ardenza per ardore, gnaffa per barba, e così via. Troviamo anche espressioni simpatiche, un esempio: “Faccia vostra eccellenza di me tabacco per la pipa, con riverenza, se trovi che io mentisca.”. Oppure: “… i guai della pentola li sa solo la mestola.”. Scriverà in una sua nota: “Non ci discostiamo da queste locuzioni per serbare l’immaginosa originalità del linguaggio triviale e plebeo.”.
Come ha continuato a fare nel Novecento anche Mario Tobino, Mastriani usa la parola carcere al femminile (la carcere). Ed anche il guardia anziché la guardia. Ma di questi gioielli semantici ne troveremo. Uno ancora: eglino per essi: “il funzionario disse alle altre due guardie di tenersi poco lungi, sia per accorrere, dove eglino udissero un colpo di revolver, sia per vegliare che nissuno scalappiasse di quella abituro.”.
Ogni tanto ci sono sottolineature che accusano la società di negligenza ed incuria rispetto alle situazioni più miserabili, provando che uno degli intenti dell’opera di questo autore è anche quello di lanciare moniti affinché la giustizia sociale si occupi anche degli emarginati: “E sapreste dirmi, signora scienza – domandiamo noi – perché su cento poveri ne muoiono una trentina all’anno per febbri reumatiche e gastriche, per tisi e per tifo? Non vogliate schernirvi, signora scienza; riconoscete per cause efficienti di questi morbi e di queste morti il freddo e la fame.”; “Se la virtù si trova ancora sulla terra, non la cercate sotto i blasoni, e nemmeno sempre nella ricchezza. Tutta questa roba appartiene al regno della menzogna.
La virtù ha le mani callose; non porta guanti, e mangia pane duro; ed ha la cera per lo più sparuta e scialba: sul petto non ha ciondoli: le croci le porta nascoste.”; “Si vede proprio che le leggi sono state fatte per i ricchi, per i signori, e non per i poveri… Ce ne fosse una, una sola per noi!… Se le sono fatte per loro, è più chiaro della luce del giorno…”; “… si è chiamata ‘Civiltà’ la stolida presunzione di voler fare meglio di Domineddio.”. Troveremo poi: “Savio è quel proverbio che dice: ‘È migliore un cattivo aggiustamento che una buona causa’.”. A proposito del furto (ne parla a riguardo di una rivolta contadina): “Notiamo, ad onore delle nostre popolazioni rurali, che nessun furto fu commesso né in denaro né in generi da quei campagnoli
Tanto il furto è odiato per istinto nelle campagne.
Il furto non alberga che nei grandi centri di popolazioni. È figlio della civiltà.”.
Vi è in questo autore una fede civile che ricorda, per pervicacia e convinzione, quella religiosa di Domenico Giuliotti (1877 – 1956). Ma anche quest’ultima ha la sua parte nel romanzo: “Nel fondo dell’umana coscienza per quanto si voglia pervertita, c’è sempre qualcosa di buono. Tutto sta a sapere così bene rimestare tutto quel fango da fare emergere questo po’ d’oro.
Riconobbi allora la grandezza della divina provvidenza che diffonde arcane consolazioni nel cuore, allorché tutto sembra travolgere l’uomo nella disperazione.”. A proposito del sesso, Mastriani scriverà: “Ci è una profonda e terribile osservazione a fare: la leggano con attenzione quelli che troppo si lasciano andare a’ piaceri del senso. In generale, quasi tutte le infrazioni alle divine leggi ricevono la loro punizione quaggiù in terra, prescindendo dalla espiazione riservata alla seconda vita. Ma, sopra tutte le umane colpe, questa dell’impurità è colpita direttamente in questa vita. Il senso ribelle allo spirito è punito di tale ribellione. La carne, che si sollevò a regina dell’anima, debb’essere umiliata nelle sofferenze. Impuri morbi la mortificheranno.”; “Iddio ascolta sempre la prece del giusto e anche del peccatore e dell’empio, quando questi ha fede in lui.”. Nei dodici (non dieci) comandamenti che Gesualdo, un povero fittavolo, recita ogni sera ai suoi figli, al nono punto si trova: “Non dir mai la menzogna, perché in tal caso assomiglieresti ai signori che mentiscono sempre.”; e al decimo: “Non bruttarti giammai le mani del più piccolo furto, perché in tal caso rassomiglieresti ai ricchi che rubano sempre.”; “Il malvagio che si diletta delle lacrime altrui scava nel proprio cuore una tetra miniera che lo soffoca tra le sue mortali esalazioni.”. Questa è la sua definizione di Dio, che mette in bocca a Cipriano, il padre di Paolo Onesimo, uno dei protagonisti del romanzo: “Dio è grande e le sue opere, o miei figlioli; e la sua grandezza ci si rivela per la sua infinita bontà. All’uomo non è dato di comprendere Dio, perché se ciò fosse, Dio sarebbe simile a noi, ovvero noi simili a Lui; possiamo pertanto comprendere i suoi ineffabili benefici; e questo ci deve bastare per accrescere sempre più in noi l’amore verso Colui che ci sostiene mirabilmente tra gli abissi interminati di una creazione il cui segreto ci sfugge.”.
Non conoscevo quest’uso, che vi trasmetto così come lo descrive l’autore: “Sappiamo che ai borsaiuoli suolsi dai loro ‘educatori’ allungare le dita quando piccini per rendere questi istrumenti più facili e più atti al furto.”.
La precisazione segue la notizia che “lo Strangolatore avea l’indice e l’anulare della mano dritta presso che della stessa lunghezza del medio.”; e poi: “Ma ei sembra che nel caso dello Strangolatore fosse stata la stessa natura quella che si era sbizzarrita in questo scherzo. La natura aveva creato quel mostro per farne uno strangolatore.”.
Cecatiello e Masto (lo Strangolatore) si trovano nella prigione della Vicaria. Insieme a loro c’è Tizzone, l’accecatore del primo. Questi ha chiesto a Masto di uccidere Tizzone, dopo di che promette di mettersi al suo servizio.
Masto è pronto ed ecco come Tizzone è ucciso, di notte mentre gli altri detenuti dormono: “Le mani dello Strangolatore aveano ricercato e ritrovato la strozza del dormiente. Le ossute padelle del carnefice [le rotule dei ginocchi] premeano il ventre della vittima. Quelle mani erano due tenaglie di ferro. Le vie aeree per cui si compie la respirazione furono in un attimo chiuse affatto. La lotta della vita con la morte fu lunga e terribile. La testa della trachearteria parea che volesse scoppiare. Il russo era cessato di botto… Le gambe della vittima si agitavano convulsivamente sotto la spaventevole agonia: le sue mani rimaste libere avevano raccolta tutta la forza della vita per istrappare quei lacci di acciaio che le dita dello Strangolatore aveano formato intorno al suo collo. Ma ogni conato riuscì inutile.”.
Quanto più è efferata la società e quanto più sono viziosi gli uomini, tanto più il romanzo raggiunge il suo scopo. Scrive Mastriani: “Il precipuo scopo di questa opera è la ricerca della virtù coperta di fango e di obbrobrii. Noi ne sveleremo i misteri e le sublimi aspirazioni.”.
Significa che dentro ciascuno di noi, anche il più malvagio, si nasconde la virtù? Mastriani ne è convinto e vuole dimostrarcelo. Vedremo come.
Si è già ricordato che sono trascorsi più di 150 anni dalla pubblicazione di questo romanzo, talché possiamo misurare quanti pochi passi si siano fatti nel progresso della giustizia, anzi si possono tranquillamente annotare dei passi indietro, visto l’uso distorto che di essa se ne fa ancora oggi.
Sentite Mastriani, il quale nella sua narrazione tiene sempre d’occhio la società e ne indica i mali. Si parla ancora delle carceri: “Debbono i giudicabili essere accumunati co’ giudicati? Deve una pena infliggersi su quelli, di cui non ancora la giustizia ha discusso e comprovata la colpabilità? Il sospetto non è la colpa; l’accusa non è la condanna. Egli avviene spessissimo che un accusato risulti affatto innocente della incolpazione fattagli. In tal caso come risarcirete i danni che gli avrete prodotti con la prigionia?”. Il Libro Terzo della Parte Prima, dedicato alla prigionia dell’innocente Cipriano Onesimo, ci dà la prova delle conseguenze fisiche e morali di una tale ingiusta detenzione: “Io apparivo a me stesso come uno spettro, come una larva.”. Vi si esprime anche un giudizio sulla camorra: “Andate ad estirpare la camorra in Napoli! È più facile sbarbicare il Vesuvio dalle vecchie sue basi.”. Durante il colera, leggete che cosa arrivava a fare la camorra: “Una piccola camorra si esercitava dunque anche sui cadaveri.
Si speculava sull’amore dei parenti.
Cinque grani al pezzo. Chiunque volesse guardare per l’ultima volta un caro congiunto, doveva pagare un diritto di cinque grani al becchino.”.
Si deve notare che la scrittura ottocentesca e popolare del Mastriani, per la facondia e libertà espressiva, per la sua elasticità e rotondità, acquisisce ai giorni nostri una valenza ben superiore a quella dei suoi tempi. I suoi capricci e il suo lessico vicino al parlare comune, hanno il sapore di una bellezza recuperata e reinserita nell’attualità (ho veduto che alcuni si sono permessi di tradurre la lingua originale in lingua corrente, come se essa fosse diventata illeggibile ai giorni nostri. Una bestialità).
Non sono convinto che ancora oggi si possa definire Mastriani uno scrittore minore. Forse il tempo darà giustizia ad un narratore che era avanti al suo tempo.
Notate la leggerezza, la grazia e la simpatia di questo brano: “Una singolarità notavasi nella sua vita da principotto. Pranzava di verno e di està verso le ore due di notte in quella cànova [taverna] che è accosto al teatro Partenope. Avea detto agli amici esser questa una sua bizzarria, un suo capriccio; piacergli il vino di quella cànova; esser lui trattato colà con molta distinzione. E in ciò diceva il vero, ché dal vinaio e da’ garzoni della bottega gli si usavano le maggiori preferenze, sì ch’ei poteva a suo piacimento scapricciare di tutt’i punti della gola, che non era né il primo né l’ultimo dei suoi peccati mortali.”.
È un po’ il sapore che gustiamo ne “Lo cunto de li cunti” di Giambattista Basile (1634/1636). Anche perché il romanzo di Mastriani si svolge su un lungo percorso di vicende singolari accadute ai suoi personaggi. Egli stesso ci avverte e mette le mani avanti: “Se i nostri lettori ci daranno colpa di allontanarci e divagarci un po’ troppo spesso dal filo della nostra narrazione, ricorderem loro che in questo libro noi ci occupiamo di ‘studi storico-sociali’; il che vuol dire che ogni personaggio è un pezzo anatomico su cui portiamo il coltello scientifico e filosofico. Abbiano dunque la pazienza di seguirci i nostri lettori; che noi ci studieremo di appagare la loro giusta curiosità.”.
Che è un bel tratto di stile anche questo, che ci ricorda Alessandro Manzoni (1785 – 1873), un po’ il maestro di tanti, perfino oggi, anche se lo si nasconde. La bella grammatica moderna è da lui che prende le mosse.
Leggete questa descrizione del terribile cane Uosso: “Agguinzagliato dappresso al molino, nelle ore diurne, era un mostruoso cane di razza bastarda, di una forza da superare quella del leone e d’una ferocia da avanzare di gran lunga quella del tigre reale. Era in questo spaventevole bull-dog qualche cosa del toro, del tigre e del leone. I suoi ringhi mettevano lo spavento nelle ossa: i suoi occhi di un fulvo cupo erano sempre strisciati di tabi sanguigne. Questo mostro rispondeva al nome di Uosso (osso) forse perché si avventava immediatamente sull’ osso del collo e lo spezzava di botto come uno steccadenti.”.
La scrittura di Mastriani è imperlata di grazia, anche nei momenti di azioni ladresche, tenebrose o cruente. Essa si appiglia alle parole. Sono, del resto, le qualità del narratore d’ogni tempo.
Piace la distinzione che fa tra l’uomo e la bestia: “La compagnia si componea di uomini e di bestie. La linea di demarcazione tra queste due specie non era che la teca vertebrale, verticale in quelli, orizzontale in queste. Nel resto, omogeneità perfetta e di fuori o di dentro. “.
Sarebbe interessante sapere se alcune parole gergali permangono nel linguaggio della malavita napoletana. Ad esempio: schiffo per guardiano, tofe per armi da fuoco, bo-botto per revolver, tamurro, primo grado della milizia della camorra, gatto per commissario di polizia, punta per pugnale, mastaccirone, un grado della milizia camorristica, bazetta per ragazza, cupa per grotta, schiavina per coperta, scrocco per sfruttatore, rubare “una briglia col capezzone”, ossia un orologio con la catenella d’oro; fare un “crovattino”, ossia strangolare una persona, stribbiarsi per stropicciarsi, tavano per spia della polizia, asparago per carabina, zompata per duello tra camorristi, sciarra per sfida, “che ora è” per “svolta strada”, catriosso per scheletro, ciacco per maiale, cianghellini per depravati, accrastatore per aggressore, sbruffo per bottino di un furto, sciacquitto per festino, e tante altre al di fuori anche dal linguaggio camorristico ma belle per la loro coloritura e freschezza, simili a fiori di campo. Per tutte si cita iva per andava, ivasene per se ne andava.
E questa frase? Non è ben fatta e incantevole? Si parla di Carmela Cannuolo, di appena trent’anni, forse vedova, e nominata Sacco di fiore: “In quanto all’onestà di lei, punto in bocca: non ci era maldicenza che non vi si spuntasse.”.
Insomma, questo libro è una straordinaria scoperta, come il suo autore, facondo e fecondo. Ecco un’altra perla che avvicina l’eleganza e il popolaresco: “Se questa bella occasione si fosse lasciata trasandare non sarebbe tornata più. Bisognava ghermirla pe’ capelli.”. Poi troveremo questa rarità, una ricca lotteria di Amburgo che assegnava ai vincitori (tra cui, in questo caso, per il primo premio, il bellissimo giovane tedesco Edmondo Napoleone Schwartz, da tutte le donne corteggiato) nientepopodimenoché, nell’ordine: “
1 – Una intera città;
2 – ventinove villaggi;
3 – un gran palazzo addobbato e ammobigliato come una reggia;
4 – 30.000 jugeri di selve;
5 – 4.000 jugeri di terreno aratori.
Il prezzo di ciascun polizzino per concorrere alla lotteria era stato semplicemente di 20 franchi.”.
Il lettore trarrà piacere nel leggere la descrizione di un torneo cavalleresco, del tipo medievale tramandatoci anche da Walter Scott nel suo “Ivanhoe” (1820), tenutosi le domeniche dell’8 e del 15 febbraio 1846 nell’ampio piazzale che ancora si distende davanti alla reggia di Caserta.
Egli sa tenere le fila del romanzo, sciogliere gli intrecci, riavvolgerli, allontanarli e riprenderli con la sicurezza del prestigiatore che sa che i cerchi che lancia in aria cadranno là dove lui vuole.
Non trovate il garbo in questa descrizione di un pover’uomo, Pasqualino de Crescenzo, che desidera tanto far carriera affinché non gli manchino mai i denari da spendere pei suoi vizi: “Verbigrazia, gli piaceva il giulebbo della vite e ne ingozzava quella maggior quantità che gli consentivano le sue facoltà; piacevagli il gonnellino, e si era scelta un’amante, che non peccava di troppa castità, e che gli dava certe premute al borsellino da dissanguarlo del tutto.”. E quel “per istinto acchiappatorio”, che è caratteristica peculiare di quella donna, non è geniale?
È un romanzo che fa innamorare della vita, così come sanno esserlo quelle opere che entrando nel popolino, ne ravvivano la costante e tenace voglia di vivere.
E non è bello qui?: “Non sì tosto venuto a luce il disiato bambino, e straniatolo dall’occhio della madre, il dispietato Massa-Vitelli non pose più modo agli strapazzi e alle codardie di ogni maniera verso la buona moglie, che mai non rispose un motto di rimbalzo.”.
Nel saper raccontare vi è maestria. La bella carrozza della narrazione fa le sue curve e le sue devianze sotto la grazia di un frustino lieve e tenero tale da carezzare il cavallo: “Giacché ci troviamo sotto la mano questa materia del contrabbando, diremo alcune altre poche cose, le quali ci sembrano non andare sfornite di alquanta importanza.”.
Diamo un esempio dell’impegno civile che Mastriani mette nel suo raccontare, non dimenticandolo mai nonostante, ed anzi proprio per questo, il materiale umano e bizzarro che ha tra le mani: “L’esatto adempimento de’ propri doveri porta per naturale conseguenza l’esatta valutazione de’ propri diritti. La giusta valutazione de’ propri diritti importa la cognizione della umana eguaglianza in faccia a Dio; della civile eguaglianza in faccia alla legge; e della politica eguaglianza in faccia all’urna elettorale, sovranità inalienabile, personale, inviolabile, su cui appoggiar si dee tutto l’edificio del benessere sociale.”.
Una penna leggera e colorata come questa non poteva non esprimersi al meglio nelle descrizioni. Ne portiamo un esempio. Si tratta di un grosso scoglio che si erge nel golfo di Napoli, sempre battuto dalle onde e che ispira paura e superstizione, detto la Botte: “Nel tempo in cui avvennero le cose che narriamo, tutta la popolazione della Botte non superava le quarant’anime; Senza contare le anime dannate che vi dimoravano da secoli addietro; le quali avevano scelto i loro domicili nelle orride grotte scavate ne’ massi, e che di notte tempo facevano udire orribili strilli, che agghiacciavano di spavento i vegghianti sullo scoglio. Non credano i lettori che noi forniamo a nostro talento una scena di romantico orrore pel bel piacere di riscaldare la loro immaginazione. Lo spaventevole rumore delle acque ne’ cavi e nelle grotte dell’isola è causa che gli abitanti della vicina isola di Ponza, i quali vi si recano per coltivarvi alcune vigne, non si fidano di pernottarvi e ritornano a Ponza. Come è la credenza in tutti gli abitanti di quelle isole che la Botte sia piena di spiriti malefici o di anime dannate. Si ritiene, ed i preti hanno convalidato questa credenza, che nelle strie [canali] sotterranee dell’isola siano messe a penare le anime di quei manigoldi che martirizzarono Sant’Anastasia e i 200 cristiani.”.
L’ accenno finale è alla santa che ivi nel 287 fu arsa sul rogo insieme ad altri cristiani.
La Botte non era dunque un isolotto da starci bene, se non per l’ottimo vino, “ricercato come quello di Ischia.”, e vi mancavano le donne (tranne una, “l’indemoniata Chiara del Cilento”], tal che vi regnava una tristezza insopportabile: “L’assenza assoluta delle donne spargea sull’isola una tristezza grandissima. Che cosa è un luogo senza donne se non un luogo di pene? Noi non comprendiamo nulla di più cupo, di più melanconico: manca il sole, manca la vita. Il sorriso della donna è più necessario all’uomo del raggio di sole. La respirazione della donna accanto a noi è il profumo della creazione.”.
Una stupenda lode, non c’è che dire. Ma niente male anche qui: “La donna è compimento dell’uomo; non può staccarsene senza mancare al suo corpo, senza snaturarsi.
Nubile o maritata, il suo compito è quello di sorreggere l’uomo nelle fatiche e nei dolori di questo tristo esilio della vita.
Il sorriso della donna è raggio di sole nelle tempeste.
La sua presenza rallegra, consola, ravviva la speranza, abbellisce anche il dolore.
Trista è la casa dove non è la donna, il cuore vi si chiude; gli sguardi non hanno dove riposare.
La donna è la bontà di Dio su la terra.”.
E ancora: “Ogni donna ha nella sua natura due terzi dell’angelo e un terzo del bruto.”; “Non c’è donna in questo mondo, per quanto si voglia stupida o glaciale, la quale non si accorga dei sentimenti ch’ella desta in un uomo.”; “La donna è assai più forte dell’uomo nelle sofferenze, nella perseveranza ed anche nell’Impero delle proprie passioni.”.
A Chiara del Cilento, detta “la zoppa”, è sparita la figlia Anastasia. Alla Botte non se ne sa niente, finché la figlia viene in sogno alla madre e le racconta dove può trovare il suo corpo. È nascosto in una cavità dello scoglio ricoperta d’acqua. Aiutata da Silverio, un marinaio del posto, il cadavere viene portato alla luce. Eccone la macabra descrizione: “Su la faccia del cadavere è ancora un’aura della vita. Gli ultimi affetti, di che palpita il cuore, sparsero su quel sembiante un’orma incancellabile che mischia la sua tristezza alla ineffabile quiete della tomba… Ecco perché la bocca del cadavere tristamente sorride. Sul teschio, invece, è il cinismo della morte. Spariti gli ultimi tegumenti che rivestivano gli ossei convallamenti, la spoglia dell’uomo ha perduta ogni individualità. Il pezzo osteologico appartiene alla specie. Lo scheletro, fuori che all’occhio dello scienziato, non ha né sesso né età. È un avanzo della specie e non dell’individuo. Gli occhi del cadavere non guardano più; quelli del teschio guardano ancora. L’osso sopraorbitale forma un angolo con l’osso sottorbitale. Nella tangente di questi due angoli si rifragne una luce che è lo sguardo del teschio. Quegli occhi sono più che aperti: sono spalancati.”.
Vi è descritto tutto il processo di restituzione dell’uomo alla natura. E sulla natura leggeremo questa descrizione rara, a segno di una sensibilità superiore: “La natura ha i suoi momenti di vertigine, di capriccio, di noia, profonda, durante i quali aspettatevi ogni pazzia.
I cataclismi, le bufere, i terremoti sono gli atti che rivelano il bisogno che ha la natura di forti commozioni.
Per lo più, la cattiva, la trista, la sventata, fa sembiante di star cheta e di essere savia e ragionevole nel momento appunto o poco prima di sbizzarrirsi con singolarissime impertinenze. Così fanno i fanciulli per dare le berte alle balie o ai maestri.
C’è qualche cosa nella creazione che è sempre fanciullo: la natura.
Noi non sappiamo gl’influssi che queste vertigini della natura hanno sulle menti degli uomini. Certo è che spesso vediamo compiersi su diversi punti della terra strani fatti nel momento oppure poco prima o poco dopo che naturali e straordinari fenomeni vi si sviluppano.”.
Mi domando come possa uno scrittore così lieve di penna, e spontaneamente vocato, essere stato riposto nel dimenticatoio della nostra letteratura. Si è creduto, forse, che gli mancassero profondità e grandezza del sentire? Si sappia che ogni storia, anche la più minuta, la più ristretta e arida, ha sempre la sua lezione da impartire al prossimo, e se la scrittura è affabile e leggera, ciò si rivela non esser che uno strumento pregiato, che distingue ed eleva sugli altri chi lo possiede. Le favole, ad esempio, non hanno forse nella scrittura leggerezza ed armonia tali da farsi leggere tutte d’un fiato e con grande soddisfazione? E sappiamo bene che non v’è favola che non insegni.
Così è questo libro e così è questo autore.
Come si può rappresentare, ad esempio, la follia umana, meglio di questa descrizione in cui la vecchia e zoppa Chiara del Cilento, l’indemoniata, viene condannata a morte dalla folla, alla presenza dei preti?: “Poco stante, quel corpo cadeva esanime a terra. O Santa religione di Cristo Signore, quale orrendo scempio di te non si fa da quelli stessi ch’esser dovrieno tuoi ministri? Le litanie, le giaculatorie e gli esorcismi durarono ancora per un buon pezzo anche dopo che la Chiara del Cilento fu diventata cadavere. Quei forsennati ritennero che l’anima fosse uscita da quel corpo, ma non già il diavolo, che vi aveva preso stanza. Le immaginazioni riscaldate dal fanatismo credettero scorgere che le labbra del cadavere bucicassero [si muovessero] come se proferissero parole misteriose. Era sempre il diavolo che si divertiva.”.
L’uso sapiente del gergo napolitano basta e avanza per rendere questo testo prezioso.
Quando nel 1998, uscì il libro di Eraldo Baldini intitolato “Mal’aria” ci fu un putiferio. Ci si domandò se quell’accentazione fosse corretta o se invece si dovesse scrivere Mal Aria. Nessuno ricordò, mi pare, che proprio il nostro autore aveva preceduto Baldini 130 anni prima, intitolando a quel modo il Libro II (Parte Prima) che compone “I misteri di Napoli”.
Alle lettrici non piacerà, ma l’autore, nel descriverci la disgraziata Rosa, moglie di Cecatiello e madre di Marta (“Eppure quella forma umana, vizza, incavata, plumbea; quello scheletro semovente, quel pretesto per un’anima in terra, era stato una bella donna.”), ci lascia anche questa sentenza: “Iddio si fece uomo; il diavolo si fece donna.”.
Rosa era stata conosciuta da Cecatiello una volta che era fuggita dal manicomio di Aversa e l’aveva difesa dal guardiano che l’inseguiva. Si era rivelata una ninfomane e Mastriani ci parla di questa malattia: “Alla vista degli uomini, la povera Rosa sentiva che la sua respirazione diveniva più concitata… È come se un fuoco d’inferno l’avesse tutta bruciata…”. Guarirà in seguito alla gravidanza, da cui nascerà Marta, ma cominciò ad immalinconirsi e a consumare la sua salute, minata dalla epilessia.
Si ha la sensazione che Mastriani, nel ruolo di regista di questa voluminosa ed intrecciatissima storia a più balze, abbia inteso metterci alla prova come lettori e farci cimentare in un’opera di ricerca e di selezione. Qua il bene, qua il male, qua l’innocenza, qua la colpa.
Pare proprio che la conferma di quanto sopra si trovi, come fosse la chiave di un enigma, nella descrizione della ventenne Marta. Leggete: “Non si figurino i nostri lettori che Marta fosse una di quelle prodigiose bellezze create apposta per servir di modello a’ poeti e a’ romanzieri. Marta non era che una bell’anima, ecco tutto. La luce purissima del diamante si asconde nei visceri della terra. Spicca un profumo di rosa da la zolla di un cimitero. Una bell’anima può essere in un brutto corpo, ma il volto non può essere brutto.”.
Marta, lo ricordiamo, è la figlia di Cecatiello.
Ha a cuore la vita del vecchio “fittaiuolo” Gesualdo, che vive nella miseria più nera ed è ormai vicino a morire, del che non si lamenta e rammentando la sua esistenza misera dice: “Dio sia lodato e benedetto tre volte che ha creato la morte!”.
Ditemi voi se non è di penna felice la descrizione di questo garzone ventenne (che diventerà uno dei protagonisti principali), dal nome complicato, Onesimo Cipriano-Paolo: “Era il più bel mugnaio dell’agro aversano. La gagliardia del corpo congiunta alla vivezza dell’intelligenza; la semplicità dei costumi disposata alla bontà dell’indole; la innocenza del cuore trasfusa nella bellezza del sembiante.”.
Noi andiamo raccogliendo, come il lettore si sarà accorto, le parti eccelse, in cui la sapienza e la bontà della scrittura non ammettono incertezze nel dichiarare che siamo davanti ad un narratore di razza, che in quest’opera ponderosa tenta una misura assai impegnativa nella quale, perciò, qualche eccesso diversivo fa d’uopo e non ne inquina il valore.
Tornando a Gesualdo, nella sua morte troviamo i segni di una aspirazione all’Aldilà che è nel segreto di ogni cuore. Una fede che si ripresenta non solo al momento del congedo, ma si può dire sempre, e ci dà il senso di una necessaria continuazione illimitata dell’esistenza, alla quale ciascuno tende, e, ove essa non si realizzasse, nulla conterebbe e ha contato di noi: “Povero spirito trepidante e vergognoso della tua nudità, dove te ne andrai!”.
Ma lo sguardo di Mastriani raramente si distoglie dalla misera realtà che ha scelto di rappresentarci, affinché chi può rimedi. Sono continui i suoi lamenti, e se ne trae il forte convincimento che egli abbia assegnato all’opera l’obiettivo di riuscire a smuovere l’egoismo e la crudeltà di chi ha avuto la fortuna di potersi godere la vita: “Quanto poco è necessario alla vita dell’uomo! E questo poco gli viene conteso dalla mala organizzazione sociale! E ci ha sulla terra milioni di figli di Dio, a cui manca il pane quotidiano, perché altri milioni devono sedere a lauti banchetti.”.
Il lettore che conosca la fama dei polli di Renzo Tramaglino descritti ne “I promessi sposi” del Manzoni, troverà efficaci anche le pagine che Mastriani dedica alle galline di Marta, di nome Bianca e Nera: “Quando Marta le toglieva tutte e due in grembo per somministrare loro il cibo, si faceano cerimonia tra loro le due bestiuole. Soltanto, sembravano un po’ gelose delle carezze della giovane, la quale si divertiva talvolta ad ingelosirle a tal punto che, quando ella ritenea più a lungo in grembo l’una, lasciando andar l’altra a terra, questa impazzava di collera e si facea rossa, e battea le ali su le gambe della Marta; e strillava insino a tanto che non venisse ritolta su.”. Ciò a conferma che tutte le situazioni trovano nella penna di Mastriani la migliore soluzione. È evidente che l’uso continuo della scrittura, dimostrato dai suoi 107 romanzi, ha consentito al narratore di non porsi divieti e limiti.
Gesualdo manda la figlia Rita a lavorare in una masseria perché si procuri da sola il poco denaro per vivere: “La fanciulla non proferì motto. Era già molto che il babbo l’aveva alimentata fino a quella età di quattordici anni. All’alba, Gesualdo e la costui moglie Sabina benedissero la giovanetta, le fecero fare il segno della croce; e le posero nella saccoccia della grossolana veste di traliccio due pubbliche [circa sette centesimi], un pane di granone e due o tre fave.”. L’autore aggiunge in modo stringato ma assai significativo: “Rita avea gli occhi secchi nell’andarsene.”.
Bastano queste poche parole per fare il ritratto di Rita: “Era bella questa figlia dei campi, quantunque di temperamento tristo e bilioso. Aveva un corpo a dipingere.”.
Leggerete il rustico ma soave incontro dei due innamorati Rita e Onesimo (ma poi questi le preferirà Marta) e la risposta che diede la giovane alla richiesta di quanti anni avesse: “La mamma mi dicea ch’io nacqui il dì de’ Morti e che da quel dì erano state quattordici vendemmie.”.
Il passato con la sua anima è tramandato a noi da queste semplici parole, e l’autore ne impregna l’aria.
Quando entrano in scena “sua altezza reale il conte di Lecce, don Antonio Borbone, e sua signoria, il marchese don Alfonso Maria, dei duchi di Massa-Vitelli”, ci vengono in mente i manzoniani don Rodrigo e il conte zio che mettono gli occhi su Lucia Mondella, così come questi due li mettono sulla bella Rita. Non dimentichiamo che “I promessi sposi” erano usciti appena vent’anni prima (1840/1842).
Le pagine che descrivono la brutta avventura della giovane, mandata a prendere da “quattro o cinque sinistre facce di uomini, vestiti presso a poco alla maniera de’ guardaboschi”, hanno la leggerezza del grande don Lisander. Più avanti troveremo anche la figura della fantesca Maria che accudisce il giudice don Diego Pincho che ci farà ricordare la Perpetua manzoniana, come pure la brutta infermità del duca Tobia di Massa-Vitelli (“Dal busto in giù il suo corpo era una piaga, uno sfacelo, una decomposizione.”) ci ricorda il don Rodrigo morente di peste nel Lazzaretto. E la monacazione forzata della sorella del duca Tobia di Massa-Vitelli (un vero pezzo di bravura narrativa) non ricorda quella della monaca di Monza?
Rita non avrà la fortuna di Lucia, però, e non incontrerà l’Innominato. Sarà stuprata.
Saputa la notizia, la madre Sabina, già debole di mente, impazzirà e sarà ricoverata presso il morotrofio (manicomio) di Aversa. Il padre Gesualdo s’infuria, ma perdona la figlia.
Costei, tuttavia, respinta da Onesimo, e gelosa di Marta, prenderà la strada della perdizione e si assocerà ad un feroce capo brigante, Angelantonio Rinaldi, divenendo la sua donna. Il brigante “aveva una figura tozza, piccina (…) era brutto come una scigrignata [ferita da arma da taglio].”; “Il suo divertimento favorito era di mozzare il naso e gli orecchi alle guardie urbane od a’ gendarmi che gli riusciva di far prigionieri o di catturare. Così malconci li rimandava liberi. Sembrerà incredibile che questo mostro accoppiasse una stupida superstizione a così ferina ferocia… Portava al collo un abitino della madonna del Carmine a cui raccomandava l’anima sua nei momenti di pericolo. Si scappellava quando le campane suonavano l’avemmaria o quando si avveniva in alcuna immagine di Santo o di Madonna. Aveva un certo rispetto pe’ preti e pe’ monaci, di cui baciava con un’umiltà le mani ed il cordiglio.”. A riguardo della sciagurata sorte di Rita, che trova solo in Marta un’amica che non l’abbandona, l’autore ne approfitta per lanciare un monito: “Oh quanto bene fa al cuore di quelli che si credono dispregiati il sapere che altri li tiene ancora in istima!
Noi vorremmo che questa verità si appigliasse saldamente all’animo di coloro che han per abito il disdegnoso disprezzo verso quelle infelici che, cadute in peccato, precipitarono assai giù per la mancanza di una pietosa mano che le avesse rialzate.”.
Come è facile notare, il lettore si troverà spesso davanti ad alcune digressioni che toccano vari argomenti a seconda del punto in cui è giunta la trama. Sono di varia specie (suggestive quelle sul tifo e sul colera), anche storica (le barricate di Napoli del 1848, che troveremo nella Parte Terza, in cui, tra l’altro, scrive: “La barricata più possente da opporre alla tirannide è l’istruzione universale e obbligatoria.”), e mantiene una consuetudine che è dei grandi e fecondi narratori, tra i quali è d’uopo mettere anche Tolstoj, Dostoevskij, Hugo, Thomas Mann, Manzoni, per limitarci ad alcune indicazioni. Un tale vezzo, che è sollecitato dalla padronanza della trama e della scrittura, è anche del Mastriani. Spesso la digressione è lapidaria: “Nessuna cosa creata si distrugge.
Tutto si trasforma sul fornello di questo gran laboratorio chimico che dicesi mondo.”; “Scavate nei cuori di molti santi e ci troverete un fondo di fanatismo, non molto dissimile da quel viziuccio che comunemente si chiama orgoglio o vanità.”; “Un cuore puro e castissimo, una vergine fantasia non vede il male laddove non è.
Un cuore corrotto, una fantasia avvampata, non vede il male là dove è.”.
Ma si può trasformare in un solenne invito al lettore di farsi portatore della sua denuncia: “Preghiamo i nostri gentili lettori che pongano queste pagine sotto gli occhi delle loro donne, dove queste sappiano leggere, nel caso opposto, le leggano loro.”. Si dilunga a raccomandare alle madri di cambiare le abitudini di allevare un neonato. Via le bende, via quel cullare violento, via l’usanza di mettere bocconi il bambino, e tanto altro: “E che diremo di quelle madri che fin dai primi mesi del loro nato accostano le labbra infantili al fiasco del vino?
Il vino è latte pei vecchi, è veleno pei pargoli.”.
Pare di vedere Zola che lancia il suo J’accuse. Di queste tirate ne troveremo ogni tanto e fanno parte della personalità severa e moralizzatrice dell’artista. Possono piacere o non piacere, com’è costume ogni volta che si trovino di queste filippiche che si prefiggono di dettare dei nuovi comandamenti al prossimo: “Non scambiate le carte in mano, o signori. Non si presume che tutti abbiano ad essere ricchi; ma si vuole che nessuno manchi di tetto e di pane… In altri termini; non si presume che tutti abbiano il superfluo, ma che nessuno difetti del necessario.”.
Ma sono vizi che appartennero a tanti, per primo al grande Dante. Del resto lo stesso Mastriani scrive, a giustificare ogni sfogo: “È il ristoro del vomito; uno si sente meglio.”.
Uno di questi predicozzi piace anche a me e molto. Si parla di quando qualcheduno si trova trattenuto molto tempo in una sala d’attesa: “È curiosa questa costumanza che hanno le autorità, i ministri, i grandi personaggi e che so io, di far aspettare tanta gente nelle loro anticamere. Questa mi pare la peggior ruberia che si possa commettere, quella cioè del tempo altrui, unica proprietà che più di ogni altra deve dirsi sacra inviolabile, poiché più che una proprietà, è la vita stessa.”. Se la prende anche con la carcerazione preventiva di un innocente: “Frattanto, anche quando un giorno venga accertata l’innocenza di un prigioniero, non ne resta intaccata l’umana giustizia? Come si può riparare ai gravissimi danni arrecati al detenuto e per la inoperosità a cui vien condannato e per le offese che ne riceve la salute e per la ingiuria che ne viene alla sua reputazione? Come può restituirsi al prigioniero la preziosa quantità di tempo che gli è stato rubato?”. Come non essere d’accordo, visto che questo è ancora un male tremendo dei nostri tempi?
Nel raccontare certi accadimenti dolorosi che riguardano la vita di alcuni personaggi, una vena di romanticismo si afferma nella scrittura, che invece parrebbe rifuggirne. Ciò accade nella descrizione dei rapporti, ad esempio, tra Marta e Rita, anche quando sono impastati di gelosia e di odio da parte di quest’ultima sventurata, nel decadimento fisico e mentale della mamma di Marta, Rosa, o della malattia della mamma di Rita, Sabina, nella storia di Filomena, sorella di Paolo Onesimo, malata di tisi, o in quella dell’impresa dello stesso Paolo che salva da un incendio la bambina Agape, ed in altre ancora che il lettore troverà da sé e che rinnovano l’immagine che ci si è fatta di un’opera vulcanica coi suoi lapilli e le sue ceneri. O anche quando ci introduce la famiglia Onesimo (alla quale dedica l’intero Libro Terzo della Parte Prima), composta da Cipriano, sofferente di una grave malattia al fegato, i figli Paolo, ossia l’innamorato di Marta e protagonista insieme a lei del romanzo, la già citata Filomena, malata di tisi (bello e commovente il suo ritratto) e il più piccolo, Sabato: “Prima che mangiamo la nostra zuppa – disse Cipriano ai suoi figliuoli – ho da dirvi qualche cosa. Questo è un giorno solenne per la nostra famiglia. Dio mi avverte che è l’ultimo due novembre per me… L’anno venturo ci sarà un’altra croce nel cimitero; e voi andrete a pregare pel povero vostro padre, che riposerà a fianco della mamma vostra.”. Anche la mamma, di nome Veronica, era morta di tisi.
Alla propria madre, morta di colera il 28 novembre 1836, dedica un ricordo, intriso di dolente sentimento nel Libro Terzo della Parte Seconda, intitolato “Il colera”: “Dov’è colei che, stanca di protratta sveglia, mi aspettava nelle lente ore della notte, coll’orecchio teso alle scale dove ogni rumore di passi le faceva balzare il cuore? colei, la cui voce carissima era la prima che colpiva il mio orecchio nel ridestarmi al mattino, e l’ultima nell’assopirmi a sera?”. Ricorda anche questo aspetto particolare ed insolito: Il padre ogni tanto sostituiva la cassa da morto della sposa con una nuova e le cambiava l’abito: “La diletta compagna ebbe sepoltura segregata particolare.
Accanto alla nicchia della sua donna, egli ne fece cavare un’altra per sé
Aspettava con impazienza che l’ora suonasse per lui di andarsi a ricongiungere alla sua sposa.
Intanto, come suol costumarsi tra parenti ed amici, si recava a visitare la estinta moglie in tutte le feste solenni dell’anno, nel dì natalizio ed onomastico di lei; vestivala a nuovo, e le rinnovava la cassa mortuaria.”.
Quando si arriva a parlare della piaga del brigantaggio abbiamo una di queste digressioni nella quale si condensano, in una compiuta sintesi, gli ideali sociali del nostro autore, il quale, osando nella coloritura, possiamo dipingere anarchico e ribelle nel civile quanto fermo e risoluto cristiano nel religioso: “La religione cristiana è così sublime che basta un raggio della sua celeste luce per mutare del tutto le disposizioni di un animo.” Parlando delle “Memorie di Casanova” dirà in una nota: “Casanova scrisse tempo fa in francese la storia delle sue avventure galanti. Sono molti volumi che fanno arrossire le fronti più audaci: è una scuola di immoralissimo libertinaggio. L’autore ebbe la buona ispirazione di scrivere in francese un tal libro. La lingua di Dante e di Petrarca, cioè l’italiana, ne avrebbe avuto vergogna.”. Verso la fine dell’opera troveremo questa dichiarazione di fede e di speranza nei riguardi della triste condizione di Nazario, l’ultimo figlio di Gesualdo, caduto nella miseria più nera: “Quando la disperazione ha detto la sua ultima parola; quando il giusto si trova tra due abissi, quello della vita e quello della morte; quando tutti gli usci sono chiusi al grido di dolore, della sofferenza e del bisogno; quando pare che un precipizio debba inghiottire il destino di un uomo, si apre, per così dire, una valvola celeste; e tutto è salvo.”.
Torniamo a noi e traiamo la digressione a cui si accennava da un brano del libro IV: “Finché le grandi quistioni sociali non saranno risolute nel senso universalmente umanitario; finché l’esistenza non sarà assicurata a tutti per via del lavoro obbligatorio; finché i propri dritti e i propri doveri non saranno noti a tutti per via della istruzione obbligatoria: finché la barbara ed iniqua legge della coscrizione toglierà i figliuoli dal seno delle famiglie e le braccia al lavoro per farne carne da cannone; finché l’eredità illimitata trasmetterà da padre in figlio le spoliazioni, le usurpazioni ed un superfluo scandaloso; finché sarà data talvolta a’ morti di perpetuare su poche teste i beni e le sostanze con che lo Stato potrebbe aprire grandi vene di onesti guadagni agli uomini di buon volere; finché da una parte ci saranno carrozze, tappeti e sontuosi banchetti, dall’altra cenci, fetido strame e fame perpetua; finché il ricco e il potente calpesteranno il Cristo per crearsi un trono al di sopra di Dio; finché la virtù non sarà l’unica ad essere tenuta in pregio e premiata dalle civili società; finché ci saranno duchi, conti e marchesi e ciondoli e nastri ed altre minchionerie di questa specie, per cui l’uomo invanisce e stoltamente si crede qualcosa al di sopra degli altri; non isperate che il brigantaggio si estingua giammai.”. Ancora: “Tempo verrà che l’operaio non avrà più vita precaria e schiava. Le braccia che dànno vita alla società non saranno più dispoticamente governate dall’avido capitale; e la nobiltà del lavoro sarà riconosciuta come quella dell’ingegno. Il tempo delle caste e dei privilegi cesserà con l’avanzare della universale istruzione.”. E poi troveremo un altro dei tanti lamenti rivolti all’Italia, messo in bocca ad Onesimo: “Gran peccato – esclamò sospirando Onesimo – gran peccato che questa Italia sì feconda d’ingegni non sia capace di allevarli bene, e che nutrisca invece cialtroni, cortigiane ed istrioni.”; Onesimo, ai braccianti che vogliono vendicarsi dei soprusi subiti dai padroni, rammenta che: “… tutti gli uomini hanno un’anima redenta da Gesù Cristo; che tutti abbiamo diritti e doveri; che a nessuno è lecito il comandare, tranne che alla legge, e che Dio solo è grande; Dio è perfetto, Dio è potente, e solo dinanzi a Dio conviensi piegare il ginocchio e la fronte. (…) La libertà è il mezzo più idoneo al perfezionamento delle umane facoltà.”.
Sono spuntature di un socialismo cristiano (“Non c’è che il cristianesimo, il quale sia capace di creare di questi eroi”, ossia coloro che sanno perdonare, come Onesimo) che fu del secolo, e che oggi si è inquinato con le moderne ed inadeguate ideologie. Ne parlerà nel capitolo I del Libro Primo della Parte Seconda (significativo l’attacco al diritto di proprietà. Solo lo Stato può ereditare avendo esso “l’obbligo di assicurare l’esistenza di tutt’i cittadini”).
La storia, intanto, è arrivata ad un punto in cui Onesimo è tenuto prigioniero dal brigante Angelantonio Rinaldi, che si è tenuta come amante (“druda”) Rita, la quale, si sa, è ancora innamorata di Onesimo. Nella banda milita anche il fratello di Onesimo, di nome Soldato, il quale ama Rita. Onesimo l’ha respinta in favore della buona Marta.
Avviene che Soldato sfida il feroce capo brigante al coltello, di cui questi è un riconosciuto campione, e gli rivela la sua fratellanza con Onesimo e il proprio amore nei confronti della druda Rita.
La sfida è accettata e Mastriani ce la descrive: “Cominciò la lotta. Il primo a scagliarsi fu Angelantonio. Come avea promesso, egli mirava a colpire un occhio del giovine. Questi con un balzo indietro schivò il colpo. Sabato non era esperto nel maneggio e nella scherma del coltello; ma aveva in suo favore la sveltezza delle membra e l’acutezza dello sguardo. Si tenne dapprima sulla difesa. Il bandito investì nuovamente l’avversario. La irregolare conformazione delle membra era contraria al capobrigante; ma la sua mano era un fulmine. Sabato avea scandagliato il terreno… Angelantonio vibrò un secondo colpo. L’occhio del giovine antivenne; e questa volta ei non balzò indietro. Abil pensiero! Guizzò sotto l’arma omicida e diè col capo su i ginocchi del bandito, che fu riversato a terra dall’altra banda. Ratto come il fulmine, Sabato si rizzò, e gli conficcò il coltello nei reni. Il brigante mise un ruggito; e si risollevò, ma incontrò col petto l’arma del nemico, che gli forò il cuore. Era tutto rosso di sangue il brigante. Gittava urla di rabbia… si avventò come tigre ferito sul giovine, che saltava come uno scoiattolo… Il terribile coltello arrivò a sfiorare l’omero del garzone; ma, zaff!, un’altra botta al polmone sinistro… Il bandito cadde bestemmiando.”.
Ma non finisce qui: “E, prima che il micidiale rendesse l’ultimo fiato, Sabato gli strappò dalla mano il terribile coltello; il ghermì per la lunga chioma, e con la stessa arma di lui gli recise il capo. Gli occhi dell’assassino erano aperti e sembravano ancora minacciosi e terribili.”.
Ma ci sono due personaggi, Masto lo Strangolatore e Cosimo Lu Saponaro, che, chiusi nella stessa cella, si vantano di non far uso delle armi, ma solo delle dita, per uccidere. Dello Strangolatore è facile immaginare, ma di Cosimo? Di lui ci narra l’autore che uccideva le proprie mogli fasciandole per tutto il corpo come per fare un gioco, lasciando scoperti i piedi, che vellicava fino a che la moglie non ne moriva, ridendo a più non posso. Ci volle un po’ prima che si scoprisse il suo originale metodo, che fu chiamato della Morte cellecatoria, ossia mediante il solletico.
Gli dice lo Strangolatore: “Ben pochi ti possono stare a petto nella inventiva. Noi abbiamo percorso una diversa carriera; ma entrambi abbiamo fatto fare all’arte un gran progresso. (…) Tutti e due noi facciamo ballare i nostri soggetti… Se tu vedessi i miei come springano le gambe!… passi in aria… Ma io ti confesso, compar Cosimo, che la tua invenzione è superiore al mio vecchio esercizio. Se ci fosse riconoscenza tra gli uomini, tu dovresti avere un premio di incoraggiamento; che, in verità, il trovato è magnifico. Non si può più allegramente passare all’altro mondo che come passano i tuoi soggetti.”.
Che è un modo ben singolare di vantarsi, che solo può appartenere ad una criminalità ottusa e incallita.
Simpatico quel Diascine! ormai scomparso (anziché Diamine!) che viene pronunciato dall’autore quando parla di don Diego Pincho (che in certi casi, come quando incontra gli inviati della famiglia di Onesimo, ricorda don Abbondio) e vuole sottolineare la conoscenza che egli aveva della lingua latina, riconoscendo che gli derivava dall’essere un giudice del tribunale civile: “Diascine! era un giudice del tribunale civile!”.
Il lettore gusterà tante di queste monete d’oro diffuse a piene mani nell’opera. Pur mantenendo semplice il suo vocabolario, egli ne sparge per istinto, e in grazia di una scivolatezza e facilità naturali con cui le parole gli escono dalla penna.
Si può fare, scegliendolo a caso, questo esempio, in cui si parla del rapporto tra il birbante e la virtù: “Ha momenti nella vita dei birbanti, in cui, s’eglino non temessero di arrossare nel proprio foro, sarebbero dispostissimi a rendere giustizia alla virtù. Sono scintille che partono da quella pietra focaia che è giù nell’imo fondo di ogni anima, e che domandasi coscienza. Ognuna di queste scintille potrebbe riaccendere quella divina facella che dicesi virtù; ma non trova esca tra le infinite ragnatele di che son coperte e bruttate le anime prave.”.
Si noterà la semplice e lieve eleganza di una tale scrittura.
Mastriani affida un grande valore alla preghiera del cristiano; pur trovandosi a percorrere un sentiero di malvagità, non manca, quando è opportuno, di richiamare i valori religiosi, a cui molto probabilmente teneva anche nella sua vita più intima. Il Padre Nostro, la preghiera che fu dettata direttamente da Gesù, trova in lui una forte esaltazione: “Nessuna religione seppe trovare una preghiera come questa. Dio stesso dettava le parole. Siate profondato nel colmo delle umane miserie; siate destituito d’ogni umano soccorso; si addensino pure sul vostro capo le tetre illazioni della disperazione; si apra ai vostri piedi lo spaventevole ignoto abisso del dolore e della morte; levate lo sguardo al cielo, ponete una mano sul cuore, e dite Padre nostro che sei ne’ cieli, e la luce, la speranza, la fede rianimeranno la vostr’anima; e i nembi si dissiperanno sotto il raggio di sole riconfortante.”.
Siamo arrivati alla Parte Seconda del romanzo che, per dichiarazione dello stesso autore, si differenzierà dalla Parte Prima dedicata ai “miserabili” e alle classi più povere. Infatti, ora si esaminerà la classe privilegiata dei “possidenti” (scriverà anche, con saporita fantasia: “personaggi dagli alti calcagni”) e farà da studio la famiglia “de’ Massa-Vitelli”, di cui sappiamo già che della morte del vecchio duca Tobia è incolpato Onesimo, liberato da Rita e i briganti nel mentre era condotto in carcere, e di cui al momento non sappiamo altro se non che il fratello Sabato lo aveva liberato dai briganti, e quindi diventato del tutto uomo dei boschi.
La storia di questa famiglia che, da popolana, riuscì a farsi nobile e potente è narrata con garbato e fascinoso stile e il lettore vi si troverà penetrato a poco a poco, senza nemmeno avvedersene, tante sono l’eleganza e la morbidezza che ve lo introducono. Il sunnominato Tobia era uno dei tre figli del barone Ciriaco, che “fu tra i proprietari il più crudele, il più spietato. Non ci era misericordia. Per un grano, per un tornese afforcava i coloni e quelli che si erano offerti mallevadori per loro; perocché il nostro barone possidente non dava in fitto un sol palmo di terreno se non gli si desse sicurtà di pagamento. Né mostrava più umane viscere pe’ suoi pigionali. Fece un giorno mettere in su la strada un padre di famiglia vicino a rendere l’estremo fiato. E, prima di scacciarlo dal ‘basso’ [ambiente miserabile e malsano] in cui questi abitava con una numerosa famiglia, gli fe’ vendere anche il letto.”.
Di questa scrittura in cui l’antico vocabolo e l’antico frasario recuperano freschezza e attualità troviamo rari esempi anche tra i più grandi.
Leggete il modo in cui ci racconta dell’avaro, “mattezza” che appartiene anche al barone Ciriaco: “L’avaro è come il fumatore; non ama il denaro che pel solo piacere di vederlo… L’avaro accumola, non già pel timore che un dì gli abbia a mancare il necessario. Questo è un secondario pensiero. Non gli dà spavento la fame: ci è avvezzo. Non accumola già per godere delle sue ricchezze. L’avaro odia tutt’i piaceri della vita, perocché questi piaceri rappresentano per lui tanti balzelli. Non accumola pe’ suoi figli perché in questi egli vede i suoi eredi naturali; e la parola erede è per lui sinonimo di morte; ne raccapriccia. Per che dunque accumola l’avaro? Non per altro che per avere il piacere di vedere il suo denaro. Il denaro è per lui il sommo dio, l’amante, la sposa, i figli, le visceri, il cuore, tutto. Tutta la sua vita è uno studio continuo per accumulare quanto più può e per spendere il meno possibile.”. Ma non è finita qui; egli si diverte con coloro che patiscono questa smodata voglia di ricchezza: “Ora egli [l’avaro] trova, verbigrazia, che si può vivere benissimo, come gli anacoreti ne’ deserti, cibandosi solo di erbe selvatiche e di ghiande. La magrezza che deriva da questa eccessiva scarsezza di nutrimento entra eziandio ne’ calcoli dell’avaro, giacché è un risparmio nella quantità del panno che deve coprire la sua nudità. L’avaro maledice al peccato, solo perché questo ci tolse il comodo delle fronde di fico che supplivano a tutte le vesti. L’avaro vorrebbe possedere la natura divina del Cristo per poter anch’egli star digiuno quaranta giorni di seguito, come il Cristo. Ora egli fa un’altra pensata. Ritardando ogni giorno d’un’ora il desinare, egli viene a risparmiare un giorno in ogni ventiquattro giorni. È sempre un risparmio a capo dell’anno.”. Nemmeno a Molière era venuto in mente un tale impasto di comicità.
La sapevate questa usanza che riguardava i re ancora fanciulli? Si nominava un ‘menino’ che prendeva rimproveri e castighi al posto del re. Ecco cosa scrive l’autore: “Che cosa era un menino nel linguaggio della Corte? Secondo una costumanza delle corti spagnola ed inglese, davasi a’ re minorenni od agli eredi del trono, ancora fanciulli e discenti, un compagno di studi, che si accollava tutt’i gastighi che, per mancanze, sarebbero spettati al re od al principe.”. E ancora: “Nella Corte spagnola il whipping-boy fu detto ‘el menino’, che significa fanciullo sbilenco, sciancato; dacché il più delle volte si adibiva a questo nobile ufizio qualche fanciullo di patrizia famiglia, il quale avesse avuto la disgrazia di nascere mal conformato.”.
Ci racconta molto sulla pratica del denaro e specialmente della dote che sovraintendeva i matrimoni della nobiltà e in certi tratti, par di trovarsi nel romanzo, pubblicato postumo nel novembre 1958, “Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il quale doveva conoscere, a mio avviso, il nostro autore.
Più volte viene fatto cenno alla Repubblica partenopea del 1799 e alla repressione borbonica. Si ricorda anche il brigante Fra Diavolo, autore di angherie e omicidi, schierato dalla parte dei Borbone: “È noto che l’Austriaca [Maria Carolina, consorte di Ferdinando IV, sovrano del regno di Napoli, poi divenuto Ferdinando I, re del regno unificato delle Due Sicilie] scrivea lettere confidenziali a’ briganti Mammone, Pronio, Fra Diavolo e socî.”.
Vittima della repressione, a seguito di una spiata del cinico nipote Tobia (che abbiamo già conosciuto, e divenuto duca dopo la morte del padre) fu anche il fratello di Ciriaco, l’innocente e ignaro Ciro, di indole buona, assai diversa da quella di lui. Farà una terribile morte minutamente descritta, così che Tobia potrà impadronirsi del suo intero e ingente patrimonio.
Continua a meravigliare la capacità dell’autore di tenere in piedi e governare una tal massa di trame (scriverà: “questo labirinto di fatti”), in cui fantasia, storia e riflessioni morali si susseguono e si congiungono come le elicoidali scale di un’altissima torre, che ha ogni tanto, dopo qualche curva, ai lati una finestrella da cui si vede e si insegue un fascinoso paesaggio.
Il costruttore di una tale torre non può che essere un geniale architetto, baciato dall’estro di una fantasia e di una volontà creatrice fervide e luminose. Si può anche immaginare un fiume che s’ingrossi via via con l’acqua dei suoi affluenti.
Numerose sono le pagine di storia che arricchiscono il romanzo, tutte piacevolmente narrate in uno stile pulito e piano che sarà anche quello, nel Novecento, della Storia d’Italia raccontata da Indro Montanelli, insieme con Roberto Gervaso e Mario Cervi. E anche quello di Carlo Alianello (1901 – 1981) per quanto riguarda la storia del Sud Italia.
In tutto il raccontare Mastriani è bravo; la sua scrittura snoda lacci e lacciuoli, sì che il lettore vi si adagia piacevolmente.
Ha il modo giusto, il garbo necessario, a rendere fruibile perfino l’indigesto. Del resto egli dà molta importanza alla lettura ed è evidente il proposito di mettere a suo agio il lettore: “La lettura è uno dei piaceri dello spirito, dei quali l’uomo può godere fino alla morte: purissimo e nobile piacere, che solleva lo spirito e lo arricchisce di tante svariate cognizioni e lo fortifica sempre più.”. Attenzione a non avere ardite ambizioni letterarie, comunque. Ecco l’avviso che dà a tutti noi quando introduce il personaggio (che pingue galleria di personaggi!) il ricco barone don Ruggero Poccinelli: “Gli amici gli avevano dato a credere ch’egli fosse un Leopardi, mentre non era che un leopardo.”. Pensate quanto già corresse alta la fama di Giacomo Leopardi, morto nel 1837, appena qualche anno prima dell’uscita di questo romanzo.
Suggeriamo, dopo che già ne abbiamo mostrato uno, un altro dei tanti esempi di come Mastriani sappia prendere le sue pause e districarsi nei continui rimandi del suo racconto: “Ma, innanzi di proseguire a raccontare i tristi casi di questo giovine nel quale i nostri lettori potranno scorgere un esempio del Calvario, cui sono destinati a salire quelli che si ebbero da Dio la missione di parlare all’anima, noi vogliamo ritrovare un personaggio che si ebbe una parte non meno importante che dolorosa nel dramma che andiamo svolgendo.” Il giovane è Nazario, il figlio minore di Gesualdo, e fratello di Rita e di Francesca, due sventurate dal peccaminoso destino e dalla morte dolorosa che ne prefigura il possibile riscatto. A proposito della Rita morente, assistita da Marta, leggete questa bella descrizione: “Dopo di che, chiusi gli occhi, tutta si raccolse nell’anima sua, in quello ignoto ordine di idee che visitano la mente di un moribondo.”.
Le figure di Napoleone, del fratello Giuseppe, del cognato Gioacchino Murat, si disegnano nitide e fascinose. Questo è Murat, che fu re di Napoli: “Gioacchino era bello della persona, alto, di volto vivace, simpatico, marziale, piacente ed affabile ne’ modi, nel linguaggio. Durante i pochi anni del suo regno, il popolo di Napoli obbliò le passate sciagure… Nessuno fu più splendido di Gioacchino: venne anzi accusato di troppa dilapidazione. Gli piacevano le pompe, il fasto, la regia grandezza, i pubblici tripudî. Figlio del popolo, Gioacchino amava il popolo. Gioacchino Murat presenta nella sua vita un mirabile esempio della instabilità delle umane sorti. Figlio di un panettiere di Marsiglia, cinse il regio diadema; ebbe onori, grandezze, fortune militari. Poscia, balzato dal trono, fuggiasco, tradito, perseguitato, insultato. Un boattiere gli tira un calcio; un ferraio gli fa cadere con un colpo di mazza il cappello, per impossessarsi di un grosso brillante che ci era; una vecchia strega gli strappa i peli de’ baffi. Strascinato alla porta d’una prigione bassa ed oscura, un prete gli dà a’ reni un colpo di calcio di moschetto per cacciarlo ivi dentro. Giudicato, per inutile forma, da un tribunale militare, i cui membri, in gran parte, egli aveva promosso a’ gradi che occupavano, fu condannato alla morte per fucilazione. Morì da intrepido soldato.”.
Ma in quanto a ritratti il lettore ne troverà ancora di mirabili, come quelli dedicati al malvagio barone Ciriaco di Massa-Vitelli (si legga della sua morte) e ai suoi figli: Cecilia, fatta segregare in convento dai due fratelli; Angelo, che muore “per mano del carnefice” ritenuto (su spiata del fratello) coinvolto in un attentato, e lo scellerato primogenito Tobia, assetato di ricchezza, che, eliminati Angelo e Cecilia, vive in attesa trepidante della morte dell’avaro genitore, “idolatra del denaro”. A proposito di Cecilia, il tempo che trascorre a Capri, consente all’autore questo ritratto dalla celebre isola: “Chi non si è trovato su gli scogli di Capri in un sereno giorno di autunno non può formarsi un’idea della finezza squisitissima che la natura pone in certe armonie.”. Nel finale leggeremo anche, limpidamente e succintamente espresso, lo sbarco di Garibaldi per la liberazione del Regno delle Due Sicilie e i disordini che lo precedettero con la caduta dei Borbone: “La mattina del 7 settembre 1860 entrava in Napoli Giuseppe Garibaldi.”; “Erano giorni di sommaria giustizia popolare.
Il 29 giugno 1860 fu giorno terribile per gli sgherri del dispotismo.
I commissariati di polizia furono dalla giustizia del popolo disfatti e tutto ciò che ivi si conteneva venne precipitato dai balconi e arso sulle pubbliche piazze.
I poliziotti, che avevano dianzi abusato il loro potere e fatto soprusi e sevizie, vennero trascinati, malconci, e taluno ammazzato.”. L’autore è entusiasta della liberazione e lo dà a vedere: “Il 7 settembre del 1860 sarà un giorno memorabile nella storia d’Italia.
Una grande e gloriosa rivoluzione compivasi in Napoli senza spargimento di sangue.
Esultarono le ombre dei grandi italiani che vagheggiarono, come un sogno, l’unità politica di questo nostro paese…”.
Ritorniamo al punto in cui ci eravamo sospesi. La solitudine in cui si è andato a ficcare Ciriaco, dà all’autore l’occasione di lodare l’istituzione famiglia, quella che vive nel timore di Dio, così differente da quella del barone che non ha avuto l’animo di fermare il figlio Tobia, quando si propose la morte del buon Ciro, finito sul rogo: “Una famiglia! Non è questo il più gran bene dell’uomo in su la terra? Non sono i figliuoli i fiori che rallegrano il malinconico inverno della vita?”; “La società, profondamente egoista, sostituì alla legge del cuore quella del denaro. L’eredità creò la famiglia ‘legale’. Ma la virtù sola è quella che forma le gioie del focolaio domestico, il tempio della felicità e dell’amore. I ricchi non hanno figli: essi non hanno che eredi.”.
Si noti quanto un uomo di fede sappia sprofondare nell’animo dei malvagi e trarne terrore e monito per gli altri. Si legga anche qui: “Noi non abbiamo quaggiù in terra che due soli amici, i nostri genitori. Perduti questi, non abbiamo che Dio.”.
Con la morte del padre, Tobia, essendo rimasto l’unico erede, diviene straricco e potente.
Tobia è una delle figure dominanti del romanzo; se ne ha questa descrizione di quando era più giovane e già prepotente fatta da Cipriano Onesimo ai suoi tre figli, tra cui il Paolo che conosciamo: “Egli era allora un uomo di circa quarant’anni, alto come un moscovita, rosso di faccia e di capelli, senza un pelo sul viso, con certe sopracciglia così folte che sembravano due altri ciuffi sottoposti alla fronte. Aveva, con questo, la parte inferiore del volto più grossa della superiore; il che ho sempre inteso dire essere indizio di cervellaccio appannato e di proterva bestialità. La guardatura era quella di Giuda, il traditore di Cristo.”. Più avanti lo stesso Cipriano, sempre rivolto ai figli, ci dirà che il duca Tobia “era sempre ubriaco in tutto il corso del giorno e della sera.”.
Ma, lo si deve ripetere, l’autore ha la capacità di dare questa veste ad ogni figura sulla quale si sofferma, da quelle storiche (si è visto Murat) a quelle del romanzo. Si pensi a Marta, a Ciriaco, a Giacinta (che ha nel marito Tobia e nel loro figlio ragazzetto, Filippo, pessimi, se non demoniaci soggetti), alla sfortunata Cecilia, sorella di Tobia, costretta a monacarsi nonostante il suo amore per il principino Eugenio, e poi uccisa dai fratelli, allo stesso Filippo e alla sua sfortunata sposa Rosalia (di cui stenderà un completo ritratto). E alla sua seconda sposa Elisa (rinomata ballerina): “Elisa era una donna ardita, una scaltra avventuriera: aveva un’arma da soggiogare tutt’i cuori, la sua bellezza. Era infatti una bellissima donna. Il diavolo l’aveva impastata a bella posta per ordire i suoi mille garbugli. Non si potea resistere al suo sorriso infernale.”. Per non parlare del sergente Vitagliano Arezzi e della sua giovane e bella moglie Antonetta, insidiata da Filippo (di quest’ultimo, sarà interessante apprendere della sua avventura con la bella ma esigente danzatrice francese Le Gros). O lo Strangolatore, o il deforme Sciasciariello che lo uccide in una lite: “A coloro che non istudiarono bene addentro il nostro popolaccio deve arrecare maraviglia estrema che un metro di distorta ed informe organizzazione, brutto quanto il morbo nero, potesse tanto attivarsi le simpatie e i favori del bel sesso.”.
Per chi ama l’intreccio, qui ce n’è da cavarsene la voglia, e di ottima regia. Bastano a Mastriani frasi come queste per spianare ogni ingombro: “Occorre adesso riannodare alquanto gli avvenimenti che abbiam tolto a narrare, affinché il lettore non smarrisca il punto di partenza, donde movemmo.”. Stando al cinema si potrebbe dire di vedervi svolgere un film in cinerama.
Inoltre, se qualcuno avesse ancora dubbi sulle alte qualità narrative di questo autore, oltre ai brani già riportati, si aggiunge questo di grande bravura e sensibilità. Mastriani non è uno scrittore da feuilleton; le sue pagine sono ricche di riflessioni che obbligano ad una sosta dentro di noi, ad un’intima indagine sulla vita e sui suoi misteri, quali quelli legati all’oltretomba: “A quelli che troveranno soverchiamente lugubri queste pagine e troppo ricca di morti la presente storia faremo osservare che la vita umana non è già lieta. Le figure viventi diventano fantasime, e passano come le ombre di Macbeth. Noi viviamo nel mezzo delle morti. Caggiono a dietro a noi quelli che pocanzi calpestavano ritti la terra. Se noi potessimo gettare uno sguardo dietro al telone di questo gran teatro che è il mondo, noi avremmo il capogiro alla vista dei miliardi di spiriti che popolano le regioni della morte, e ci parrebbe incredibile che ‘Morte tanti ne avesse disfatti’ come dice Dante.”.
Non manca di denunciare la piaga della guerra: “Molto si è scritto, e con ragione, contro gli eserciti permanenti. Non ripeteremo ciò che da sommi scrittori si è detto contro questa vecchia piaga della società. Molto altro tempo dovrà trascorrere ancora pria che la matura civiltà avrà dato per sempre il bando alle sciabole che battono i lastrici delle città. Questo immenso progresso umanitario segnerà ‘la più bella rivoluzione sociale’. Quando l’infame flagello della guerra sarà sparito dalla faccia della terra con l’ultimo despota; quando la religione di Gesù Cristo, ritornata al suo prisco splendore ed all’antica semplicità, sarà nel cuore di tutt’i popoli della terra; quando la miseria, figlia dell’eredità, non affamerà più le grandi moltitudini; quando i titoli di nobiltà saranno una ridicola memoria storica; quando lo Stato sarà l’unico proprietario effettivo; quando il lavoro, il tetto e il cibo saranno assicurati ad ogni abitante della terra; quando la gerarchia tra gli uomini sarà segnata dal solo merito personale e non da’ ciondoli e dalle pietre; quando innanzi a Dio ed alla Legge tutti gli uomini, senza eccezione veruna, saranno eguali; allora non ci saranno più queste macchine omicide che si chiamano soldati.”.
Come il lettore avrà notato è stato, questo della guerra, il pretesto anche per disegnare la società ideale pensata dal Mastriani, quel socialismo cristiano che vede sulla Terra un modello di società che riflette quella del Cielo.
Quando, attraverso i suoi principali protagonisti, Mastriani ci immerge nella società aristocratica che si muove intorno alla Corona, gli intrighi, le bassezze e le fragilità che si incontrano ci ricordano i capolavori di Stendhal (1783 –1842), di poco più anziano di lui. Per la forza con cui tratta i temi sociali, al di là delle differenze stilistiche, non è improprio citare (lo abbiamo già fatto, peraltro) un grande autore francese, Émile Zola.
Nel romanzo fa la sua comparsa il colera (1832 in Europa, 1836 a Napoli) e il lettore è invitato a leggere con attenzione il suo divenire e maturare simile ad una nebbia che piano piano si diffonda e l’uomo è smarrito e succube della sua malvagità: “Le bassezze e le codardie del cuore umano vengono a galla, quando il fondo melmoso della vita è agitato da violenta bufera. Allorché la morte passeggia sui campi della creazione, lo spavento invade le ossa de’ viventi. Fuggono gli animali quasi impacciati; e l’uomo con occhi smarriti e con viso bianco di paura sembra che schivi il contatto del suo simile. La mente più non ragiona sotto l’incubo del terrore. I sonni sono interrotti da rimbalzi nervosi; i sogni, conturbati da sinistre fantasime. Ogni altro pensiero è messo da banda. L’animo è tutto assorto nella perplessità e nelle paure.”.
Ovviamente al lettore verrà in mente di paragonare queste pagine a quelle descrittive della peste contenute nel capolavoro manzoniano (“I promessi sposi” vengono citati). Ma vedrà che non vi fanno una brutta figura. Leggete questo brano: “La briosa Toledo era spopolatissima fin dalle prime ore della sera. Chiusi i caffè, deserti i teatri, silenziosi i consueti ritrovi. Non più quel moto perpetuo di carrozze e di pedoni. Dalle tre ore di notte in poi, tutto era solitudine e silenzio nella via di Toledo, dove non si udiva altro rumore che il cupo e lugubre rimbombo delle ruote del pesante carrettone, che aveva, per istemmi, teschi dipinti agli sportelli. Due lividi lampioni messi a’ due lati anteriori lo annunziavano da lontano. Il popolo il chiamava la ‘diligenza del Camposanto’. Chi nelle ore avanzate della sera si fosse trovato in su qualche alta terrazza dominante la città di Napoli, avrebbe veduto, verso il lontano lato orientale, una sinistra luce come di un incendio. Densi vortici di fumo commisti a lingue di fuoco si elevavano ogni sera su quel punto nero delle campagne circostanti alla capitale. Era l’abbruciamento che si facea, sul nuovo Camposanto aperto ai colerosi, delle barelle dove erano stati colà trasportati i morti di colera.”.
Vi appaiono anche i creduti untori: “Fu preso a sassate e malconcio un poveruomo che per avventura fu visto appo una cesta di fichi: fu detto avvelenatore.”. Un medico è scorto in strada con in mano una boccetta di disinfettante. È creduto un avvelenatore: “È un caso di manifesta flagranza. Il lazzarone comunica la fatta scoperta ad un crocchio di altri popolani e di luride megere. Si accendono costoro di cieco sdegno; ed eccoli lanciarsi addosso al malaccorto e disgraziato dottore, armati di mazze e di pietre. Lo investono con una mazzata al capo, che, dove il cappello non si fosse trovato a difesa di questa parte così importante del corpo, avrebbe avuto una malissima ammaccatura.”.
Troveremo anche queste brevi e riassuntive righe: “… il numero dei morti giornalieri era cresciuto a tale che, non bastando i carrettoni a trasportarli al camposanto, venivano i cadaveri ammucchiati gli uni sugli altri per aspettare la funebre carrozza. Ed era appunto vicino alla fontana di Porto che sia ammonticchiavano i cadaveri nelle ore della sera.
Tristo spettacolo!
Quella strada, così animata in ogni ora d’una folla di venditori e di compratori, così rumorosa di mattina e di sera, si vedeva deserta non appena era suonata l’avemmaria.”.
Un’altra annotazione che vien da suggerire dopo aver letto tanta parte del romanzo e ricevute le impressioni suscitate dalle numerose descrizioni e i molti ragionamenti è che, nella apparentemente facile e lieve scrittura di Mastriani, si nascondono la profondità del pensiero, oltre che una vasta cultura. Si avverte che il libro non è stato scritto per procurare solo diletto: “Noi svolgiamo dolorose pagine del cuore umano.”.
Siamo arrivati alla Parte Terza di quest’opera.
Lasceremo l’ambiente aristocratico in cui abbiamo conosciuto in specie la famiglia potente dei Massa-Vitelli, coi loro singolari e biechi personaggi e torneremo all’ambiente popolano che ha caratterizzato la Parte Prima nella quale abbiamo assistito alla morte del duca Tobia di Massa-Vitelli per mano dello Strangolatore con la complicità di Cecatiello.
Il lettore tornerà ad immergersi facilmente nell’ambiente che gli ha dato accoglienza nella Parte Prima, dopo che Mastriani gli ha presentato tre speciali rappresentanti di esso: Capuozzo, Sciasciariello e La Maruzzara. Sono raffigurazioni godibili e lasciamo al medesimo la scoperta e il primo godimento. Ovviamente ritroveremo anche personaggi popolani già conosciuti, come lo Strangolatore che si esibisce in un circo giocando con una pericolosa tigre.
Il lettore potrà così nuovamente elogiare la prosa di Mastriani che sa prendere diverse coloriture le quali ci richiamano alla mente altri autori, ed ora Robert Louis Stevenson per una marcata affabulazione: “Il primo picchio all’usciuolino di ferro della stia fu dato. La belva, che disiosa di cibo smaniosamente misurava il breve spazio in cui era carcerata, udito quel picchio all’usciuolino, mise un fremito che fe’ agghiacciare il sangue nelle vene degli spettatori. E i suoi passi diventarono più lesti, più svelti; e il suo capo era volto verso l’apertura superiore, donde si solea gittare il cibo alla fiera, dal cui alito rumoroso e a scosse uscì un puzzo come di macello. Gli occhi della belva fiammeggiavano di sinistra sanguinosa luce.”.
Come pure nelle vicende di Osimo che sale sulle barricate nelle dimostrazioni del 14 e 15 maggio 1848, a difendere l’insediamento del parlamento ostacolato dal re e dalla parte reazionaria di Napoli, troviamo le tracce di Victor Hugo. Osimo, come Mario ne “I miserabili” (che è del 1862, ossia di appena sette anni prima del lavoro di Mastriani, che lo deve aver letto, dunque), sarà salvato da Cecatiello (qui emulo di Jean Valjean), il padre della sua amata Marta, che lo condurrà libero attraverso le fogne di Napoli.
La presenza di un Dio vendicatore è avvertibile nel romanzo. E anche quella di un Dio che fa sorgere inquietudine e dubbi che, se risolti, riporterebbero il peccatore sulla retta via. Vi sono in questi propositi echi manzoniani: “Ci ha nella vita dei grandi scellerati un momento, in cui eglino sono atterriti dalla deformità della propria anima. È un lampo che rischiara per un attimo un abisso di tenebre e di orrori.”.
Siamo giunti al 1860. “E qui ci fermiamo” ci fa sapere l’autore. Siamo al Libro Terzo della Parte Terza e il suo titolo ci apre ad una vocazione di fede e di speranza: “Palingenesi ed Epilogo”.
Vediamo che cosa accade.
Accade ciò che doveva succedere secondo le ispirazioni e i propositi iniziali dell’autore: i principali protagonisti si presentano sulla scena per il definitivo disvelamento di se stessi: il corpo, le sue passioni, la sua materialità, si sciolgono e si rivelano nella loro consistenza interiore. È l’anima di ciascuno di essi a occupare ogni altro spazio. Dirà Onesimo: “Significa che la virtù non può a lungo essere priva della sua corona e del premio che le è dovuto.”.
Su tutti, non a caso, emerge, a riassumere il reale contenuto dell’opera, la eccezionale spiritualità di Marta, forse qualcosa di più addirittura della Lucia manzoniana: “Marta era appunto la donna forte, di cui Salomone fa il ritratto nei proverbi”. Forte non nel corpo, però, bensì nello spirito, come il lettore constaterà alla fine del romanzo.
Onesimo aggiungerà quella che per molti di noi è senza dubbio una interessante notizia: “È la nostra prima festa nazionale: è domenica 2 giugno 1861”. Dunque a tale anno ricorre la festa nazionale che ancora oggi si celebra, passata dalla monarchia alla repubblica.
Un’annotazione finale. Tutti i personaggi del romanzo sono fortemente amati e ad essi Mastriani affida lo spazio adeguato affinché resistano nella memoria del lettore. Ad esempio è narrata quasi sottovoce la tragica storia d’amore tra Leopoldo e la rediviva Bettina, ma come i due si possono dimenticare?: “La donna che era apparsa nella sala del banchetto la sera innanzi non era un fantasma: ella era Bettina in carne ed ossa. Eran quelle le sembianze di lei… gli occhi, la voce… Leopoldo non era una mente volgare e dappoco da accogliere superstiziose credenze.”.
Mastriani appare come il burattinaio che, dopo aver presentato il suo spettacolo agli attenti spettatori, prima di riporre le sue marionette nell’apposito contenitore (bello il modo in cui le raduna a conclusione del romanzo), le accarezza e le bacia come fossero vive.
Lascia un pensiero anche per i personaggi minori, i quali hanno avuto una parte transitoria: “Gli altri personaggi secondari della nostra storia andarono dispersi nel rivolgimento degli ordini politici italiani.”.
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