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La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: Hans Christian Andersen: “Le due baronesse”.

18 Aprile 2020

di Bartolomeo Di Monaco

Dopo  “O.T. Un romanzo danese”, del 1836 e “Il violinista”, del 1837, esce in Italia questo nuovo romanzo di Andersen, “Le due baronesse”, del 1848, mai pubblicato prima, a cura di Rusconi Editore, e per la traduzione del caro amico Lucio Angelini, che si sta rendendo meritevole per la scoperta in Italia di Andersen romanziere, sconosciuto ai più come tale, primeggiando ormai la sua fama di narratore di fiabe immortali.
Angelini è un traduttore puntiglioso e sensibile, di cui fidarsi. Al traduttore, infatti, è affidato il difficile compito di rimanere fedele quanto più possibile allo stile e allo spirito dell’autore, di modo che chi legge ne possa riconoscere l’ispirazione originaria.
Compito di grande responsabilità e, conoscendo io l’autore (che ne fa anche una garbata introduzione e ne cura l’ampia bibliografia), posso scommettere che da questa lettura, Andersen ne uscirà integro e soddisfatto.
Angelini fu anche traduttore di “O.T. Un romanzo danese” e de “Il violinista”.
Alcuni uomini e donne stanno consumando un picnic nei pressi del mare. Vicino hanno la carrozza che li condurrà al maniero soprastante. Mentre conversano, all’orizzonte appare una imbarcazione in balia della tempesta che si è scatenata sul mare. La osservano in apprensione.
Sulla barca c’è il giovane studente conte Frederik che, insieme con alcuni compagni, riesce a raggiunge terra e tutti si dirigono verso il maniero di proprietà del padre del conte. È in rovina, ed è sotto la custodia di un garzone, Christen, e di una ragazza. Vi si rifugiano, bagnati fradici.
Andersen, come se guidasse una rappresentazione teatrale (fu anche autore di molte commedie), interviene sovente nella storia con indicazioni di questo tipo: “Vedremo adesso quanto interessante la situazione potesse sembrare a coloro che vi erano a bordo”; “Mentre tutti sono così felici, trasferiamoci per qualche istante a casa della nonna in questione.”; “Adesso, sentiremo raccontare un po’ di cose sui genitori di quest’ultima.”; “Dormiremo anche noi con lei e non ci risveglieremo che quando aprirà gli occhi, cosa che avvenne verso la mezzanotte.”; “Ma per il momento noi non la ascolteremo, perché aspetteremo un’occasione migliore, tanto la signora Levsen sarà sempre pronta a narrarla di nuovo, se resta in vita, come ci auguriamo che faccia.”; “È a quell’epoca, a quel castello e a quel signore che adesso intendiamo tornare.”; “Scoprirete dunque se le due si incontrarono…”, e così via.
Questa agevole scelta strutturale consente al lettore un passaggio liscio e lineare tra un’azione e l’altra, tra un tempo e l’altro, quasi condottovi per mano.
Vi è comunque, in questo inizio, una qualche difficoltà ad individuare i tratti dei personaggi, che paiono non messi a fuoco adeguatamente. Lì per lì sembrano mischiati in un mazzo di carte, e si resta impediti nel dare a ciascuno una precisa fisionomia. Sembrano personaggi tutti protagonisti.
Si avverte, però, nitidamente, che siamo ai preamboli e la direzione della storia non è stata ancora definita. Le tracce che si notano somigliano a quegli studi, che paiono scarabocchi, dei pittori prima di procedere a stendere il disegno definitivo. Non sono abbozzi come quelli, tuttavia, ma fanno già parte del quadro definitivo che si sta costruendo. È una rozza scultura a cui lo scalpello a mano a mano deve togliere ancora qualcosa e precisare il restante.
Ecco un esempio del procedere di questo scalpello in cui è stata trasformata la penna dell’autore: “La nonna si sbarazzò presto del bimbo, che fu messo presso una onesta famiglia di ortolani a Odense e lì restò fin quasi al nono anno di età. Era diventato un ragazzo delizioso, pieno di fuoco e di rigore, selvaggio e gioioso, perché parlava sempre in modo schietto. Ma tutti l’amavano, aveva buon cuore e diversi talenti, in particolare quello per il disegno in cui non era mai banale. Sapeva sempre cogliere il lato comico delle cose e rappresentarlo.”.

Si sta parlando del giovane barone Herman, “con una bella barba nera e dei tratti virili.”, amico di Frederik. Anche Herman era giunto al castello insieme con gli altri compagni, dopo che la barca era riuscita a salvarsi dalla tempesta: “Il suo bel talento di disegnatore umoristico e il fatto di essere barone di nascita gli erano valsi l’attaccamento particolare del conte Frederick. Si erano conosciuti in occasione di alcune lezioni accademiche dopo le quali avevano continuato a frequentarsi presso il precettore comune. Il terzo giovane amico, il barone Holger, aveva aderito sia al precettore sia a quella amicizia.”. Anche il barone Holger era su quella barca e ora si trova al castello, come il loro precettore, Moritz Nommesen.
Sentono un rumore, una specie di pianto, provenire da un’altra stanza. Vi accorrono e trovano una donna appoggiata alla parete, stremata, che ha appena partorito una bambina. La donna dopo poco muore e la bambina viene affidata, per intanto alle cure del precettore, fino a quando sarà presa in casa dalla vecchia baronessa Dorothea, nonna di Herman.
Il racconto sta stirandosi, vari rivoli stanno confluendo a creare la storia. Il guardiano del castello, Kristen, li informa: “’È la moglie del musicista’, li informò Kristen, ‘il musicista ambulante che fa girare la manovella del suo organo di Barberia e soffia nel flauto di canna che porta appeso al fazzoletto da collo. La donna è giovanissima, suonava il triangolo mentre cantava canzoni.’”.
Aleggia il mistero, e cominciano a prendere il loro spazio favole e leggende, di cui Andersen è maestro: “Sottoterra ci sono grandi portali di rame, che si aprono e si chiudono ogni sera a mezzanotte. Magiche luci ardono su tesori sepolti e potrete vedere che, nei campi di Fionia, ci sono pietre grandi come case: furono le streghe a scagliarle dalle alte colline di Taasinge fin sopra il Sund! Oh, sì, qui navighiamo in pieno nel regno delle leggende! Un tempo l’isola di Lyí¸, che vedrete fra poco, era coperta di alberi, ma ci fu un marinaio che, mentre se ne andava di casa, apprese da sua madre come scatenare i venti e quando, in seguito, sulla via del ritorno, arrivò nei pressi di Svendborg, li lascio andare al punto che infuriò una tempesta e le foreste di Lyí¸ sparirono. E si può ancora constatare che la cosa è vera, perché non si trova un albero, a Lyí¸!”.
Quando l’autore introduce un nuovo personaggio, la giovane Clara, lo fa in questo modo semplice: “Clara era il sole che illuminava e riscaldava tutto. La sua eloquenza era nel suo sorriso, e lei sorrideva spesso.”. Poche parole ma sufficienti a imprimerne l’immagine nella nostra mente.
Il libro è colmo di questi momenti felici della scrittura di Andersen, ma lo snodarsi della storia ancora non ha disegnato la personalità dei vari personaggi che al momento sono comparsi sulla scena.
La leggerezza e la snella creatività che si riscontrano nelle fiabe qui non sempre si presentano all’appuntamento. Si avvertono i momenti in cui la trama si affatica e ansima.
Ma l’artista c’è; e la lettura diventa una scacchiera in cui si cercano e si individuano le mosse dell’autore. Si gioca su tutti i fronti, e nessuno di essi è ancora centrale. Quando un personaggio sembra prendere il volo per affermarsi sugli altri, ecco che perde quota, si ritira lentamente per abbandonare lo spazio occupato. Sono personaggi che, al momento, alternano istanti di luce e di oscurità.
Come le descrizioni, che sono puntute, secche, quasi si mostrassero con ritrosia e perché costrette. Entrano e escono di scena in tutta fretta: “Piante d’arancio ornano ciascuno dei lati dell’ampia scalinata, quest’ultima rivestita di tappeti variopinti tenuti fermi da lucide barre di ottone. Domestici in scarpe e calze di seta, e in livrea gallonata, affollano l’anticamera e aprono le grandi porte a due battenti. Un’atmosfera dolce e aromatizzata irrompe su di noi con lo splendore dei lampadari al soffitto e delle lampade astrali sui tavoli. Tutta una serie di stanze rischiarate in tal modo si dispiega davanti a noi. Il pavimento di ognuna di esse è ricoperto di un ricco tappeto. Vi sono lunghe tende costose, poltrone in seta, divani di velluto facili da spingere e far scivolare dove si vuole. Su alcuni tavoli giacciono libri inglesi e francesi, riccamente rilegati, stampe e giornali. Le pareti sono adorne di quadri e in una sala, tra fiori piacevolmente disposti, c’è una bella statua. Una parte delle persone di una certa età si reca ai tavoli da gioco, altre sono sedute a conversare o contemplare in silenzio. Gruppi di giovani dame, alle quali si uniscono dei signori, parlano animatamente e ridono.”.
Lentamente si fa largo la figura della giovane Clara, “più bella, forse, che mai.”, corteggiatissima, specialmente da Herman che le è simpatico per la sua allegria. Herman sa tenere compagnia alle donne ed ha la dote di un suadente parlatore fascinoso. Ma a fargli concorrenza c’è, oltre all’amico Frederik, anche un altro giovane, il barone Holger, che “è di una bellezza stupefacente e lo sa!”. Come vi sarete già accorti l’ambiente è quello di una nobiltà frivola e mondana, verso la quale Andersen nutriva simpatia: “Il corteo partì da Amalienborg, con quarantasette slitte gremite di principi, diplomatici, giovani nobili. I campanelli tintinnavano, le coperte da slitta svolazzavano variopinte sui dorsi dei cavalli, le fruste schioccavano.”. Anche della bellezza era innamorato, e quando gli capita l’occasione, la sottolinea: quando Clara scorge Holger: “E Clara l’ha già individuato, gli ha sorriso.”.
L’ispirazione di Andersen si colora di romanticismo. Holger e Clara formano una bella coppia; Frederik è un po’ geloso.
È a questo punto che, dal gomitolo iniziale, che accomunava tutti i protagonisti, il filo cominci a dipanarsi e a selezionare.
Andersen si mostra non indifferente alla corrente dominante in tutta l’arte dell’Ottocento, il romanticismo. Del resto, le sue fiabe, sono contrassegnate tutte da questa corrente, dalla quale, da che è nata, resta difficile districarsi. Il Settecento illuminista è ormai lontano: “In questo istante, a Holger appare chiaro come non mai che è innamorato di Clara, che deve dirglielo, che gli piacerebbe danzare con lei in quel modo per tutta la vita. I dispiaceri, la malattia o la morte non esistono!”; “Clara ha completamente dimenticato le divertenti e geniali vignette di Herman, ha dimenticato gli animati resoconti che Frederik ha fatto del suo viaggio in mare, e che solo poc’anzi ascoltava con tanto rapimento. Holger è il miglior danzatore, il più attento, il più amabile di tutti.”.
Sono delineati i caratteri di Herman, frizzante e gioioso, di Frederik, serio e geloso, di Holger, narciso, sicuro di sé, di Clara, attratta dalla bellezza più estetica che interiore.
Il romanzo ha trovato finalmente la sua rotaia ed ha accelerato la marcia.

Quando Holger, durante un ballo, si decide a dichiarare il suo amore e Clara è pronta ad ascoltarlo, improvvisamente si arresta a metà, balbetta, arrossisce. Clara, inquieta, lo crede ubriaco, non sa capacitarsi: “l’aureola che lo circonda si spegne.”. Infine Holger si ritira e si apparta. Succede così, al primo innamoramento. È l’uomo il più debole, annota Andersen: “È proprio all’apice del suo rapimento, nel mezzo dell’audace dichiarazione che… ebbene, più d’uno, forse, si è trovato nella stessa situazione, ha conosciuto questa tortura che può far perdere all’uomo tutto il suo coraggio morale, ed è quello che Holger ha perduto… la gioia della giovinezza, la soddisfazione del suo nuovo titolo, della sua uniforme di eccellente taglio sartoriale.”. Holger aveva quel giorno incignato la sua nuova divisa di “gentiluomo della Camera”, carica che gli era stata appena conferita.
Ma cosa era davvero successo, tanto da rendere così impacciato il volitivo Holger? Un incidente banale: mentre stava iniziando la sua dichiarazione di amore, aveva perduto un bottone della sua divisa: “Il bottone della bretella di dietro, quello che reggeva il suo attillato pantalone di ‘cachemire’, è saltato…”; “Con il bottone erano caduti il coraggio e l’allegria, con esso era caduta l’euforia di Clara.”.
Come nei romanzi di Thomas Hardy, un piccolo incidente come questo può avere conseguenza impreviste ed anche disastrose. Succederà così?
Sì. Clara accetta di ballare con Frederik ed è lui a chiederla in sposa: “La stessa sera, Frederik scrisse a suo padre che amava Clara, che lei gli aveva dato il suo consenso e che l’eccellente consorte dell’ammiraglio non aveva niente contro quell’unione, se lui, suo padre, acconsentiva.”.
La situazione si è fatta ingarbugliata e terrà col fiato sospeso l’autore.
Quando entra in scena la fidanzata del precettore Moritz, Caroline Heimeran, l’aria si fa frizzante. Ha un atteggiamento disinibito, e per questo affascinante, che si aggiunge alla naturale bellezza: “bella, vivace e maliziosa”. Non si fa in tempo a simpatizzare con lei che Andersen, muta di colpo la scena e con una disinvolta leggiadria ci trasporta avanti nel tempo: “Giriamo ancora quattro volte la ruota del tempo ed ecco che Clara è contessa. Holger è diplomatico all’ambasciata di Stoccolma. Moritz, ebbene sì, ha ottenuto un incarico come pastore nelle isole Halliger, sulla costa dello Schleswig. Si trova là già da mezzo anno: l’autunno prossimo andrà a trovare la sua fidanzata.”.
Ci sarà una tragedia imprevista e la bella Caroline passerà come una meteora sul romanzo.
Una scelta che coglie il lettore impreparato. Perché Caroline muore? Qual è il disegno dell’autore? Deve crescere la figura di Moritz, divenuto pastore?
No. Sulle ceneri di Caroline spunta la fenice, la piccola Elisabeth, la piccola partorita dalla moglie del suonatore d’organo di Bagheria, e presa in consegna dalla severa baronessa. Ora ha cinque anni e Andersen ne approfitta per colorare il romanzo ancora una volta del profumo di fiaba. C’è nel palazzo una stanza segreta in cui ogni tanto si reca la baronessa. Incuriosita, la bimba riesce a trovare la chiave e vi entra. C’è un vecchio ritratto: “Guardò il vecchio ritratto. Tutta la luce della candela andava verso l’alto e lei cadde nell’angoscia più atroce, perché le sembrò che il ritratto prendesse vita.”. Per quella intrusione nella stanza segreta, la baronessa la scaccerà di casa il giorno stesso. Alla fine sarà consegnata a Moritz e alla sorella che è andata a vivere con lui, Hedevig. Anche lei ha perso un bambino.
Quando arrivano momenti come questi, la scrittura si scioglie, diventa fluida e ammaliatrice. Sono, secondo me, i momenti più piacevoli e ricchi del romanzo, dove s’innesta la fantasia sbrigliata dell’autore, che sa maneggiarla e arricchirla di atmosfere: “La nonna paterna di Cathrinesen venne resa cieca dagli elfi.”. C’è poi la storia del mitico cavallo Hel, che, una volta legato a un albero, “diventava sempre più una specie di nebbiolina, e quando il sole si levò, non c’era più nessun cavallo.”.
Elisabeth è considerata un essere misterioso, posseduta da cattivi influssi. Così credeva Cathrinesen, la donna che l’aveva tenuta fino ad allora: “Questa bambina non è come le altre! I piccoli innocenti dormono un buon sonno, la notte, ma lei no: l’ho visto con mio grande spavento. Lei si alza! L’ha fatto due volte, e l’ultima volta era mezzanotte in punto. Ha camminato fino alla porta e sollevato la gonna sulla testa.”.
In realtà, Elisabeth (Lisbeth) lo faceva per gioco e per impressionare: “Bisogna dire che il marito e la moglie avevano fatto talmente tanti discorsi davanti alla povera piccola che lei stessa si era quasi convinta di essere un troll.”.
Superstizioni, leggende, cupe atmosfere avvolgono la storia di un alone di magia e sottolineano l’ambiente tipico delle terre del Nord Europa, di “quelle isole tranquille nel tempestoso Mare del Nord.”.
Ora che la narrazione si è sciolta e si è usciti dal preambolo inziale, la scrittura ha acquisito una sua eleganza e gradevolezza. Il lettore è quasi cullato e stregato dallo scorrere degli avvenimenti.

La palude che gli attuali tre protagonisti Moritz, Hedevig e la piccola Lisbeth attraversano si carica di forti suggestioni: “Davanti a loro si stendeva il piatto paese delle paludi. La pioggia persistente aveva fatto tracimare i lunghi canali immobili e tutta la regione era inondata. Gruppi di pecore stazionavano su qualche chiazza verde più elevata, dove i pastori dovevano recarsi a guado. Alcuni contadini camminavano nell’acqua profonda per tagliare il grano non ancora del tutto maturo. Le strade sistemate sui terrapieni correvano ad altezze uguali come vie ferrate al di sopra di paludi e prati. A prima vista, il viaggiatore poteva pensare a dei binari ferroviari, ma con lo stesso senso di disincanto che può provare una carovana nel deserto quando veda laghi e boschi per effetto di un miraggio, là dove sa che non può esserci che sabbia desolata. L’intero tratto di strada sulla diga era così pericoloso, così dissestato e melmoso che non si poteva chiamarlo strada. Ad ogni istante, i cavalli rischiavano di spezzarsi le zampe e quando due vetture si incrociavano, era una vera prova di abilità superarsi senza cadere nell’acqua o in un campo di fagioli.”.
Le brume di quei luoghi, che accomunano tutte le terre del Nord Europa, ci terranno compagnia come una scenografia immanente che arriva a catturare gli stessi personaggi.
Elisabeth era scomparsa e infine ritrovata. Accompagnandola a casa, Keike, la domestica di Moritz, la conduce a visitare due cimiteri. Le parla dei morti e che nei cimiteri non si deve andare di notte: “’Spesso qui si aggira la vedova dolente, come viene chiamata’. E Keike raccontò che non si trattava del fantasma di una morta, no, ma della figura di una viva il cui marito era annegato in mare. Le era capitato più volte di incontrare diverse mogli di marinai là sulla riva. Erano in abiti da lutto e si torcevano le mani, mostrandosi come vedove dolenti, e dal loro atteggiamento si capiva che il loro marito era morto.”.
Pare di avere davanti un quadro del viareggino Lorenzo Viani. “Nella canonica, quando rientrarono, Keike disse che erano state ai due cimiteri e che si erano divertite molto.”.
Sono le atmosfere che compariranno anche nelle opere di Henrik Ibsen (1828 – 1906), il grande norvegese, padre del teatro moderno, il quale, peraltro, apparteneva ad una famiglia di discendenza danese e tedesca.
Keike racconterà più di una storia e più di una leggenda alla piccola Elisabeth, alimentando la sua fantasia.
Un monellaccio compare nel romanzo; è Elimar, di quattrodici anni, “dai limpidi occhi azzurri”. È un bel ragazzo, ma ha un carattere pessimo. Nipote di sua nonna signora Levsen, moglie del comandante, quando può, le fa i più atroci dispetti. Per farla smettere di fargli le coccole per il suo ritorno, strappa addirittura alcune tende: “Adesso, non ti resta che ricucirle, così, nel frattempo, io starò in pace!”.
Dal mazzo di carte di questa sua storia, che ha tutta l’aria di non avere fretta di giungere alla fine, Andersen trae tanti piccoli assi-gioiello, che sono storielle che la vanno gradevolmente a punteggiare.
Ogni tanto il lettore si trova di fronte a personaggi nuovi come elfi sbucati dalla foresta.
Sono frammenti, spezzoni di vita, scene complementari e dal profumo squisito dell’intrattenimento. È la fantasia di questo straordinario narratore, che non la frena, bensì le dà modo di spiccare il volo.
Elisabeth trova Elimar simpatico ed anche a Elimar piace stare con lei: “Nel corso di quelle passeggiate Elimar aveva anche i suoi attimi di cattiveria, in cui la sua aggressività si scatenava, ma poi passava a un’adorazione servile, a trasporti d’amore profondo, al desiderio di rallegrarla.”.
Si scambiano le loro fantasie, i loro sogni, i loro progetti; lei aspira a possedere un grande e sfarzoso castello, lui un grande battello. Elisabeth gli dice che il suo battello non potrà mai essere grande come il suo castello, ma Elimar, pronto, le risponde: “’Il super battello è ancora più grande!’, disse Elimar, e le parlò del battello fantasma a cui credono i marinai del luogo. ‘Naviga sul grande mare, è più grande di molte di queste isole. Il ponte è così lungo che il comandante, per dare i suoi ordini, si sposta sempre a cavallo. L’attrezzatura è talmente immensa che, quando i giovani marinai salgono a bordo per lavorarci, passano anni prima che abbiano finito e, quando ridiscendono, sono ormai vecchi e coi capelli bianchi.’”.
Andersen è entrato dalla porta principale della sua fantasia. Si trova ora nel suo mondo incantato, da cui, anche nel genere romanzo, non riesce a staccarsi: “Secondo un’antica leggenda tutta una fila di alture collegava l’Inghilterra al nostro paese. E la regina d’Inghilterra doveva maritarsi con il re danese, ma lui la tradì. Allora, nel corso di sette anni, lei ordinò a settecento uomini di demolire le verdi colline che arginavano il mare di là e di qua da esse, finché il mare non fu più che uno solo, inghiottì tutte le isole e sommerse l’intera Frisia, che divenne il paese di isole che è oggi.”.
Ma anche la stretta realtà delle cose che possono capitare all’uomo, trova in Andersen un convincente narratore. Si guardi come descrive la marea che sorprende Elimar e Elisabeth in pagine memorabili, di cui si dà uno stralcio: “La nebbia era diaccia e densa. Elimar si caricò Elisabeth sul dorso e camminò spedito, ma in ciascuna delle ramificazioni di quella che abbiamo chiamato ‘rete d’acqua’, nelle pozze e negli altri stagni il livello dell’acqua saliva. Bisognava aggirarli e proprio quando Elimar si credette vicinissimo alle dune di sabbia, si ritrovò vicino ai massi da cui era partito. Col piede, urtò un oggetto. Era la piccola scatola di legno contenente gli attrezzi per la pesca. Nella foga, l’aveva dimenticata. La raccolse, ma si era allontanato del tutto dalla direzione in cui si trovava l’isola. Chiamare, gridare non sarebbe servito a niente, ma gridò lo stesso. Il mare arrivava di già, il primo lungo rotolo gli spazzò i piedi Allora, issò la piccola Elisabeth sulla pietra più alta e le si sedette vicino.”. Poi scriverà: “Nei momenti in cui il mare li aveva legati, il loro amore era sbocciato per sempre.”.
Il romanzo non nasconde l’ammirazione per il grande scrittore scozzese Walter Scott (1771 – 1832), considerato il padre del romanzo storico e autore di molti romanzi cavallereschi in cui, accanto alla storia, primeggia la fantasia. Basti ricordare il personaggio di Ivanoe tradotto nel film omonimo diretto da Richard Thorpe nel 1952, interpretato da Robert Taylor. Ivanoe va alla ricerca del suo re Riccardo Cuor di Leone, tenuto prigioniero in un castello austriaco.
Visitai tanti anni fa la grande casa di Abbotsford, in Scozia, dove è vissuto l’autore, e ho davanti agli occhi l’immenso parco verde che si apriva ai miei occhi guardando da una finestra del maniero.

La trama torna ad intrecciarsi e arricchirsi alla maniera dei romanzi di Jane Austen (1775 – 1817) che, pur avendo un cuore centrale, rilevano qua e là dei coprotagonisti, anche se momentanei.
Il percorso principale, comunque, è segnato, e seguirà la crescita e lo sviluppo della piccola Elisabeth, la quale si nutre avidamente, sia pure in silenzio, di ciò che le si muove attorno. Elimar, il ragazzo di cui si è innamorata, non ha ancora preso un posto centrale nella storia. È il tipo di suspense che l’autore ha scelto per intrigarci.
E infatti non manca molto che abbiamo notizie di Elimar. Ha commesso un omicidio e si trova in prigione. La signora Lewsen scrive al re di Danimarca Frederick VI per chiedere la grazia. Affida in tutta segretezza la lettera a Elisabeth, che ora ha quattordici anni, per la consegna all’ufficio postale. Ma, arrivata lì, la ragazza cambia idea, torna a casa fingendo di aver adempiuto alla consegna, ma il mattino seguente, a notte fonda, lascia la casa per andare a Copenaghen a consegnare la supplica direttamente nelle mani del re. Deve recarsi nientemeno che da Oland, posta su quell’isoletta sperduta, a Copenaghen! Ma si fa coraggio, rammentando il personaggio del romanzo di Scott, “Il cuore di Midlothian”, Jeanne Deans, che da Edimburgo si reca da sola fino a Londra. Sarebbe stata ardimentosa come lei: “Aveva preso e messo in un involto i suoi anelli d’oro. In caso di emergenza, avrebbe potuto venderli. Si considerava assai ricca per quel viaggio. Una volta ancora, s’inginocchiò, pregò Nostro Signore e uscì rapidamente dalla casa in cui tutti dormivano, poi scese a prendere la barca.”. Lascia brevi righe ai suoi in cui però non spiega il motivo della sua assenza.
Si troverà quasi subito nel bel mezzo di una tempesta e Andersen trova l’occasione per alimentare un intreccio in cui, a casa dei coniugi Levsen, compare il padre di Elisabeth, Nickels, che già abbiamo conosciuto come il suonatore dell’organo di Barberia, il quale reca una lettera di Elimar che comunica il suo imminente matrimonio con una ricca vedova. Ma Elimar non era in prigione secondo quanto era stato comunicato a Moritz dal giudice di Fí¸hr?
Elisabeth non sa niente di ciò che sta accadendo dalle sue parti e prosegue il viaggio: “Pensava continuamente a Elimar, l’avrebbe visto presto, forse la sera del giorno dopo, ma come andare da lui? Quanto doveva soffrire! E pensava ai suoi genitori adottivi ai quali aveva arrecato l’amaro dolore di lasciarli senza dire arrivederci: non aveva potuto farlo, non le avrebbero permesso di partire!”.
Il viaggio in diligenza verso Copenaghen è un altro brano del romanzo significativo, nel momento in cui registra la conversazioni tra i passeggeri. La povera Elisabeth vi si trova impigliata senza che nessuno sapesse dove si trovassero le isole Halliger! Una passeggera le dice: “Copenaghen è una grande città selvaggia con persone spaventevoli! Una povera ragazza come voi non può andare tutta sola in giro per le strade. Ci sono dei giovani assolutamente riprovevoli! Uh! È spaventoso!”.
Una volta a Copenaghen e scesi dalla vettura, Elisabeth, smarrita, si affida a lei, la quale la invita a seguirla. Abita in buon quartiere della città, ma lungo il tragitto non manca di segnalarle le cose curiose che incontrano: “È in questa via che due o tre anni fa il diavolo si mostrò, una vicenda di cui si è tanto parlato e che la polizia non ha mai sbrogliato.”.
Andersen non ci fa mai stare tranquilli, e ogni tanto ce ne racconta una delle sue, da favolista.
Copenaghen è tutta permeata di un’atmosfera tra operosità, perfino disordinata e confusa (si veda la descrizione del giorno della ‘rilocazione’) e superstizioni e magie.
Non è difficile trovarvi alcune descrizioni della città che ci riportano alla Londra di Charles Dickens (1812 – 1870).
E la piccola Sanne, “esile e sporca, con i capelli che le ricadevano a ciocche intorno al viso” non vi ricorda Éponine, la figlia maggiore di Thénardier de “I miserabili” di Victor Hugo (1802 – 1885)?
Non staremo ora a farvi il resoconto dell’esito del viaggio di Elisabeth. Diremo solo che aveva ragione suo padre (di cui lei ancora non sa niente) nel sostenere che Elimar, vivo e vegeto, doveva sposarsi con una ricca vedova.
Il finto Elimar, comunque, incontrandola in prigione, glielo rivela, lasciandola rammaricata e triste.
Come troviamo in Italia nello scrittore Carlo Sgorlon (1930 – 2009), anche in questa opera di Andersen si rende il tributo agli uomini che sanno leggere e raccontare. È il caso di Hansen il calzolaio, marito di Trine, la ragazza che aveva visto Elisabeth bambina e che ora viveva a Copenaghen e presso la quale la nostra protagonista chiede di essere accolta in attesa di poter fare ritorno alla sua isola: “L’atmosfera nella piccola stanza era comunque buona e scherzosa e ascoltare Hansen era da sempre ‘istruttivo’, come diceva Trine, a cui brillavano gli occhi mentre guardava il suo bravo marito. Lei sola sapeva come era veramente. Anche Elizabeth ascoltava tutta compunta.”.
E anche Elisabeth sa raccontare: “Il consigliere di Stato era rimasto conquistato dal modo straordinariamente vivace con cui Elizabeth sapeva conversare. La sera prima gli aveva raccontato tante di quelle cose sulle Halliger, su Fí¸hr e su Amrom che gli pareva di esserci stato davvero. Nessun libro, nessuna descrizione orale gliene aveva mai fornito un’idea altrettanto chiara prima di allora.”.
È una dote che sfiora anche il personaggio di Herman, il nipote della baronessa Dorothea, detta “la pazza”, per le sue bizzarrie. Herman fa un così splendido ritratto del suo Paese, la Danimarca, che non possiamo che leggervi l’anima stessa di Andersen. La stessa anima che piangerà la morte del re Frederik VI, il quale, “estraneo alla poesia, nella sua vita aveva regalato momenti poetici agli occhi di uno scrittore.”.
Incontrato il consigliere di Stato Heimeran (il padre di Caroline, la moglie defunta del pastore Moritz), questi invita Elisabeth a restare da lui per qualche tempo per introdurla nella società danese. Di nuovo la giovane s’incontra con la baronessa Dorothea, che da piccola l’aveva cacciata di casa, e che ora l’accoglie di buon grado. Conosce, così, sempre di più, il nipote della baronessa, Herman, che l’aveva protetta, insieme al barone Holger e al conte Frederik, quando fu trovata tra le rovine dal castello accanto alla madre morta nel partorirla. Scene che appartengono, come si ricorderà, agli inizi del romanzo, il quale pare avviarsi, ora, ad un epilogo in cui tutti i fili finalmente vengono tratti verso una sola e definitiva direzione.
Viene da immaginarsi l’ampio volo di un’aquila che, lasciato il suo nido, si appresti a farvi ritorno.
Elisabeth ha una ricca fantasia, alimentata nel tempo dai tanti racconti uditi, e scopre la sua passione di tradurla in parole che ne diano contezza a se stessa e agli altri.
Entra, dunque, in lei, un po’ dell’Andersen favolistico e immaginifico. Ricordando il pericolo corso con Elimar il giorno in cui furono sorpresi dall’alta marea e furono provvidenzialmente salvati da Jap-Lidt-Piders con la sua barca, Elisabeth così fantastica: “E non era Jap-Lidt-Piders a venire a soccorrerli, ma il superbattello, l’enorme battello fantasma che li raccoglieva per trasportarli nell’oceano fino al paese dei Mori e in India, quel paese dell’immaginazione che Keike le aveva dipinto sulla base della cronaca del prete Giovanni, il paese degli orsi bianchi e bruni, dell’uccello fenice, e degli uomini di quindici aune di altezza. Passavano interi anni prima che vi arrivassero. Loro crescevano e si facevano vecchi. Avevano capelli di un bianco argentato, si appoggiavano l’uno all’altro. Sbarcavano e si portavano alla fontana della giovinezza, bevevano della sua acqua e ridiventavano giovani come quando erano saliti sul superbattello. La mano nella mano, entravano nel castello del prete Giovanni che era fatto d’oro e d’avorio, aveva porte di cedro, finestre di cristallo e letti di zaffiro ricoperti di bezoard, che scaccia ogni malattia. Ventimila uomini affollavano l’interno. Erano tutti re, duchi e arcivescovi, e davanti al castello si ergeva un palo di cristallo recante uno specchio nel quale si poteva vedere l’immagine di chi si desiderava, nel male e nel bene, e questo nel mondo intero.”.

Confessa al personaggio di cui diventa amica, denominato il gentiluomo della Camera, la sua passione e le consegna in lettura il suo manoscritto.
Come non ricordare la protagonista dei due celebri romanzi di Louisa May Alcott (1832 – 1888), “Piccole donne” e “Piccole donne crescono”, rispettivamente del 1868 e 1869, scritti, ossia, vent’anni dopo questo romanzo di Andersen? Vi troveremo in Jo l’equivalente di Elisabeth e nel maestro di origine tedesca il professor Bhaer l’equivalente del gentiluomo della Camera: “Elizabeth era rosso sangue, si sentiva come se avesse commesso un peccato. Adesso la sua novella le pareva banale e puerile. Il gentiluomo della Camera la lesse e rimase colpito dalla freschezza della lingua e delle immagini poetiche adoperate, ma soprattutto da una descrizione della natura che era tutt’altro che banale.”.
Non vi nascondo che è forte il sospetto che qui, in questo romanzo di Andersen, stia racchiusa la fonte ispiratrice del capolavoro della scrittrice americana.
Si leggeranno alcune considerazioni sul romanzo e sui rischi che si corrono nell’esprimersi attraverso di essi. Le dirà l’amico Herman: “La bontà non è, o quantomeno non è ancora, un tratto caratteristico dei danesi. C’è in noi un elemento di dileggio che è fortemente predominante. Noi danesi siamo dotati di un grande senso del comico, per cui possediamo una letteratura di commedie, ma, nella massa, questo sentimento si degrada a voglia di scoprire i lati cattivi, di ridicolizzare tutto. Se pensate di avere il coraggio e la forza di sopportare che lo sciocco si beffi di voi, che persino i più nobili e migliori possano offendervi, benissimo, non dirò di più. Quello che vi è in noi di missione divina si aprirà una strada. Ma non evocate questi sentimenti in voi, non suscitate una fioritura che impoverisca la buona terra e impedisca di far prosperare quello che, forse, sarebbe più utile e migliore.”. Elisabeth gli risponde: “Vi assicuro che non metterò mai più i miei sentimenti su carta.”.
Sono i momenti in cui Andersen esprime apertamente il suo pensiero, approfittano dei suoi personaggi, che ora, volgendoci alla fine, paiono costruiti a misura della sua filosofia.
La bizzarra baronessa, chiamata da tutti “la pazza” per le sue stramberie, dopo aver fatto capire al nipote Herman la verità sulla sua nascita (che il lettore scoprirà a poco a poco, sospettandola da tempo), gli affiderà questo messaggio: “Tua madre riposa qui, lei era pura e innocente come un angelo di Dio! Dalle la gioia, e dalla anche a me, di essere buono con i poveri. Siamo tutti uguali, tutti fatti della stessa pasta di terra. C’è chi arriva in carta da giornali, e chi in carta dorata, ma la pasta che vi è avvolta non ha alcuna ragione di vantarsi di tale doratura. C’è nobiltà in qualunque condizione, perché la vera nobiltà è quella dello spirito, non quella del sangue. Checché se ne dica, siamo tutti dello stesso sangue. Quello che scorre nelle arterie del tallone, prima è passato per il cuore e può ritornarci. È così che succede dentro di noi, ed è così che succede anche nelle persone fuori di noi. Custodisci queste parole nel tuo cuore!… Adesso andiamo, ragazzo mio!”.
Non anticipiamo la felice conclusione della storia di Elisabeth, ma essa si accompagna alla celebrazione del Creato e di Dio: “Riconoscente e convinto, il cuore di Elizabeth si elevava verso Dio. E anche il nostro lo fa ogni volta che, come lei, cerchiamo nella storia della nostra vita il filo invisibile.”. Il filo invisibile è il filo “che attraversa la vita di ciascun essere umano nei piccoli e grandi dettagli, a dimostrazione del fatto che siamo proprietà di Dio.”.
E ancora, a proposito di “certe pagine” scritte da Elisabeth: “Si sarebbe anche potuto definire quello scritto una novella e, realmente, si vedeva realizzato il compito dello scrittore: aprire gli occhi alla poesia nascosta nella vita quotidiana che si svolge intorno a noi, mostrare il filo invisibile che, nella vita di ogni essere umano, ci ricorda che siamo proprietà di Dio, farci vedere quanto vi è di singolare nella natura e negli uomini, e riconoscere l’impronta di Dio anche là dove essa è travestita da pagliaccio e indossa degli stracci.”.
Credo che, a questo punto, non sia azzardato supporre, anche per le parole che chiuderanno il racconto, che tutta la storia che ci ha accompagnato fin qui sia stata costruita a servizio di questo forte sentimento di Dio.


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Bart