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LETTERATURA: I MAESTRI: Bono Giamboni precursore di Dante

18 Ottobre 2018

di Alfredo Schiaffini
[dal “Corriere della Sera”, domenica 5 gennaio 1969]

Siamo in grado di indicare oramai chi si può salutare co ­me il più grande prosatore to ­scano del Duecento. E’ Bono Giamboni, di famiglia fioren ­tina, uomo di toga e di lette ­re, che dai documenti d’archi ­vio risulta più volte giudice del podestà (già il 1261) nella Cu ­ria del sestiere di Por San Pie ­ro. Della principale delle sue opere, il Libro de’ Vizi e delle Virtudi, che è anteriore di mol ­ti anni alla prosa della Vita Nuova e si unisce ai precedenti modelli più vicini alla Divi ­na Commedia, si possiede final ­mente, uscita in luce prima della fine del 1968, l’edizione critica il più possibile perfet ­ta, per le cure di un filologo della perizia di Cesare Segre e per i tipi di Giulio Einaudi. L’eccellente edizione, che com ­pare in una raccolta di classici diretta da G. Contini e include anche un Trattato di virtù e di vizi (già scoperto da Michele Barbi nel 1904, ma rimasto ine ­splorato e che del Libro è la prima redazione), si fonda su tutti i manoscritti reperibili ed è arricchita di un vasto com ­mento e di un prezioso indice-glossario. Il commento illumi ­na gli aspetti linguistici del ­l’opera, allietando i glottologi, e segnala le fonti a cui Bono ha attinto, latine e volgari.

Fino all’edizione del Segre, e dopo il 1836, quando P. Tassi pubblicò, a Firenze, il Libro de’ Vizi e delle Virtudi in for ­ma non accurata e col titolo arbitrario di Introduzione alle Virtù, l’opera di Bono viveva nell’oscurità, e di lui si badava, anche con intenti puristici, ai volgarizzamenti piuttosto che alle scritture originali. Ma già Santorre Debenedetti, filologo dei più addestrati per dottrina e severità di metodo, si faceva a indagare la vita del giudice prosatore, e così determinava l’importanza dei suoi volgariz ­zamenti e rimaneggiamenti: « Nel quadro della cultura fio ­rentina, dopo Ser Brunetto, conviene proprio ricordar lui, il nostro Giudice. Traduttore in solenni periodi, apre la schiera dei forti volgarizzatori che dif ­fondono mirabilmente il tosca ­no e preparano l’avvento del Decameron. Uomo di legge e letterato, favorisce anch’egli il laicizzarsi della dottrina, il suo divenir popolare »: vale a di ­re, come altri scriverà, procura « di ordinare e attualizzare una cultura etico-religiosa ad uso della borghesia comunale ».

Stretto al Debenedetti, di cui ha assimilato passione e me ­todi (si intende, ulteriormente perfezionandoli), appare Cesa ­re Segre, che nella densa e complessa introduzione al te ­sto critico delinea con mano maestra la figura di Bono Giamboni, rispetto ai caratteri della cultura e della lingua del Duecento.

Il Libro de’ Vizi e delle Vir ­tudi si collega dunque con una tradizione illustre che da Ala ­no di Lilla arriva a Brunetto Latini, dall’Anticlaudianus al Tesoretto. E’ un romanzo alle ­gorico, â— o, come dice moder ­namente Maria Corti, saggisti ­co, â— formato di esposizioni dogmatiche e morali che si in ­seriscono in una struttura nar ­rativa. (Eleganti e dotte le re ­lative pagine del Segre). Cro ­nologicamente, il romanzo vie ­ne collocato nell’ambito di Fi ­renze, tra il Tesoretto, al cui schema molto si accosta, e la Somme le roi nella volgarizza ­zione di Zucchero Bencivenni, alla quale fornisce proprie fra ­si e perfino pagine intere.

Così Brunetto, Bono e Zuc ­chero, tra loro congiunti da uniforme attività e da somi ­glianza di temi (che, pur infe ­riori, lasciano pensare alla Di ­vina Commedia), costituiscono il triumvirato predantesco del ­la Firenze del Duecento. E se negli scrittori fiorentini del tempo si avverte una « tenden ­za pedagogicamente nazional ­popolare », la loro cultura è certamente, quanto a materia ­li, arretrata, ma comunque si mostra « progressista nell’impo ­stazione etico-politica laica »; e per il ricorso a testi divulga ­tivi meglio che alle opere più originali del pensiero duecen ­tesco, riesce accessibile a quan ­ti esigevano un insegnamento pratico. Questo era diretto, in realtà, a un pubblico di ban ­chieri e commercianti e di pic ­coli imprenditori. La nuova dottrina morale doveva favori ­re, non infrenare, l’attività ci ­vile, e non poteva non fare po ­sto, oltre che al pensiero tra ­dizionale, alle raffinate mode della cavalleria e cortesia dif ­fuse dalla Francia, nazione cosi progredita. Brunetto pertanto, vissuto in Spagna e Francia, è evidentemente più cosmopolita di Bono, e mescola il Roman de la Rose e il De planctu Naturae: mentre Bono resta più avvinto alle dottrine della tra ­dizione, anche se non è estra ­neo a quell’influsso cavallere ­sco che doveva risentire per il tramite dei romanzi, come al Segre sembra provato dalle descrizioni di battaglie nel Li ­bro e nel volgarizzamento di Orosio.

Nei riguardi tuttavia del lin ­guaggio, Bono si presenta più moderno di Brunetto: non ade ­risce, come accade per i sette ­nari del Tesoretto, alle conven ­zioni di un genere accettato, ma crea invece la prosa nuova di un romanzo allegorico, la quale prende spicco di fronte ai tipi di oratio soluta della se ­conda metà del Duecento: che sono la prosa didattica, scien ­tifica e morale, estranea alle ricerche di stile, e quella nar ­rativa, quasi sempre conven ­zionale e uniforme (ove si ec ­cettuino la rapidità e la con ­cisione del Novellino), la pro ­sa giuridico-politica che si con ­forma alle regole dell’Ars dictandi, e quella delle lettere di Guittone, eloquente e carica di tutte le malizie retoriche. Bono Giamboni, secondo spiega e conclude Cesare Segre, « conce ­pisce per primo il disegno di forgiare una prosa d’arte adat ­tabile a un contesto insieme narrativo, didattico ed elo ­quente »: la prosa appunto del Libro de’ Vizi e delle Virtudi

 


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Bart