di Dino Buzzati
[dal “Corriere della Sera”, martedì 4 agosto 1970]

Gli ultimi cinquant’anni so ­no stati densi di novità e cam ­biamenti come nessun altro mezzo secolo nella storia del mondo. Mi piace qui segnalar ­ne alcuni, due dei quali di ca ­rattere personale.

LETTERA A UN AMICO. â— Carissimo, sono felice di apprendere che tra poco sarai di nuovo tra noi, dopo tanti anni di assenza. Non vedo l’ora di rivederti. E capisco la tua gioia, le tue nuove spe ­ranze. Ma, proprio perché ti ho sempre considerato come un fratello, ritengo mio dove ­re, prima che tu ti accinga al lungo viaggio di ritorno, av ­vertirti che non ritroverai la tua città, i tuoi concittadini, il tuo paese, come li ricordi, come ce li ricordiamo.

Non credere: tutto, o quasi, è cambiato.

Ecco, per esempio: non c’è più la bella cappa di vapori, caligine e bitume sopra la cit ­tà, che le dava quell’aria dram ­matica, romantica e cupa che tanto ci piaceva. Molte indu ­strie sono state allontanate, molte altre hanno spento de ­finitivamente i fuochi, e, per saggia disposizione dell’autori ­tà, i bracieri dei riscaldamenti domestici vengono accesi, pur nella stagione più rigida, solo un paio d’ore al giorno. Co ­sicché il cielo è tornato limpi ­do come ai tempi dei nostri nonni e uno stupido sole pene ­tra dovunque, facendo risalta ­re il deperimento e la bruttu ­ra dell’ambiente, prima misericordiosamente mascherato dai brumosi aloni.

Non c’è più l’affanno, ti ri ­cordi?, di correre, far presto, arrivare per primi, farsi avan ­ti, distinguersi, occupare il po ­sto migliore, farsi notare, farsi promuovere, salire di gradino in gradino la scala della pro ­fessione, della società o del successo. Non c’è più la corro ­borante febbre che ai suoi tem ­pi veniva chiamata della so ­cietà consumistica, della socie ­tà del benessere. Adesso tutti camminano senza fretta, non cercano di sopravanzarsi, di vincere la gara, di diventare ricchi, o potenti, o famosi; tanto, si sa benissimo che sa ­rebbe inutile. I gradini della famosa scala non esistono più, tutti siamo piallati al medesi ­mo livello, da cui innalzarsi è sconveniente.

Non c’è più la rabbia, ti ri ­cordi?, la nevrastenica rabbia agli incroci e ai semafori, quando al volante delle nostre rispettive automobili ci si sentiva trasformati in nibbi, pan ­tere e squali, disposti a sco ­perchiare il cranio di chi aves ­se osato tagliarci la strada o da dietro urgesse bestialmente con il clacson, o arrischiasse il passaggio quando il lumino rosso era già acceso. Quella sì che era vita. Ma oggi le mac ­chine sono diventate poche, le strade e le piazze deserte di traffico come quando eravamo bambini.

Sarebbe troppo lungo, in una lettera, spiegarti tutto quanto. I tre esempi di cui sopra possono però darti una pallida idea. Il mondo si è co ­me placato, è caduto in una specie di letargo, sprofondato in un tetro silenzio. Niente più disordine, niente più risate, al ­legria, delirio, niente più fu ­rore, rumore, violenze, prote ­ste, contestazioni, vandalismi, battaglie, neppure patemi di animo (o meglio, di paure ce ne sono sempre, ma di tutt’al ­tro genere).

LE MONTAGNE. â— Che cosa sia accaduto alle mie vec ­chie montagne Dio soltanto lo sa. Faccio l’esame di coscien ­za. Le ho forse trascurate? Gli ho mancato di riguardo? Ho dimenticato di farmi vivo nel ­le ricorrenze di precetto? Ne ho parlato male con gli amici? Ho a loro anteposto qualche altro bene o creatura della ter ­ra? Assolutamente no. Eppure i rapporti tra noi sono profon ­damente cambiati. Tutte le vol ­te, e capitava abbastanza spes ­so, che risalivo, dalla pianura, la valle dove sono nato, e qua ­si all’improvviso, sulla sini ­stra, dietro le selvatiche gob ­be erbose delle domestiche prealpi, spuntavano le cuspidi estreme delle dolomiti, come arcano miraggio, con quel lo ­ro colore indescrivibile, e poi via via che procedevo, si spa ­lancava lo spettacolo delle in ­tere pareti nella loro paurosa e adorata solitudine, allora io provavo dentro di me un ri ­mescolamento insieme doloro ­so e squisito. Questo perché loro, le vecchie montagne, im ­mediatamente mi riconosceva ­no e mi chiamavano a sé. Su, non perdere tempo, sembrava dicessero, lascia la macchina e prendi i sentieri che ormai conosci bene, ritorna tra noi. Vedi sulla Pala quella grande fessura sghemba che sembre ­rebbe impossibile? Vedi, sulla cresta sud, quella piccola gra ­ziosa guglia a forma di mona ­co incappucciato? Nessuno è mai passato di là, nessuno si è inerpicato sulla testa del fra ­te. Potresti farlo tu. E non è poi mica tanto difficile, sai? Ma quassù sarai felice, per lo meno ritroverai la giovinezza e la pace dell’animo.

E io allora sentivo quel ri ­mescolamento dentro di me farsi più ardente e tumultuoso. E, pur attraverso palpiti di paura, senza dei quali le mon ­tagne sarebbero dei sassi qualsiasi, solamente un poco più grandi, correvo dall’amico, molto più in gamba di me, che mi avrebbe tirato su per i pa ­lazzi e le torri della grande città misteriosa.

Adesso invece risalgo la mia valle e all’improvviso, come tanti anni fa, allo stesso preci ­so punto, compaiono lassù, co ­me miraggi, le vette dei cam ­panili e dei minareti, e poco più avanti si spalanca la mae ­stà delle grandi muraglie. Ma è come se non mi vedessero più, come se non esistessi. Non mi invitano più. Non mi chia ­mano più con quella silenzio ­sa voce che entrava nelle vi ­scere. Se ne stanno là, immo ­bili, fredde, taciturne, chiuse in una indifferenza suprema. Che cosa è successo? Perché sono diventato uno straniero? Che cosa vi ho fatto di male?

Oppure tutto dipende sol ­tanto da me, perché si è spen ­to l’amore?

I CIPRESSI. â— Ho la for ­tuna di possedere un meravi ­glioso parco settecentesco, non grande ma di favolosa archi ­tettura, simile a quello di Negrar, sopra Verona. Due viali del parco, entrambi tagliati in ripida ascesa cosicché l’ultimo profilo del prato appaia come una suprema frontiera, simile alla famosa siepe di Leopardi, sono fiancheggiati da singola ­ri cipressi che il giardiniere, probabilmente di testa sua, de ­finisce « mostrificati ». Invece di svettare diritti e compatti come fusi, a un certo punto emettono strane ramificazioni che gli fanno assumere sagome sorprendenti: di figure uma ­ne, di civette, di grifi, di ca ­vallucci marini, di angeli, di draghi, di fantasmi. Bene: una sera di sette anni fa, mentre percorrevo da solo uno dei viali, alzai gli occhi ed ebbi un brivido, riconoscendo nella sommità di uno dei cipressi, illuminata dall’ultimo sole, le sembianze di un caro amico perduto di recente. Illusione ottica? Autosuggestione pro ­mossa da chissà quale stimolo dell’inconscio? Per smentire la prima impressione, tutt’altro che allegra, mi spostai alcuni metri e, riguardai il cipresso. Ma il turbamento permase. Ora, dell’amico, per dire così, vedevo la schiena e la nuca, dal sotto in su; e la somiglian ­za era assoluta.

Sto diventando vecchio? Col tempo, altri verdi simulacri umani si sono formati in cima ai cipressi, ciascuno assumen ­do la figura, l’espressione, per ­fino il volto di amici via via scomparsi. Ne riconosco già otto. Adesso non mi fanno più paura, anzi. Di notte, ho la sensazione che vigilino i miei sonni, nella villa accanto, co ­me fedeli sentinelle. Nei gior ­ni di vento li guardo lunga ­mente: ondeggiano, a ogni raffica, di conserva, con grande rassegnazione; e, piegando il capo insieme tutti dalla stes ­sa parte, sembra che mi vogliano dire: «Su, coraggio, perché non vieni anche tu con noi? »

CONTESTATO. â— Anch’io mi trovo in stato di accu ­sa. Come sempre, nella mia casa aperta a tutti, entrano i miei figlioli. Come sono en ­trati, subito mi vedono. E io me ne sto, come sempre, im ­mobile e silenzioso, un po’ per non intimidirli, un po’ per non deprimerli eventualmente col peso della paterna autorità, oggi tanto screditata. E non sto seduto in una poltrona au ­torevole, non li guardo con gli occhi severi o interrogativi del superiore, anzi con umiltà e benevolenza, sperando che la mia presenza li incoraggi, li rassereni, li metta a loro agio, li consoli. Però, i miei figli, niente. Girano, si guar ­dano intorno, apprezzano le bellezze architettoniche, si fer ­mano a rimirare le opere d’ar ­te che decorano la casa, con ­sultano i libretti esplicativi, si scambiano commenti esteti ­ci. Me, non mi guardano nep ­pure, manco un saluto, un sor ­riso. un cenno di mano. E so ­no miei figli.

Peggio. Poiché posso udire agevolmente i loro discorsi sento che sparlano di me, mi prendono in giro, mi vituperano, perfino. Io, loro padre? Se ne fanno delle risate. Sog ­ghignano. Io non esisto, a sen ­tir loro. Io sono un ridicolo e impotente matusa, strumen ­talizzato â— come gli piace questa parola! â— dai potenti e dagli oppressori.

Non mi salutano, non mi guardano, è tanto se si tolgo ­no il cappello, neanche a pen ­sarci che qualcuno si sogni di rivolgermi una preghiera. Tan ­to, io non esisto, io non conto nulla.

E il bello è che anche in me qualcosa è cambiato. Qual ­siasi idea di rivalsa, di casti ­go, di vendetta, contro quei giovanotti sciagurati, si spe ­gne, sul nascere, in una sorta di amareggiata rassegnazione. Sono miei figli, no? E dentro di loro, anche se lo negano con rabbia, anche se non ne hanno il più lontano sospet ­to, io continuo a esistere. Co ­me punirli? Come reprimerli? D’altra parte, possono le cose durare così? Quasi, io non mi riconosco più. Mi manca la terra sotto i piedi. Aiutatemi, amici. Dopo tutto, sono DIO.

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