LETTERATURA: I MAESTRI: Cinque tempi
2 Settembre 2008
di Giacomo Devoto
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 22 giugno 1970] Â
La moda linguistica non ac Âcenna a diminuire, ma le sue conseguenze sono contraddittorie. All’esterno, pervade la filosofia, la letteratura. All’in Âterno, vittima dell’impazienza e della incontinenza universa Âli, erode le strutture, che pure teoricamente idolatra: si scri Âve sempre più a vanvera. Per reazione, sorgono risentimenti e rimpianti romantici: le ru Âbriche dei giornali accolgono le proteste dei lettori, e auto Ârevoli giornalisti le interpre Âtano con interventi di buon livello, rinfocolandole. E’ mai possibile, che, gli uni come gli altri, prescindano da qualsiasi esperienza del passato, igno Ârino la storia, e considerino le formule come balocchi, con cui giocare al rialzo dell’astra Âzione, al ribasso della comu Ânicabilità ? Agli uni come agli altri, mi provo a proporre un armistizio. Esso non deve si Âgnificare ozio in preparazione di nuove schermaglie, ma solo una immersione nella storia, che consenta istruttivi con Âfronti. Â
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Questa immersione ci fa sperimentare una vicenda di Âvisa in cinque tempi. Il primo riguarda l’Italia del I secolo a. C. Il conferimento dei di Âritti politici a tutti gli italiani del tempo, l’uguaglianza rag Âgiunta con i cittadini romani ha fatto sì che il latino diven Âtasse lingua comune in tutta l’Italia. La acquisizione della lingua latina non fu che un caso particolare della rivendicazione generale, la parità dei diritti politici. Non si trattava di stabilire «quali » forme latine si dovevano adoperare e quali no. Si trattava di un fatto soggettivo, la volontà di parlare latino. Proprio perché non si trattava di una impo Âsizione dall’esterno, ma di una aspirazione dall’interno, ecco che la questione della lingua, a cavallo dei secoli I avanti e I dopo Cristo, era un pro Âblema «sociale ». Solo in pie Âna età imperiale compaiono interventi normativi o autoritari di grammatici. Così nel III secolo Probo corregge «speculum non speclum », documentando che è in corso di preparazione l’italiano «specchio ». Ma a questo punto non si tratta più di una questione sociale, dello sforzo per ascen Âdere a un modello più eleva Âto, ma di un movimento in Âverso, del nuovo contro il vecchio.
Il secondo tempo è rappresentato dal messaggio cristia Âno, che, linguisticamente, ma Ânifesta due diverse esigenze: l’una, isolatrice, che si iden Âtifica con le parole tecniche della liturgia; l’altra, associatrice, che si identifica nell’apostolato, nella aderenza al Âla sensibilità delle masse. Di fronte alle esigenze tecniche, l’insieme delle istituzioni lin Âguistiche latine ha retto ma Âgnificamente. Tertulliano, au Âtore del II secolo, ha l’impe Âto rivoluzionario dell’apostolo, osa innovare all’interno delle strutture lessicali del latino, ma rimane nell’alveo classico. Sul piano della dottrina, le strutture linguistiche latine sono in grado di rispondere alle esigenze del mondo nuo Âvo, che si annuncia. Dal pun Âto di vista dell’apostolato, non è così. Quando si presentano e si commentano ai fedeli i testi sacri, ecco che questi ap Âpaiono nella loro semplicità lineare. La traduzione della Bibbia, da parte di S. Gerolamo, si oppone a tutti gli schemi classici. I padri della chiesa rimangono più o meno fedeli alla tradizione, ma solo le parole del Vangelo «parla Âno » effettivamente agli ascol Âtatori. La questione della lin Âgua non è più un problema sociale, ma un problema sti Âlistico, che distingue la lingua del ragionamento dalla lingua degli affetti. Ma i grammatici non se ne sono resi conto.
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Il terzo tempo si identifica col medio evo. Con  la  fine dell’impero romano, il latino si scinde in tanti latini quante sono le parrocchie o le pievi. I  grammatici   rinunciano   a correggere  errori,  constatano delle varietà . Solo attraverso i secoli, singoli dialetti, quello della Ile-de-France in Francia, quello di Firenze in Italia si impongono  come  modelli  di lingua volgare, prima lettera Âria, poi filosofica e scientifica. Ma in Italia non sono le mas Âse che aspirano a questa rico Âstruzione,   bensì   cerchie   ristrette di letterati. La questio Âne  della  lingua,  trattata   dal Bembo e dal Castiglione, è sì puntigliosa e attenta, ma non rispecchia aspirazioni se non di una minoranza, di una oli Âgarchia. Si trattò di un problema  «letterario »,  alla  cui radice stava, per essere ubbi Âdita o rifiutata, l’autorità dell’ accademia della Crusca, così diversa nelle sue manifesta Âzioni da quella di oggi. La fase letteraria della questione della lingua non fu toccata dalle grandi manifestazioni della Ri Âvoluzione francese: l’abate Cesari, il marchese Puoti, con la loro dottrina del purismo, ne furono gli epigoni, ancora nei primi decenni dell’Ottocento.
La quarta fase maturò nell’Ottocento in seguito allo sviluppo del concetto di nazionalità , del quale la lingua era l’emblema. Questa associazio Âne non si sarebbe allontanata dall’ambito sentimentale, se l’unità d’Italia non avesse po Âsto il problema linguistico sul Âlo stesso piano dei problemi della    unificazione    giuridica amministrativa   economica   e militare; e se un uomo come Alessandro  Manzoni  non ne avesse tratto le conseguenze, con   ferrea   coerenza.   Il   modello   doveva  essere  secondo lui geograficamente e storicamente  unitario:   il  fiorentino,  quale veniva adoprato dai contemporanei. Se la tesi del Manzoni fallì, non fu per le obiezioni largamente motivate degli avversari, e principalmente di Graziadio Ascoli. Fallì perché la questione della lingua fu vista secondo l’occhio dei quadri politici, e cioè di una minoranza, alla quale non cor Ârispondeva un consenso o una aspirazione popolare. L’immobilismo della società umbertina fece sì che il dibattito si  si svolse nell’interesse e per conto di minoranze, rimase un problema politico, cui le masse erano estranee.
Solo nel quinto tempo la questione della lingua torna ad essere una questione socia Âle. La grande guerra, l’orga Ânizzazione sindacale, i mezzi audiovisivi, hanno proposto al singolo il problema del suo inserimento in una comunità unitaria, in cui la uscita dai dialetti, in quanto ghetti, equivaleva a liberazione, a riconoscimento di uguaglianza. Ma tra la socialità della questione antica e quella della attuale, passa una differenza. La anti Âca aveva una meta topografi Âca, e insieme ideale, Roma; la attuale ha una meta collettiva ma non unitaria, fluida, evasiva. Il punto di riferimento era allora positivo, riconosci Âbile; oggi è indiretto, pragma Âtico, in fondo negativo: si de Âsidera di non essere bollati di provincialismo.
In queste condizioni, non si può che formulare, a livello dei modelli, quello del fioren Âtinismo temperato, che ha una sua coerenza interna, ma ac Âcetta di essere attenuato sen Âza scandalo da inflessioni pro Ânunce e forme regionali. Occorre poi, dall’altra parte, invocare una opera di educazione, che prescinda dal normativismo della scuola, dei pro Âgrammi e delle circolari ministeriali, e riconduca il problema, per insegnanti e per sco Âlari, al livello di un problema di   civismo.  Oso  deludere   il lettore,  non  partecipando  né all’indifferentismo   né   all’invettiva; affidando banalmente il problema a un ente come la   Dante   Alighieri   che,   nel campo   dei   sentimenti   nazionali, ha esaurito il suo com Âpito, perché interessi i giova Âni; e al Centro didattico pri Âmogenito,  quello  di   Firenze, perché stimoli gli insegnanti: almeno quelli concordi nell’affermare che «la questione del Âla lingua è oggi un problema sociale ».
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Commento by Gian Gabriele Benedetti — 4 Settembre 2008 @ 16:11
Analisi limpida ed esaustiva sulla storia e sull’evoluzione della nostra lingua. Analisi che non mi può trovare che d’accordo completamente. Tuttavia io continuo a sostenere che la nostra lingua spesso, nel nostro tempo, viene mal usata, sia per quanto riguarda l’utilizzo dei vocaboli sia per quanto concerne la sua struttura logico-sintattica. Dicevo, in un precedente commento, della quasi totale scomparsa dell’uso del congiuntivo e della pronuncia errata di certe parole. Aggiungo ora l’uso non di rado sbagliato del pronome relativo e della consecutio temporum. La colpa? Di molti: la scuola, che, forse, vuol dar troppo ai nostri ragazzi, senza approfondire adeguatamente l’essenziale (vedi la grammatica); la televisione, dove, tra l’altro, si parla spessissimo con l’inflessione romanesca (sabbato, subbito, ecc.); i giornali, che usano una prosa involuta, a volte scorretta, con una terminologia non sempre adeguata; i nostri grandi scrittori, che pensano più ai critici che ai loro lettori e forniscono sovente opere pressoché inaccessibili alla massa. E si potrebbe continuare. Il dibattito è aperto
Gian Gabriele Benedetti