LETTERATURA: I MAESTRI: Cronache anticipate: Le voci del passato17 Luglio 2018 di Ercole Patti Fu un lavoro lunghissimo che si protrasse per parecchi anni ma alla fine il cervello elettronico capace di recuperare le voci che si udirono una volta, anche molti anni pri ma, arrivò in porto; ancora aveva bisogno di molti per fezionamenti ma già con la sua acutissima sensibilità, lanciato al massimo della sua potenza, avvertiva qualcosa; erano suo ni indistinti fra i quali se ne cominciava a distinguere qual cuno che aveva l’inflessione di una sillaba. Il criterio che aveva spinto gli scienziati a ideare quella macchina era quello che i suoni e le parole pronunciati una volta, non importa quando, non si estinguevano: qualcosa di essi come un eco remo ta e non più percepibile da orecchio umano rimaneva so spesa nell’aria per moltissimo tempo. L’atmosfera intorno a noi, sostenevano gli scienzia ti, è piena di queste parole pronunziate tanto tempo pri ma che rimangono in vita per secoli forse eternamente; sol tanto la eccezionale sensibili tà di una macchina elettronica sarebbe stata capace di av vertirle ancora. Da lì era nata l’invenzione. * I primi esperimenti furono emozionanti. Piazzata in as soluto silenzio in una vecchia stanza la macchina aveva da to segni di vita, le sue mem brane avevano cominciato a vibrare, si erano uditi suoni confusi e remoti. Un giorno la macchina fu fatta funzionare in una cam pagna deserta; si udì abbastan za netto un canto di uccello e siccome intorno regnava il si lenzio più profondo si capì che quel canto veniva dal passato ed era rimasto sospeso sulla campagna chissà per quanto tempo. Un’altra volta nel salone ab bandonato di un castello in rovina fra borbottìi e sibili si udì un no cavernoso ma chia ro seguito da altri suoni inaf ferrabili; era il primo mono sillabo che la macchina era riuscita a recuperare. Ancora queste sillabe erano troppo indistinte perché se ne potesse subito decifrare la lingua e quindi stabilire con qualche approssimazione l’epoca nella quale erano state pronunziate e pos sibilmente da chi. L’idea che tutte le parole dette nel corso dei secoli e dei millenni rimanessero vive nel l’aria aveva creato sulle prime grossi problemi. Come distri carsi fra quella enorme massa di suoni e parole che si acca vallavano nell’etere e per di stinguere fra essi qualche fra se intera che riuscisse a veni re avanti da sola da quel pas seraio millenario e tuttavia si lenziosissimo? Poi una sco perta alleggerì le preoccupa zioni degli studiosi: le parole e i suoni uscivano di volta in volta isolati e mai confusi agli altri; quando una di esse giun gendo a una giusta sintonia con la macchina elettronica superava tutte le altre veniva avanti da sola. Ma questa su premazia di una frase non era fissa, al contrario era suscet tibile di continui cambiamen ti a seconda che la terrifican te sensibilità della macchina si metteva in sintonia con altri suoni spostandosi in un senso o nell’altro, secondo la posi zione assunta dal suono nell’etere in quell’istante. Quello che contava però era che non avvenivano mai riproduzioni confuse; la frase o la parola che veniva a fuoco in quel momento si riudiva isolata senza sottofondi sono ri come se fosse stata l’unica ad essere pronunziata. Que sto dava la possibilità di fru gare nell’etere fra rumori e parole morte come uno che affondasse una grossa calami ta in una montagna di cian frusaglie per estrarne i pez zettini metallici che veniva no ripescati attaccandosi alle branche magnetiche della ca lamita. * Quando fui ammesso ad as sistere a qualcuno degli espe rimenti che gli scienziati fa cevano ormai da diversi anni, la macchina era già a buon punto; non captava frasi e nemmeno parole complete ma i suoni e le sillabe non lascia vano dubbi sulla loro origine umana. Io assistetti a un esperimen to fatto su una collina della campagna toscana. La mac china con le sue cellule fatte in forma di occhioni sporgenti, le sue antenne, braccia e gambette sottili, aveva l’aspetto di una grossa aragosta verde; da un piccolo imbuto coperto da una retina di plastica uscivano i suoni. Fra lunghe pause silenziose a tratti da quell’imbuto usciva un grido umano, una parola, i colpi di una dop pietta, una cannonata di qual che guerra di indipendenza al ternati a certe parole guttu rali misteriose che alcuni glot tologi giudicarono pronunzia te verso il 1500; e accanto a queste parole ne venivano fuo ri altre assai più recenti ma in massima parte risalenti a qualche centinaio di anni pri ma. Una importante scoperta fu che le parole non si cancel lavano col passare degli anni o meglio si affievolivano po chissimo; non c’era molta dif ferenza infatti fra le frasi giu dicate del 1300 e quelle rac colte nei dintorni di Mosca che si accertò risalivano agli eserciti napoleonici. La macchina cambiava di sintonia con la massima ra pidità; dal fischio della frec cia di un arciere medievale passava con un impercettibile movimento a un recente grido dialettale toscano che a occhio e croce non poteva es sere di molto anteriore al l’epoca dei bozzetti di Renato Fucini. * Fui io, quando gli scienziati mi ammisero ad assistere ai loro esperimenti, a chiedere che si portasse la macchina al palazzo Leopardi a Recanati. Gli scienziati, che stavano fa cendo esperimenti nella zona, acconsentirono. Era una gri gia mattinata di febbraio, fa ceva freddo; il palazzo dei conti Leopardi era chiuso. Sistemammo la macchina in un angolo del giardino. Il pater no giardino. Speravo di riuscire a sentire la voce di Giacomo ma non mi facevo molte illusioni sapendo che soltanto un gros so colpo di fortuna avrebbe potuto riportare fra tanti al tri suoni la voce del poeta; a parte la grande difficoltà, quando ben bene si fosse udi ta una voce, di riuscire a sta bilire con certezza che era pro prio quella di Giacomo. La macchina accanto al pa lazzo Leopardi dette suoni in distinti misti a rozzi accenti contadineschi, il latrato di un cane e una fucilata che dal suono chioccio sembrava quel la di uno schioppo ad avancarica. Per farmi piacere gli scien ziati frugarono l’etere ancora; suoni e mezze parole usciva no velocemente dal piccolo imbuto. Si udì un colpo di tosse, un fischio, un’altra voce contadi nesca, il canto di un merlo e ad un tratto un nitido richia mo che sembrava giungere dall’alto: « Giacomo ». Era una voce d’uomo dall’infles sione aristocratica che ripeté: « Giacomo vieni su ». Il cuore mi saltò in gola. Monaldo? Chissà perché quel la voce severa e un po’ tron fia aveva tutta l’aria di esse re proprio la voce del conte Monaldo. Ci fu un lungo silenzio. La macchina frugava con un ron zio accanito; di colpo si sentì una vocetta esile come filtrata attraverso un foglio di carta velina che mi diede un lungo brivido nella schiena: « Ho sentito papà ». Non c’era dubbio, non po teva che essere la voce di Gia como Leopardi che risponde va dal giardino; il seguito del la frase venne sopraffatto dal canto di un gallo. Frugammo ancora disperatamente per tutta la mattinata nell’etere e più tardi piazzam mo la macchina sotto la targa di marmo con la scritta « Col le dell’infinito » ma non riu scimmo a captare più nulla oltre a una parolaccia scurri le in dialetto umbro gridata probabilmente da un contadi no, che a giudizio degli stu diosi risaliva al 1821.
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