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LETTERATURA: I MAESTRI: Cronache anticipate: Le voci del passato

17 Luglio 2018

di Ercole Patti
[dal “Corriere della Sera”, mercoledì 23 aprile 1969]

Fu un lavoro lunghissimo che si protrasse per parecchi anni ma alla fine il cervello elettronico capace di recuperare le voci che si udirono una volta, anche molti anni pri ­ma, arrivò in porto; ancora aveva bisogno di molti per ­fezionamenti ma già con la sua acutissima sensibilità, lanciato al massimo della sua potenza, avvertiva qualcosa; erano suo ­ni indistinti fra i quali se ne cominciava a distinguere qual ­cuno che aveva l’inflessione di una sillaba.

Il criterio che aveva spinto gli scienziati a ideare quella macchina era quello che i suoni e le parole pronunciati una volta, non importa quando, non si estinguevano: qualcosa di essi come un eco remo ­ta e non più percepibile da orecchio umano rimaneva so ­spesa nell’aria per moltissimo tempo. L’atmosfera intorno a noi, sostenevano gli scienzia ­ti, è piena di queste parole pronunziate tanto tempo pri ­ma che rimangono in vita per secoli forse eternamente; sol ­tanto la eccezionale sensibili ­tà di una macchina elettronica sarebbe stata capace di av ­vertirle ancora. Da lì era nata l’invenzione.

*

I primi esperimenti furono emozionanti. Piazzata in as ­soluto silenzio in una vecchia stanza la macchina aveva da ­to segni di vita, le sue mem ­brane avevano cominciato a vibrare, si erano uditi suoni confusi e remoti.

Un giorno la macchina fu fatta funzionare in una cam ­pagna deserta; si udì abbastan ­za netto un canto di uccello e siccome intorno regnava il si ­lenzio più profondo si capì che quel canto veniva dal passato ed era rimasto sospeso sulla campagna chissà per quanto tempo.

Un’altra volta nel salone ab ­bandonato di un castello in rovina fra borbottìi e sibili si udì un no cavernoso ma chia ­ro seguito da altri suoni inaf ­ferrabili; era il primo mono ­sillabo che la macchina era riuscita a recuperare. Ancora queste sillabe erano troppo indistinte perché se ne potesse subito decifrare la lingua e quindi stabilire con qualche approssimazione l’epoca nella quale erano state pronunziate e pos ­sibilmente da chi.

L’idea che tutte le parole dette nel corso dei secoli e dei millenni rimanessero vive nel ­l’aria aveva creato sulle prime grossi problemi. Come distri ­carsi fra quella enorme massa di suoni e parole che si acca ­vallavano nell’etere e per di ­stinguere fra essi qualche fra ­se intera che riuscisse a veni ­re avanti da sola da quel pas ­seraio millenario e tuttavia si ­lenziosissimo? Poi una sco ­perta alleggerì le preoccupa ­zioni degli studiosi: le parole e i suoni uscivano di volta in volta isolati e mai confusi agli altri; quando una di esse giun ­gendo a una giusta sintonia con la macchina elettronica superava tutte le altre veniva avanti da sola. Ma questa su ­premazia di una frase non era fissa, al contrario era suscet ­tibile di continui cambiamen ­ti a seconda che la terrifican ­te sensibilità della macchina si metteva in sintonia con altri suoni spostandosi in un senso o nell’altro, secondo la posi ­zione assunta dal suono nell’etere in quell’istante.

Quello che contava però era che non avvenivano mai riproduzioni confuse; la frase o la parola che veniva a fuoco in quel momento si riudiva isolata senza sottofondi sono ­ri come se fosse stata l’unica ad essere pronunziata. Que ­sto dava la possibilità di fru ­gare nell’etere fra rumori e parole morte come uno che affondasse una grossa calami ­ta in una montagna di cian ­frusaglie per estrarne i pez ­zettini metallici che veniva ­no ripescati attaccandosi alle branche magnetiche della ca ­lamita.

*

Quando fui ammesso ad as ­sistere a qualcuno degli espe ­rimenti che gli scienziati fa ­cevano ormai da diversi anni, la macchina era già a buon punto; non captava frasi e nemmeno parole complete ma i suoni e le sillabe non lascia ­vano dubbi sulla loro origine umana.

Io assistetti a un esperimen ­to fatto su una collina della campagna toscana. La mac ­china con le sue cellule fatte in forma di occhioni sporgenti, le sue antenne, braccia e gambette sottili, aveva l’aspetto di una grossa aragosta verde; da un piccolo imbuto coperto da una retina di plastica uscivano i suoni.

Fra lunghe pause silenziose a tratti da quell’imbuto usciva un grido umano, una parola, i colpi di una dop ­pietta, una cannonata di qual ­che guerra di indipendenza al ­ternati a certe parole guttu ­rali misteriose che alcuni glot ­tologi giudicarono pronunzia ­te verso il 1500; e accanto a queste parole ne venivano fuo ­ri altre assai più recenti ma in massima parte risalenti a qualche centinaio di anni pri ­ma.

Una importante scoperta fu che le parole non si cancel ­lavano col passare degli anni o meglio si affievolivano po ­chissimo; non c’era molta dif ­ferenza infatti fra le frasi giu ­dicate del 1300 e quelle rac ­colte nei dintorni di Mosca che si accertò risalivano agli eserciti napoleonici.

La macchina cambiava di sintonia con la massima ra ­pidità; dal fischio della frec ­cia di un arciere medievale passava con un impercettibile movimento a un recente grido dialettale toscano che a occhio e croce non poteva es ­sere di molto anteriore al ­l’epoca dei bozzetti di Renato Fucini.

*

Fui io, quando gli scienziati mi ammisero ad assistere ai loro esperimenti, a chiedere che si portasse la macchina al palazzo Leopardi a Recanati.

Gli scienziati, che stavano fa ­cendo esperimenti nella zona, acconsentirono. Era una gri ­gia mattinata di febbraio, fa ­ceva freddo; il palazzo dei conti Leopardi era chiuso. Sistemammo la macchina in un angolo del giardino. Il pater ­no giardino.

Speravo di riuscire a sentire ­la voce di Giacomo ma non mi facevo molte illusioni sapendo che soltanto un gros ­so colpo di fortuna avrebbe potuto riportare fra tanti al ­tri suoni la voce del poeta; a parte la grande difficoltà, quando ben bene si fosse udi ­ta una voce, di riuscire a sta ­bilire con certezza che era pro ­prio quella di Giacomo.

La macchina accanto al pa ­lazzo Leopardi dette suoni in ­distinti misti a rozzi accenti contadineschi, il latrato di un cane e una fucilata che dal suono chioccio sembrava quel ­la di uno schioppo ad avancarica.

Per farmi piacere gli scien ­ziati frugarono l’etere ancora; suoni e mezze parole usciva ­no velocemente dal piccolo imbuto.

Si udì un colpo di tosse, un fischio, un’altra voce contadi ­nesca, il canto di un merlo e ad un tratto un nitido richia ­mo che sembrava giungere dall’alto: « Giacomo ». Era una voce d’uomo dall’infles ­sione aristocratica che ripeté: « Giacomo vieni su ».

Il cuore mi saltò in gola. Monaldo? Chissà perché quel ­la voce severa e un po’ tron ­fia aveva tutta l’aria di esse ­re proprio la voce del conte Monaldo.

Ci fu un lungo silenzio. La macchina frugava con un ron ­zio accanito; di colpo si sentì una vocetta esile come filtrata attraverso un foglio di carta ­velina che mi diede un lungo brivido nella schiena: « Ho sentito papà ».

Non c’era dubbio, non po ­teva che essere la voce di Gia ­como Leopardi che risponde ­va dal giardino; il seguito del ­la frase venne sopraffatto dal canto di un gallo.

Frugammo ancora disperatamente per tutta la mattinata nell’etere e più tardi piazzam ­mo la macchina sotto la targa di marmo con la scritta « Col ­le dell’infinito » ma non riu ­scimmo a captare più nulla oltre a una parolaccia scurri ­le in dialetto umbro gridata probabilmente da un contadi ­no, che a giudizio degli stu ­diosi risaliva al 1821.

 

 


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Bart