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LETTERATURA: I MAESTRI: Diario Napoletano

21 Agosto 2018

di Domenico Rea
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 24 febbraio 1969]

UN POPOLO. â— Quanto ai lamenti e ai lamentatori noi napoletani siamo degli specialisti. Nessuno più di noi ha il coraggio di confessare i propri errori. Battiamo i russi, che discendono da Dostojewski (che trovò nei na ­poletani i suoi primi tradut ­tori). Nessuno più di noi sa individuare l’anello mancante nella storia del costume della nostra città. Facciamo questo da secoli e a tutti i livelli so ­ciali, giacché uno stesso ico ­nico seme ci ha generati. Le stesse autorità e le persone responsabili si lamentano del ­l’andamento della cosa pubblica. Ma, allo stesso tempo simili a personaggi biblici, a Giobbe per esempio, la lamentazione è fine a se stessa, è un’abitudine, una libidine sci ­roccale, una costante morbosa del nostro carattere.

OROLOGI. â— I lettori di un quotidiano, noto per la sua austerità, sono rimasti viva ­mente sorpresi ieri nel leggere una curiosa notizia, pubbli ­cata con notevole risalto. Essa riguarda gli orologi stradali e la tetragona impassibilità a registrare il tempo. Alcuni di essi, forse in fase sperimenta ­le, scrive il giornale, segnano le cinque meno dieci da alme ­no cento anni e, senza volere, né parere, si sono portati al livello dell’orologio più pre ­stigioso del mondo.

Tra qualche mese infatti su un grattacielo di Nuova York sarà installato un orologio atomico capace di una carica del ­la durata di due secoli. Gli orologi napoletani possono fa ­re a meno anche della carica pluricentenaria. Ciò non deve meravigliare perché si tratta di un prodigio tutto napole ­tano. I nostri orologi hanno semplicemente superato il tem ­po e per due volte al giorno, alle cinque meno dieci all’al ­ba e al tramonto, risultano di una estrema precisione. Un minuto dopo, è vero, alle cinque meno nove minuti, so ­no già in ritardo, ma a dodici   ore di distanza toccano di nuovo il sommo della preci ­sione. La differenza tra l’oro ­logio americano a carica ato ­mica e quelli napoletani a ca ­rica naturale consiste in un solo particolare: l’orologio nuovaiorchese è preciso per 1440 minuti al giorno per ap ­pena due secoli e i nostri per due minuti, ma per l’eternità.

DON CICCIO E LA GUARDIA. â— Ogni mattina, da anni, in una zona di Mergellina arriva un vecchio er ­bivendolo, amante del buon vino, con un carretto carico di frutta e verdura e in com ­pagnia di un cane randagio mezzo spelacchiato ma di una straziante umanità. L’erbiven ­dolo leva il tendone che rico ­pre come un sacco l’intero corpo del carrettino e aspet ­ta i clienti, che vengono nu ­merosi perché in quella zona, ritenuta panoramica, turistica e di lusso, non è stato mai permesso ad alcuno di aprire uno spaccio di frutta e ver ­dura. Più spesso però e prima dei clienti arriva il vigile ur ­bano col bollettario per ele ­vare a don Ciccio una norma ­le contravvenzione di posteg ­gio abusivo. E dice all’erbi ­vendolo: « Ma quante volte vi debbo dire che a questo posto non ci potete stare? ». Don Ciccio non risponde. Si limita a pagare con un certo affanno. Srotola da misteriose, profondissime saccocce ban ­conote avvizzite che sembra ­no ducati. La scena richiama gente, che se compiange don Ciccio comprende anche il vi ­gile. Pagata la multa e rifat ­tasi la calma, l’erbivendolo può ritornare tranquillo alla opera sua, non soltanto per il giorno in corso, ma per un mese e anche due. Il vigile ha capito che don Ciccio non saprà mai brigare per ottenere il regolare (e impossibile) per ­messo e che in definitiva il suo spaccio ambulante risponde a un reale bisogno degli abi ­tanti del rione. La storia dura da due lustri.

FURORE. â— Aspetto qual ­cuno davanti l’entrata del Mu ­seo Pignatelli Aragona Cortes alla riviera di Chiaia e, com’è naturale, mi diverto a guar ­dare il passeggio. Ne sono in ­vogliato anche dalla giornata ottobrina, tiepida di sole e da ­gli oggetti â— gli alberi della villa comunale dirimpetto, fili della rete tranviaria, gli smalti dei distributori di ben ­zina â— stagliati nella luce con un netto risalto. Ma la mia contemplazione è interrotta. Mi si avvicina un uomo di mezza età, con un vestito di buon taglio, troppo grande per lui, due scarpe un po’ alla Charlot, ma sane e lustre. Si intende, vuole qualcosa e io distrattamente gli do qualco ­sa. Ma lui mi si piazza di fron ­te e mi dice di essere uscito di fresco dal manicomio, di essere stato pazzo furioso, non uno qualsiasi, ora tranquillo e che il vestito che indossa gliel’ha dato l’avvocato, che a mezzogiorno fa colazione con pane e qualcosa, mentre la sera mangia un piatto caldo accompagnato da buon vino, perché si sa trattare e si sa ­prebbe trattare ancor meglio e che tutto sommato non è affatto scontento perché la giornata corre, sulle duemila lire al giorno, perché lui ci sa fare, è una persona dabbene, stato una volta, ah, una volta furioso, ma che ora si sa guardare il cliente, lo sa rispettare e tutti gli vogliono bene e chi gli dà il vestito, chi le scarpe, chi le calze e anche qualche maglia pesante e qualche cravatta, perché lui non fa lo schizzinoso, accetta tutto e ringrazia onestamente, disciplinatamente, senza fare discussioni, senza andare per il sottile, senza superbia, modesto, onesto, educato, da signore, gran signore com’è nato e cresciuto. Confidenze non richieste e quasi non ascoltate sul punto di precipitare in confessioni indicibili. E come lui, tanti.

IL PRODIGIO. â— Da una decina di giorni a questa parte la cronaca ha registrato una media di quasi un crollo al giorno. Per grazia di Dio si è trattato di crolli bianchi, senza vittime. E soltanto in base a questa loro caratteristica ci permettiamo qualche battuta di spirito.

Il signor Zero, la moglie e quattro figli dormivano in una sola stanza, pacificamen ­te e saporitamente, quando sono stati svegliati di sopras ­salto storditi da un terribile boato. Levatisi tutti e sei a mezzo il letto e fregandosi gli occhi si sono guardati in ­torno senza venire a capo dell’origine e del perché del ­l’insolito rumore. La stanza era quella loro di sempre: il letto matrimoniale al centro, quattro lettini dei quattro figli sui quattro lati e il sof ­fitto, quello solito, dipinto ad angeli intenti a pizzicare cor ­de di mandolini.

A questo punto il signor Zero ha detto ai familiari:

– Ragazzi, si sarà trattato di qualche grossa botta di Na ­tale. Se ne sparano di già nei vichi. Riprendiamo a dormi ­re â—. E poiché tutti avevano una gran voglia di farlo, sta ­vano per ritirarsi di nuovo sotto le coperte quando dalla strada si sono levati gridi e pianti.

Il signor Zero e i suoi fi ­glioli si sono lanciati in ter ­ra, indi verso il balcone, ac ­colti da esplosioni di meravi ­glia e di gioia.

– Siete vivi? â— ha chie ­sto il capo dei pompieri.

– E perché dovremmo es ­sere morti? â— ha risposto il signor Zero.

– Allora non vi siete ac ­corti di nulla?

– Ma di che cosa avrem ­mo dovuto accorgerci?

– Che siete caduti dal quinto al quarto piano…

Proprio così. Il pavimento della camera da letto della famiglia Zero si era staccato tutto d’un pezzo, precipitan ­do di un grado sul piano sot ­tostante, come lungo la scala di un termometro. Il soffitto era dunque rimasto quello di sempre di casa Zero, con gli angeli e i mandolini. Fragi ­lità e putrescenza, sonno, stordimento e sorpresa congiurando, hanno reso possibi ­le il prodigio.


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A chi dovesse inviarmi propri libri, non ne assicuro la lettura e la recensione, anche per mancanza di tempo. Così pure vi prego di non invitarmi a convegni o presentazioni di libri. Ho problemi di sordità. Chiedo scusa.
Bart