LETTERATURA: I MAESTRI: Giovanni Guareschi: Un uomo solo
12 Giugno 2008
di Mosca
[dal “Corriere della sera”, martedì 23 luglio 1968] Â
Giovanni Guareschi morì 40 anni fa, il 22 luglio 1968, colpito da infarto cardiaco. Nato il 1 maggio 1908, abbiamo ricordato il centenario della nascita qui, con un articolo di Daniela Marcheschi.
Nino Guareschi, precettore in un collegio e correttore di boz Âze del giornale della sua città natìa, «La Gazzetta di Par Âma », venne al  « Bertoldo » nel novembre del 1936. L’anno dopo, in aprile, ne era il redat Âtore capo. Mosca e Metz, i due direttori, avevano forse, allora, più estro di lui, ma c’era bi Âsogno, in un giornale fatto di gente troppo estrosa, di qual Âcuno che tenesse le redini e si rendesse garante presso l’edito Âre Rizzoli dell’uscita nel gior Âno stabilito.
Il giovanotto venuto da Par Âma, anzi da quel gruppetto di venti case che si chiama Fontanelle che l’aveva visto nasce Âre il primo maggio del 1908 non aveva soltanto il bernocco Âlo della precisione e dell’organizzazione. Era un umorista nato, forse con meno immagi Ânazione e fantasia di qualcu Âno dei suoi compagni di lavo Âro, anzi fin troppo coi piedi piantati in terra, un umorismo solido, da contadino, che come una vanga andava a fondo, fi Âno alle radici.
Si rivelò ben presto in Gua Âreschi il genio d’una satira non scintillante e, in fondo, bona Âria come quella alla Pasquino, ma la dura, la opaca, la osti Ânata di chi ha nel sangue la terra monotona e i cieli sem Âpre uguali della «bassa ». Gua Âreschi la travestì di fantasia solo durante gli anni del «Bertoldo », quando bisognava par Âlar per allusioni, scrivere tra le righe, ma la gente intese e avvertì, il «Bertoldo » fu una piccola bandiera ch’ebbe il torto, per molti, di non essere che una bandiera borghese.
Ma gli anni d’oro di Guare Âschi dovevano ancora venire. Cominciarono nel ’46, quando l’antico precettorino di Parma. fresco reduce da un campo di concentramento in Polonia, e direttore di «Candido », si bat Âté per la monarchia con mag Âgior impegno e più vivo ardo Âre che non un monarchico. Guareschi non amava troppo i re, suo padre, socialista, gli ave Âva insegnato a detestarli. Ma in prigione il simbolo di quel Âla magnifica resistenza che ave Âva avuto nel baffuto tenente il suo capo era stato il biglietto, ricordate?, da dieci lire con la effigie del re. Non uno dei se Âgreti possessori del talismano che abbia collaborato coi tede Âschi. Al tempo del referendum, perciò, Guareschi, socialista e repubblicano nel sangue, si bat Âté generosamente e coraggiosa Âmente per il figlio di quel re la cui immagine, ridotta a brandelli, aveva conservato. Ve Ânimmo sconfitti, ma deve mo Ârire tutta la generazione dei lettori del primo «Candido » perché si spenga il ricordo di una vignetta di prima pagina raffigurante Umberto II che parte in esilio accompagnato, come da un volo di rondini, dal biancheggiare di dieci milioni di schede.
Due anni dopo, la battaglia per la difesa della libertà . Que Âsta non venne perduta, e alla vittoria del 18 aprile gli scrit Âti e i disegni di Guareschi non furono certo estranei. Ve ne fu uno, quello dello scheletro del soldato morto in un cam Âpo di concentramento sovieti Âco che invita la madre a vo Âtare per lui contro i comunisti, che non procurò certo pochi voti alla Democrazia cristiana.
Si accusa oggi Guareschi di una satira troppo «cattiva », troppo faziosa. Ricorderete i suoi «Trinariciuti ». Ma non era davvero, quello, tempo di discussioni sulla «delimitazione della maggioranza ». Perdere significava, per Roma, fare la fine di Budapest e di Praga. Perciò, poco più tardi, parve strano, o almeno incoerente, che nel «Don Camillo », una raccolta di racconti apparsi nello stesso «Candido » i pro Âtagonisti fossero un prete e un comunista che, pur avversari irriducibili, finivano, in fondo in fondo, con l’andare d’accordo. Fu un successo mon Âdiale. Cinque milioni di copie. Traduzioni in più di venti lingue.
L’incoerenza era tutta appa Ârente. A parte il fatto che Peppone e Don Camillo anti Âcipano il dialogo e la repubbli Âca conciliare, Guareschi, pas Âsato il momento rovente della polemica, s’abbandona a una sua seconda natura, non meno schietta di quella satirica: la natura paesana, le venti case di Fontanelle, quei buoni bic Âchieri di fortana, un vinello leggero che non dà alle gambe ma al cuore, così che ogni volta, puntuale, a far fare la pace a Peppone e a Don Camillo compare De Amicis.
Forse, per una più lunga e serena vita del «Candido » sa Ârebbe stata utile a Guareschi la compagnia di chi, pur delle sue stesse idee, lo avesse indot Âto, quando dopo i trionfi ven Ânero le amarezze, a contenere quella sua polemica giornalisti Âca che moltiplicando ogni giorno i suoi bersagli finì col venire esercitata non solo contro i comunisti, ma contro tutti, e con la stessa acrimonia.
Cominciano qui gli anni in cui Guareschi, perduti i veri amici, e certo mal consigliato, va forse oltre i propri limiti e conduce in buona fede cam Âpagne sbagliate che lo porta Âno, come è noto a tutti, alla querela mossagli da De Gasperi (e che tanto rattristò lo statista insigne) e alla condanna a un anno di prigione. E qui l’uomo di parte, e qui il grande giornalista caduto in peccato di faziosità si riscatta rifiutandosi di interporre ap Âpello e scontando intera la condanna.
L’unica supplica che mosse fu di venir chiuso in una pri Âgione stando alle cui sbar Âre si potesse respirar l’aria e sentir le voci della sua Parma.
Tredici anni fa. Fu allora che Guareschi cominciò a mo Ârire. Uscì dalla prigione deluso, amareggiato, cosciente di aver preso la strada sbagliata, ma continuò a inoltrarvisi e a battersi così come s’era battuto per quella vecchia imma Âgine a brandelli nascosta co Âme un tesoro nella fodera del Âla giubba da ufficiale.
Nel ’57 lasciò la direzione del «Candido », del quale rimase collaboratore. Malato, continuò a scrivere e a disegnare anche in altri giornali, ma s’era or Âmai andato così chiudendo in se stesso che altri affetti non gli erano rimasti se non quelli della famiglia, la moglie Ennia, la figlia Carlotta – pro Âtagonista d’uno dei suoi più bei libri – il figlio Alberto.
Ora c’era anche un nipotino, Michele, ma il cuore del nonno che aveva tanto palpitato di entusiasmi e di ideali, di gene Ârosi impulsi e d’aspri rancori non gli poté dare che i pochi battiti rimasti, le ultime te Ânerezze.
E per gli antichi amici non palpitò mai? Sono certo che, gli ultimi anni di Guareschi non furono privi di rimpianti e di nostalgie, quando, ricordi Guareschi?, ci leggevamo scam Âbievolmente ciò che andavamo scrivendo, e tu un giorno mi chiedesti: «Cosa dici? È il caso ch’io raccolga o no in volume i racconti di Don Camillo? Sinceramente. Se mi dici di no, lascio stare ».
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[…] Bartolomeo Di Monaco: […]
Commento by xander brut — 10 Marzo 2009 @ 02:46
Un bel ricordo di Guareschi, però non concordo su alcuni passaggi. Guareschi non è stato malconsigliato da nessuno: le battalgie contro De Gasperi ed Einaudi furono ponderate e condotte lucidamente fino al carcere.
Un grave errore è considerarlo anticipatore di compromessi storici: Guareschi è sempre stato monarchico, anntifascista e anticomunista. Combatté sempre l’alleanza fra Dc e Psi, a cui contrapponeva un’intesa Dc-Pli-Msi-Monarchici.
Anche in campo religioso, si schierò contro l’apertura del progressismo conciliare verso i marxisti.
Il fatto che Peppone sia amico di don Camillo rientra nella sua visione cristiana della vita, ma certo mai avrebbe voluto un governo Dc-Pci
Commento by Ettore — 24 Agosto 2009 @ 18:42
Non mi sembra un bel ricordo di Giovannino Guareschi. Innanzitutto non volle anticipare un bel niente, anzi, il compromesso storico gli avrebbe causato un travaso di bile, se fosse stato vivo. Il fatto che Don Camillo e Peppone dialogassero con toni amichevoli (dopo essersi scontrati su ciò che conta dvvero) è un capolavoro: innanzitutto c’è la distinzione tra Errore ed Errante, tutta cristiana e riconducibile al Concilio di Trento e a Pio XII, ma soprattutto è l’esempio lampante di cosa deve essere veramente il dialogo. Deve essere aperto, anche aspro e polemico, e deve partire dagli aspetti fondamentali, in cui ciascuno deve portare ciò in cui crede, senza sminuirlo o cedere nulla di sè, altro che le burlette odierne del “Guardiamo a ciò che ci unisce e non a quello che ci divide”, metodo che da anni conduce ai risultati che si leggono sui gionali, cioè al nulla.
Mi piacerebbe sorvolare sulla questione De Gasperi, ma non si può. L'”insigne statista” esce dalla questione ampiamente ridimensionato, mentre Guareschi ne viene fuori come un gigante. Innanzituto non fu mal consigliato da nessuno, se mai la macchina italica si mise in moto in modo furibondo per il suo avversario, cucinando un processo e una condanna vergognosi. Fu condannato perchè l’altro diceva che le lettere erano false, incredibile: uno querela per diffamazione e sulla base del suo nome ha ragione in partenza, bella giustizia… Non ci fu un solo controllo delle lettere stesse, nè furono sentiti i testimoni. Rifiutò l’appello, dove era già pronta un’assoluzione che avrebbe lavato la coscinza di qualcuno, perchè riteneva ingiusta una sentenza che non dimostra nulla, nè in un senso nè nell’altro, tanto è vero che i sostenitori del politico si affannano ancora oggi a dire che fu dimostrata chiaramente la falsità delle lettere. Quanta mancanza di carità cristiana, da parte di De Gasperi (quando commentò sprezzante che poteva andare in galera anche Guareschi come lo aveva fatto lui, e non si accorgeva forse che paragonava questa detenzione alla sua sotto il fascismo, e perciò ingiusta!, senza neppure un briciolo di gratitudine per chi più di tutti col proprio lavoro lo aveva messo nella “stanza dei bottoni” alle elezioni del ’48). Dire che uscì di galera conscio di aver preso la strada sbagliata è una balla, la stessa che scrisse di proposito Enzo Biagi. Non è vero che Guareschi ammise di avre sbagliato, egli in coscienza rimase sempre convinto di aver ragione. Del resto non vedo proprio come sia così impossibile che avesse ragione, quanto a pelo sullo stomaco De Gasperi non doveva star male… ad ogni modo è indimostrabile sia l’una che l’altra cosa. L’unica cosa certa è che egli scrisse che gli dispiacque della morte dell’avversario, che riteneva un gigante. “Inchiniamoci ai voleri del Padreterno” scrisse, ribadendo la propria retta coscienza e buona fede. L’altro invece disse “Questo processo non l’abbiamo fatto per vendetta”. Fatto? Ma i processi li fa il querelante o la Magistratura? Un bel lapsus, direi. Se devo proprio scegliere nella disputa, scelgo la sportività e la carità cristiana dell’Uomo, rispetto all’inutile e tracotante infierire del politicante su chi ha perso perchè doveva perdere.
Infine una puntualizzazione, mi dà fastidio che gli articolisti non si documentino più di tanto….
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 24 Agosto 2009 @ 19:05
Ho scelto dal mio archivio questo articolo di Mosca, che fu un grande giornalista del Corsera.
Grazie dei vostri interventi, molto ampi.