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LETTERATURA: I MAESTRI: Il vecchio Armstrong

5 Novembre 2011

di Mosca

[dal “Corriere della Sera”, lunedì 11 agosto 1969]

Siamo nel 2000. Neil Armstrong, quasi settantenne, non vive più a Houston. Da parec ­chi anni ha lasciatola NASAed è tornato a Wapakoneta, suo paese natale, nell’Ohio. Il gran fiume dalle rive folte di querce, di platani e di faggi non scorre lontano, e il vec ­chio Neil passa le ore a pesca ­re o a cercare di pescar quelle trote così visibili per l’ac ­qua straordinariamente limpi ­da, ma, per i loro fulminei guizzi, così inafferrabili. Janet, che non ha mai voluto tingersi i capelli, ed è tutta bianca, viene a portare la colazione, la consumano insieme sull’estre ­mo della riva, la bottiglia di birra tenuta nell’acqua.

Sono rimasti soli. Erik e Mark lavorano a Nuova York, hanno dato a Neil e Janet un nipote ciascuno, lo hanno chiamato Neil, gli hanno fatto promettere che suo figlio si chiamerà Neil, e la promessa verrà imposta di generazione in generazione così da perpe ­tuare il nome dell’uomo che per primo, il 20 luglio 1969, mise piede sulla Luna.

Vengono a Wapakoneta una volta l’anno, a Natale. Wapakoneta è un nome indiano. Qui i pellirosse si opposero più ostinatamente che altrove all’invasione dei bianchi. Sca ­vando nei campi di grano e di tabacco che intorno al pae ­se si stendono a perdita d’oc ­chio non è difficile trovare gualche povera loro freccia arrugginita.

*

Erik e Mark sono stati anch’essi sulla Luna. Niente di eroico, ci sono andati con le mogli, dieci anni fa, la setti ­mana di Pasqua, con l’Apol ­lo 150, capaci di centocin ­quanta passeggeri, un viaggio ormai sicuro, ma un po’ noio ­so, l’unico divertimento quel galleggiare in aria per la man ­canza della forza di gravità, ma alla lunga ci si annoia, e i più si legano alla poltrona, danno un’occhiata alla Terra sempre più lontana, e s’addor ­mentano.

All’arrivo, il fastidio della pesante tuta, ma l’attrazione è debole, si spiccano salti al ­tissimi e si ricade con grande lentezza, come trattenuti da un paracadute invisibile. La passeggiata non dura che mez ­z’ora, poi s’entra in uno dei tanti enormi emisferi dissemi ­nati sul suolo lunare, pieni d’aria normale continuamente rinnovata e congiunti fra di essi da treni su monorotaia. In poche ore si può veder tutto quel che si vuole, ma da vedere c’è poco: crateri, cra ­teri, crateri, qualche montagna insopportabile agli occhi per l’abbacinante riflesso del sole, e un senso d’abbandono, di so ­litudine, di morte che niente riesce a rompere, tanto meno gli spogliarelli negli emisferi adibiti a night, i quali, anzi, ne raddoppiano lo sgomento.

Il punto del Mare della Tranquillità dove trentun an ­ni or sono Neil discese con Aldrin è stato lasciato tal qua ­le, chiuso da un recinto, se ­veramente vietato l’accesso perché le orme dei due astro ­nauti non vengano calpestate e cancellate. Rimarranno in eterno. Le zampe del Lem, la camera televisiva, la bandiera americana scintillano e conti ­nueranno a scintillare al sole. Per la mancanza d’aria, nien ­te s’arrugginisce e si consuma.

Erik e Mark hanno visto le orme del padre, ma senza par ­ticolare commozione, anzi è stato sgradevole. Qualche cosa di astratto, di innaturale. Da noi, dopo trent’anni, il vento avrebbe tutto disperso, e la terra, generando erbe ed al ­beri, tutto rinnovato. Niente, da noi, di più fuggevole e di più labile che un’orma, e que ­sto è la vita.

E’ per ciò, forse, che Neil non è mai voluto tornare, sen ­za che Janet, privata, così, dell’occasione di vedere anche leila Luna, si sia rammari ­cata. Le piace di più guar ­darla col marito, la sera, quan ­do tornano dal fiume, e guar ­darla come la si guardava un tempo, quando ancora non c’era stato nessuno.

Nel 1994, ricordi, Neil?, ce ne volle per resistere alle pre ­ghiere, quasi agli ordini del presidente degli Stati Uniti. Come!, ricorre il venticinque ­simo anniversario dell’impre ­sa, e Armstrong, che ha la fortuna d’essere ancora in ot ­tima salute, non partecipa, las ­sù, alla celebrazione. Tutti i capi di Stato, tutti i più fa ­mosi scienziati, tutti i grandi scrittori, c’è anche il vecchio Von Braun. E Armstrong perché si è ostinato a rimanere a Wapakoneta. Gli piace di più andare in cerca di frecce indiane?

*

No, semplicemente non ha nessuna voglia di andare a vedere una Luna che non è più la sua, quegli emisferi, quei treni, quei nights che l’hanno trasformata, guastata, resa irriconoscibile. Preferisce conser ­vare il ricordo della notte di un certo ormai lontano 20 di luglio, quando, discesi nove dei gradini della scaletta, si fermò sull’ultimo e, il cuore stretto da uno sgomento che mai uomo prima di lui aveva privato, esitò a lungo prima di posare il piede sul mistero d’un suolo sconosciuto. E’ a quello sgomento che s’è affe ­zionato e se lo tiene dentro più accuratamente che non un piacere, più gelosamente che non una felicità.

L’incanto ormai è rotto, la gente va e viene, gli stessi Erik e Mark, in gita con le loro mogli, quella prima cau ­ta, timorosa, trepidante im ­pronta rimasta stampata ai piedi della scaletta non guar ­darono indifferenti?

Neil non tornerà mai las ­sù. L’impronta rimane viva e vera solo stampata nel ricordo.

A Natale, famiglia al com ­pleto, con tre Neil. La casa è nel cuore di Wapakoneta, il giardino, un albero tutto illu ­minato, rara la neve, l’Ohio è così largo che fa da mare, senza contare i laghi di Cleve ­land e di Cincinnati. Quest’anno l’aria è così tiepida che nella sala da pranzo una finestra è stata lasciata aperta, niente montagne all’orizzonte, l’Ohio è tutto una pianura, un cielo senza limiti, e, in mezzo, la più grande e più ri ­lucente delle lune, qual è il Mare della Tranquillità?, quel ­lo lì, senza un rilievo, perciò senza un’ombra. Un lago d’oro. E l’impronta?

Dopo lo champagne, a non ­no Neil, d’ordinario parla po ­co, s’è sciolta la lingua. « Quando vedo il Mare della Tranquillità… ». Ci siamo, ri ­comincia. Una delle nuore vol ­ge il viso dall’altra parte per non farsi veder ridere. L’altra, Mary, riesce a mantenersi se ­ria, e finge attenzione. Il so ­lito, inevitabile racconto di Natale. I figli si seccano. Janet li guarda come per dire: « Co ­sa volete farci? Ha settant’an ­ni, s’è un po’ fissato ».

« Quando vedo il Mare del ­la Tranquillità ricordo il mo ­mento in cui, scesa la scalet ­ta, dovevo mettere il piede in terra e non ardivo. Quanto tempo rimasi, Janet, col piede in aria? ».

« Dieci, quindici secondi ».

« Di più, molto di più. Al ­meno un minuto. Capite perché? Perché avevo paura. Ca ­pisci, Mark, che significa toc ­care una cosa che in tutta la storia del mondo non era mai stata toccata? Non so se ca ­pisci ».

« Che cosa? ».

« Te l’ho detto. Toccare una cosa che in tutta la storia del mondo… ».

« Sì, e poi, anche quando eri sulla Luna con tutti e due i piedi… ».

« … non ti decidevi a stac ­carti dal Lem, l’unica cosa nel ­la quale avevi fiducia, era co ­me un prolungamento della Terra, ti sembrava la tua ca ­sa ».

« Come lo sai? ».

« Ce l’hai detto cento volte, papà ».

« Scusate, avete ragione. Vorrei, però, che lo capissero anche i ragazzi ».

« L’hanno capito, papà ».

« Forse non così bene come vorrei. Dove sono i due pic ­coli Neil? Neil! Neil! ».

Sono in giardino, intorno all’albero illuminato.

« Neil, Neil, vi chiama il nonno ».

« Per dirci del Lem? ».

« Neil, Neil, rientrate per un attimo, dategli questa soddi ­sfazione ».

Non rientrano. I ragazzi so ­no crudeli. Tutti in giardino, ora. Il vecchio Neil è rimasto solo. I lumi dell’albero si sono spenti.

« Forse è il vento che ha strappato un filo. Ma il nonno è bravissimo. Neil, l’al ­bero è buio ».

Ci pensa lui. Eccolo in giar ­dino, mentre gli altri rientra ­no. Sì, è soltanto un filo, ma prima d’annodarlo rimane a lungo a guardare lassù, quella Luna così lucente, con quella prima trepidante impronta, e tutti dentro, in sala da pran ­zo, zitti, attenti a non far tin ­tinnare i bicchieri.

Nonno Neil, in questo mo ­mento, è pericoloso. Potrebbe ricominciare da capo il rac ­conto.

 


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Bart