LETTERATURA: I MAESTRI: La lezione di Albertini11 Gennaio 2018 di Indro Montanelli Ho conosciuto Luigi Albertini pochi mesi prima della sua morte, a Milano, in casa del comune amico Piero Gadda Conti. Ci andai, ricordo, con una certa trepidazione: final mente stavo per dare un cor po e un volto a un fantasma che non aveva cessato di per seguitarmi da quando, poco più che ragazzo, ero entrato al Corriere. Pochi giorni dopo aver fir mato il contratto che mi le gava al giornale, ero stato convocato in amministrazione da un signore che mi chiese dove usavo prendere i miei pasti. Glielo dissi. Mi rispose che lo sapeva e che mi aveva chiamato appunto per ricor darmi che Albertini non avrebbe mai consentito a un suo redattore di frequentare un locale di quella categoria. Gli obbiettai che il mio sti pendio non era tale da con sentirmene di più dignitosi. E lui mi porse, già compilato, un nuovo contratto a condi zioni più favorevoli, sul quale non c’era la firma di Alberti ni, che già da una quindicina d’anni aveva lasciato l’azienda; ma io ce la vidi ugual mente. Da allora non me l’ero più scrollato di dosso. La sua om bra mi seguiva implacabile. Non si stancavano di evocarla quelli della sua « vecchia guardia » per accampare un titolo di supremazia su noi giovani. Essi non dicevano che i nostri articoli erano brutti. Dicevano che « ai tempi di Albertini non sarebbero pas sati ». Ricordo la tremenda battaglia che dovetti ingaggia re per il col. Il revisore me lo correggeva regolarmente in con il perché, diceva, Alber tini il col non lo avrebbe tol lerato. E non vi dico cosa suc cedeva quando qualche lettore smentiva un nostro dato o notizia. Per settimane il fantasma di Albertini ci appariva in sogno, svegliando di soprassalto e in sudore, per indicarci col dito la porta. Fui quindi commosso fin quasi alle lacrime, quel giorno, quando dalla voce viva e vera di Albertini udii degli apprezzamenti su certe mie corrispondenze, dai quali capii che esse sarebbero passate anche ai suoi tempi. Il vecchio si gnore che mi stava di fronte somigliava ben poco al cerbe ro grintoso e scontroso, dagli atteggiamenti scostanti e dai giudizi taglienti, che avevo im maginato dalle descrizioni dei suoi epigoni. Lo trovai fer missimo nella condanna del regime, ma per nulla rancoroso, misoneista e arroccato nei suoi ricordi, anzi molto ag giornato su uomini e cose, pa cato e amabile. Insomma, mol to più umano della sua leg genda. E ora la giustezza di questa impressione mi viene confer mata dal suo monumentale Epistolario che, per cura e con un’eccellente prefazione di Ot tavio Bariè, l’editore Monda dori sta per pubblicare. Esso abbraccia il periodo 1911- 1926, cioè gli « anni ruggenti » della guerra, dell’impresa di Fiume, della marcia su Roma. E forse rappresenta la deposi zione più completa e credibile su quegli avvenimenti e i lo ro retroscena, perché resa da un uomo che vi ebbe parte di protagonista, ma non tanto da infirmare la sua qualità di te stimone. * Albertini era allora direttore e comproprietario del Corrie re. Era arrivato a quella catte dra, la più alta del giornali smo italiano, nel 1900, che non aveva ancora trent’anni. Veniva da una solida famiglia di «notabili » marchigiani, e forse il segreto della sua stra ordinaria carriera sta nel trauma ch’egli subì da ragazzo quando il banco di suo padre e di suo zio â— industriali e armatori molto accreditati ad Ancona â— dovette dichiarare fallimento. Oggi queste sono disavventure che non tolgono il sonno e l’appetito a nessu no, tanto sono consuete. A quei tempi provocavano tra gedie. I due Albertini, dopo aver versato nelle tasche dei creditori fin l’ultima palanca, ne morirono di crepacuore. E Luigi, da figlio di papà avvia to alla continuazione di una florida azienda, si trovò di colpo, a vent’anni, orfano, po vero e con la madre e cinque tra fratelli e sorelle sulle spalle. Aveva frequentato sin allo ra il collegio militare e i corsi di Legge all’Università di Bo logna. Trasferì i suoi a To rino probabilmente per sot trarli alle umiliazioni e meschinerie che i piccoli ambienti provinciali infliggono a chi cade di rango. E lì, non senza parecchie difficoltà, terminò i suoi studi. Non aveva scelto una strada. Aveva soltanto deciso, come scrisse a Nitti, di raggiungere «una eminente posizione prima dei trent’anni »: una posizione, in tendeva che gli consentisse di restituire alla sua famiglia non solo il conto in banca, ma anche il credito e il prestigio di un tempo. E a questo im pegno non solo si consacrò, ma esigette che si consacras sero anche i suoi fratelli e sorelle. Li protesse, li spinse, ma li tenne anche ai remi per ché a loro volta spingessero la barca e contribuissero solidal mente, e senza deviazionismi, a restituire alla ditta l’antico lustro. Anche il suo rigoroso moralismo trovò forse il pro prio concime in questo ane lito di rivalsa. Albertini aveva del suo nome lo stesso con cetto, quasi metafisico, che i Mitsuhi e i du Pont hanno di quello loro. Nel giornalismo capitò qua si per caso, grazie a un viag gio che fece a Londra per ap profondirvi i suoi studi eco nomico-sociali. La Gazzetta Piemontese â— che poi con Frassati diventò La Stampa â— gli commissionò alcune corri spondenze, in cui Luigi Luzzatti annusò subito un grosso talento. Lo chiamò a dirigere una piccola rivista, Credito e Cooperazione, e poi lo racco mandò a Torelli Viollier, fon datore e direttore del Corriere della Sera. * Il Corriere era un quoti diano già abbastanza solido, ma che non aveva ancora con quistato un primato neanche sul piano cittadino, dove do veva vedersela con la Perse veranza e col Secolo. Alber tini ci entrò come segretario di redazione: un posto che può essere importante o tra scurabile secondo chi lo oc cupa. Con Albertini diventò importantissimo, un centro â— come oggi si direbbe â— di potere decisionale. Quando il Torelli si ritirò per ragioni di salute, la dire zione passò a Oliva, che la esercitò soltanto a mezzo. Sta va quasi sempre a Roma, di dove si limitava a dettare, con le sue corrispondenze, l’atteg giamento politico del giornale. Era un atteggiamento che Al bertini non condivideva, tro vandolo eccessivamente con servatore e chiuso ai fermenti sociali che già in quella fine di secolo cominciavano ad agitare le acque italiane. Va rie volte egli aveva corretto le « note » di Oliva, provo candone le reazioni. L’inciden te che precipitò la rottura av venne il 18 maggio del 1900, quando Albertini si assunse la responsabilità di pubblicare un editoriale del redattore-capo Banzatti, che contraddiceva alla « linea » Oliva. Ci sono, su questo episodio, varie versioni. Qualcuno dice che fu un colpo di mano ar chitettato da Albertini d’ac cordo col maggior azionista del giornale, Benigno Crespi, per far fuori l’Oliva, legato agli altri due proprietari, De Angeli e Beltrami. Ma dalle lettere che poi i cinque inte ressati si scambiarono non ri sulta nulla di tutto questo. Ri sulta solo che il Crespi condi videva più le idee del segre tario che quelle del direttore, e gli riconosceva superiori ta lenti editoriali. Può darsi che Albertini si fosse deciso a quella prova di forza anche perché sentiva di avere dalla sua l’azionista più forte. Ma il contrasto veniva proprio da una diversa concezione poli tica e imprenditoriale, e l’in cidente affrettò un cambio del la guardia che prima o poi sarebbe ugualmente venuto e che â— nessuno potrà metterlo in dubbio â— fece la fortuna del giornale. Albertini non ne mutò sol tanto l’orientamento. Ne tra sformò radicalmente le strut ture sul modello del Times, che aveva studiato nel suo viaggio a Londra. Era un mo dello più facile da sognare che da realizzare in un giornali smo come quello italiano, pro vinciale e ciabattone, fatto di rumorosi « mattatori » che re citavano i loro « a solo » in un pattume di errori di stam pa (e spesso anche di sintas si) e di notizie arretrate o sballate. * Albertini fu il primo a con cepire e a dirigere il giornale come un’orchestra. Non si con tentò di chiamarvi le penne migliori da Einaudi a Gaetano Mosca a Ojetti a Villari a Barzini a Amendola. Ne cavò una sinfonìa. E fu proprio in questo che si rivelò grande editore. In pochi anni il Cor riere diventò non il primo, ma l’unico quotidiano italiano da potersi allineare con i tre o quattro di più alto livello europeo: non solo per l’auto revolezza delle firme, ma an che per la ricchezza, l’esattez za e la tempestività delle in formazioni. Si diceva che se il Corriere annunziava la par tenza di un treno per le dodici mentre l’orario ferroviario la dava alle undici, i milanesi andavano alla stazione a mez zogiorno meno un quarto (e il treno non lo perdevano). L’Epistolario documenta la straordinaria ascesa del gior nale e l’influenza ch’esso eser citava sulla politica, a tutti i livelli. Leggendolo, mi sono chiesto dove i suoi collabora tori e corrispondenti trovava no il tempo di scrivere articoli con tutte le lettere che dovevano mandare al loro direttore per informarlo di tutto ciò che dovevano tacere al pub blico perché frutto di confi denze ch’essi non potevano tradire. Ne vengono fuori par ticolari ignorati, o poco cono sciuti, di politica interna ed estera, episodi curiosi, aned doti, battute, quadri di costu me dell’Italia e dell’Europa di quel primo quarto di secolo; ma anche il ritratto di una équipe giornalistica che, per quanto composta di persona lità discordi e prepotenti, era però unita da una rigorosa co scienza professionale e da un orgoglioso spirito di « scu deria ». Il creatore di tutto questo si rivela nelle lettere che a sua volta scriveva ai suoi uo mini. Perché a tutti risponde va ringraziando o contestan do, impartendo ordini o dan do suggerimenti e consigli. E proprio qui si vede quanto egli fosse diverso e migliore della leggenda che gli epigoni gli avevano creato intorno di cerbero digrignante, di puri tano inflessibile e arcigno. Valutandoli col senno del poi, non ci sentiamo di condi videre tutti i suoi atteggia menti politici: la sua tenace ostilità a Giolitti, per esem pio, e la campagna per l’in tervento in guerra. Ma anche questi errori (se tali furono: e chi lo sa?) erano riscattati da un nobile assoluto disinte resse. Da Giolitti dissentiva non solo per motivi ideologici, ma anche morali. Più che la sua azione, riprovava i suoi metodi, la sua tendenza a sfruttare le debolezze altrui più che a castigarle e correg gerle, la sua disponibilità al compromesso con una realtà italiana, la quale forse non consentiva che il compromes so. I due uomini non potevano intendersi, erano di diversa fa miglia. Albertini apparteneva a quella, intransigente e spi golosa, dei Ricasoli e dei Sonnino. Il suo rigore tuttavia non era puntiglio, e lo si vede dai suoi rapporti coi collaborato ri. Ne esigeva la totale dedi zione al lavoro, l’esemplare correttezza nella condotta pro fessionale e privata. Ma le ri pagava, e talvolta sapeva es sere anche indulgente. Quan do uno dei suoi più illustri re dattori prese una famosa cotta per una certa signora già ac casata, e tutta Milano ne par lò, Albertini lo spedì per un anno in Giappone, che a quei tempi era la luna o poco me no. Ma quando il poveraccio gli tornò più innamorato di prima, si rassegnò allo « scan dalo » sebbene questo lo fa cesse visibilmente soffrire. * Un altro curioso episodio, di cui nell’Epistolario non c’è traccia, ma che dimostra l’u manità e anche il sense of hu mour del severo editore, l’ho sentito raccontare dai vecchi del Corriere, ed ebbe a prota gonista Guelfo Civinini, il più bislacco, balzano e estroso componente dell’équipe. Lo era a tal punto che un giorno si presentò a Albertini e gli disse: « Signor direttore, mi guardi. Come vede, sono brut to. E siccome sono anche sca polo, le donne le devo pagare, perché per amore con me non ci vengono ». Albertini fu tal mente sbigottito da quell’inso lito linguaggio che non trovò la forza di obbiettare che non era vero nulla: Civinini era brutto, sì, ma affascinante, e di donne ne aveva a bizzeffe. « Questo â— continuò lo scon sigliato â— pone un problema amministrativo. Io a Milano ho un’amica in pianta stabile, che mi costa, e questo è affar mio. Ma quando il giornale mi manda in missione all’este ro, delle due, l’una: o mi con sente di portarmi dietro l’ami ca pagando la diaria anche a lei, o mi dà un soprappiù per i surrogati che devo procu rarmi ». L’Albertini della leggenda avrebbe replicato a una pro posta così sfrontata con un li cenziamento in tronco. Quel lo vero, dopo lunga medita zione, rispose: «Riconosco che la sua tesi ha un certo fonda mento. Ma questo soprappiù, nella nota-spese, come lo elen chiamo? Non possiamo mica mettere… ». « Ci ho già pen sato â— rispose trionfalmente Civinini. â— Bisogna inventa re una nuova voce. Per esem pio, l’uomo non è di legno, li re…. tot…. ». Albertini accet tò. Ma una volta, riguardando un conto di Guelfo, si accorse che l’uomo non era di legno anche due volte al giorno. Ci scrisse sotto: « Ma nemmeno di ferro », e smise di pagare. La comprensione di Alber tini per i suoi collaboratori non si limitava alle loro pic cole veniali debolezze. Si tra duceva anche in affettuosa sollecitudine per i loro più gravi problemi materiali e mo rali, e in rispetto per le loro idee, anche quando contraddi cevano alle sue. Il carteggio con Emanuel, suo corrispon dente da Parigi subito dopo l’altra guerra, testimonia l’al tissima coscienza liberale di questo editore, che passava per un despota, e forse in qualcosa lo era, ma non si per metteva di alterare il pensiero del suo fiduciario, pur dissen tendone (e aveva ragione lui). Quando Albertini lasciò il Corriere nel 1925, per impo sizione di Mussolini, l’addio al giornale dovett’essere il giorno più nero, l’episodio più amaro nella vita di quest’uomo tut tora nel pieno delle sue ener gie: non aveva che cinquan taquattro anni. Il coraggio e la fermezza con cui affrontò questo terribile passo fanno di lui, oggi, la più alta pietra di paragone del giornalismo ita liano. L’Epistolario si ferma a que sta data. Ed è giusto, perché da allora tutto non fu, per lui, che un dopo, anche se durò fino al ’41. L’uomo si era to talmente incarnato nella sua creatura. Ma anche la sua creatura era talmente incarna ta in lui che non è più riu scita a liberarsene. Tutti gli uomini della sua équipe sono scomparsi. Sulla sua poltrona si sono dati il cambio una doz zina di direttori. Della vecchia sede non è rimasto che l’indi rizzo. Ambienti, mobili, at trezzature: tutto è mutato. Ma l’ombra d’Albertini è sempre lì. Anche se non ha più la forza di suggerire ciò che si deve fare, ha tuttora quella di ricordare ciò che non si deve fare. Letto 1125 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||