LETTERATURA: I MAESTRI: La morte secondo Guareschi
5 Dicembre 2018
di Giovannino Guareschi
(da “La scoperta di Milano)
Non vi pare che immaginare la morte così sia troppo bello? Non so perché, ma in qualche modo mi ha fatto ricordare Sgrooge di Dickens. Bdm
In fondo non è niente; è un po’ come quando ci si fa strappare un dente. Un dolore breve e acuto, poi un senso di leggerezza enorme, di benessere infinito. Appena uscito ho sospirato con soddisfazione:
«Il più è fatto ». Poi ho guardato con interesse l’altro me stesso.
L’industria degli specchi ha raggiunto un grado di perfezio ne tecnica veramente ammirevole, ma altro è vedere il proprio viso riflesso in un cristallo, altro è vederlo direttamente.
Il fatto di poter camminare per terra o per aria a mio pia cimento e di potermi fermare dove meglio mi piaceva, mi ha agevolato non poco nelle mie osservazioni.
Così mi sono spiegato finalmente il perché del mio singolare successo con le persone di alta statura e il mio non meno singo lare insuccesso con le persone di bassa statura.
Il mio viso, visto dall’alto, era veramente piacevole; visto dal basso, a causa degli zigomi sporgenti e del collo troppo grasso, aveva qualcosa di grossolano.
Ho notato inoltre, e questo con molto orgoglio, una gran de compostezza nel mio contegno: occhi chiusi senza sforzo apparente, gambe e braccia in buona positura, sorriso sulle labbra.
Sembrava che dormissi sognando cose piacevoli. Sono rimasto presto solo con me stesso; il dottore e l’infermiera se ne sono andati subito:
«Tanto non scappa » ha detto il dottore. E questo mi ha fatto molto ridere.
Me ne sono andato anch’io: non che io abbia paura, ma perché non trovo divertente lo spettacolo di un uomo che se ne sta coricato nel suo letto, immobile, senza guardare, senza parlare, senza sentire e senza respirare.
Appena sul ballatoio non ho potuto resistere. Erano anni e anni che io sognavo questo e cento volte mi ero affacciato sulla tromba delle scale: ma poi, speciali considerazioni sulla legge di gravità mi avevano fatto rinunciare al progetto.
Ma oramai la legge di gravità non esiste più per me.
Mi sono buttato giù in picchiata dal quarto piano. Un volo magnifico, allucinante. Arrivato a un palmo da terra mi sono portato in posizione orizzontale, bruscamente, ho infilato a trecento all’ora il portone, sono passato attraverso un autotreno fermo in mezzo alla strada, poi, con una superba impennata, mi sono portato d’un balzo fino al sesto piano abbandonandomi e ritornando giù a foglia morta.
Ho passato un pomeriggio meraviglioso.
Mi buttavo contro le macchine in corsa, mi sdraiavo sulle rotaie del tram quando le vetture sopraggiungevano, mi facevo passar sopra le ruote degli autobus.
Mi sono seduto in testa a un vigile, sono entrato in una scatola di sardine, nell’orologio a polso di una ragazza.
Poi sono andato in ufficio. Il principale, sdraiato nella sua grossa poltrona, dormiva: gli ho ballato sul panciotto.
All’ufficio sapevano già. Parlavano di quote per acquisto di fiori. Il signor direttore diceva che, in fondo, bastava che uno solo andasse l’indomani in rappresentanza di tutti gli altri.
Poi il mio collega più intimo ha asserito che il testo del telegramma da mandare alla mia famiglia era pronto. Il signor direttore l’ha letto ad alta voce e ha cancellato una parola:
«I telegrammi sono telegrammi » ha asserito. «Altrimenti non si chiamerebbero così e non costerebbero un tanto alla parola. »
Mi sono divertito in modo eccezionale. Infatti, a un tratto, la segretaria, aprendo un cassetto della mia scrivania, ha lanciato un grido. Tutti sono accorsi, e il signor direttore, con mani tremanti, ha tirato fuori dal cassetto una quantità enorme di lettere:
«Erano due anni che non sbrigava la corrispondenza! Degli espressi ancora da aprire! Una comunicazione importante usata come nettapenne! ».
Erano diventati tutti pallidi: chi di loro sarebbe stato costretto a rimettere in ordine quell’inferno?
«Cancellate tutto! » ha urlato il signor direttore brandendo la minuta del telegramma. «Basta la parola “condoglianze” e il nome della ditta! Anche troppo! »
Mi sono messo a cavalcioni sulle sue spalle, ridendo con enorme allegria.
Mi sono buttato in picchiata dalla finestra e ho cominciato a volteggiare sui tetti.
Ho incontrato un collega. Polmonite. Stava salendo e gli ho detto che non c’era premura. Lasciano quarantott’ore di tempo prima di presentarsi. Ognuno ha le sue piccole cose da sistemare sulla terra.
Abbiamo cominciato a parlare del più e del meno. Era un signore anzianotto, molto serio. Si è discusso un po’ di politica.
«Io vado subito » ha esclamato d’un tratto. «Voglio proprio sentire cosa si dice lassù. »
Sono rimasto solo. Oramai era venuta la sera e ho passeggiato a lungo nei paraggi di casa mia. Poi mi sono deciso e ho dormito fuori su un’antenna della radio.
Forse Margherita e il suo mascalzoncello erano ritornati dalla campagna, e io non posso assistere a scene di dolore.
A mezzanotte si è alzata la luna e mi ha svegliato. Per un momento ho pensato di salire fin lassù a vedere cosa c’era e cosa non c’era.
Invece sono arrivato fino a casa mia: ma non sono entrato. Ho origliato alla finestra della camera da letto.
Meno male: Margherita piangeva piano, così il bambino poteva dormire.
*
Un’altra notte sono stato a casa mia. Sono entrato nel mio studio e ho visto con grande piacere che tutto era in ordine. La macchina per scrivere era ancora aperta e ho pestato con un dito su un tasto.
Strano: quando passo attraverso i tram non mi fa nessuna impressione, ma se tocco col dito i tasti della mia macchina e vedo che non si muovono mi fa un certo effetto.
Sul tavolo stanno i miei fogli di appunti: ci sono tante cose rimaste in sospeso delle quali adesso vedo chiara la soluzione. Ma è inutile che io cerchi di sollevare il lapis.
Mi seggo sulla mia poltrona, guardo i miei libri, poi mi alzo e comincio, come ho fatto per tanti anni, a passeggiare in su e in giù.
Debbo pensare. Bisogna che pensi una bella trama di sogno per il mio bambino. Il mio bambino lo voglio educare come pare a me e non permetto a nessuno di impicciarsi nei suoi sogni. L’ultimo che ho fatto per lui mancava un po’ nel finale.
Dovrei pensarne anche uno per Margherita. Ma come si fa? Non ho il coraggio di presentarmi alla dolce signora della mia ex vita. Ho ancora la timidezza dei novizi.
Ho pensato un bel sogno, adatto a un ragazzo di prima elementare, poi ho sentito voci nella stanza da letto.
Il bambino stava addormentandosi e Margherita gli ricordava:
«La preghiera per il tuo papà ».
Il bambino ha cominciato a bisbigliare… E io mi sono seccato. Benedetta donna, lascialo dormire, quel bambino!
*
Sono andato a vedere come fa il mio bambino a scuola. Sono entrato che la lezione era già cominciata.
La maestra stava dettando:
«A… IA… U… IU… E… IE… ».
I bambini erano curvi, aggrappati al quaderno e alla penna e lavoravano con fatica.
L’ho visto subito, il mio mascalzoncello: era là in fondo a sinistra, vicino alla finestra.
Mi sono messo dietro le sue spalle. Povero bricconcello, lottava con tutto: con la carta, con la cannuccia, con la penna, con l’inchiostro.
Io non capisco: i bambini scrivono con la mano destra, ma si sporcano d’inchiostro, oltre alla destra, la sinistra, la fronte e il naso; come faranno?
Sono andato a guardare nei quaderni di tutti i venticinque scolari: ci dovevano essere parecchi ripetenti perché un bambino che per la prima volta fa la prima elementare non può scrivere meglio del mio. Sono andato a controllare nel registro e non c’era segnato neppure un ripetente. Si vede allora che hanno le maestre private in casa.
Non tutti possono concedersi certi lussi. C’è chi è ricco e c’è chi è povero, c’è chi ha il babbo e chi non lo ha più. Le maestre dovrebbero tener conto di tutte queste cose.
Finita la dettatura la maestra comincia a interrogare. Va alla cattedra uno che conta fino a dieci con sicurezza. Deve essere il solito sgobbone. Chi sarà il secondo? Mi sembra di essere tornato ai tempi dell’esame di quinta ginnasiale: “Brucio”, come dicevamo allora.
II secondo chiamato alla cattedra è proprio il mio bambino. Maestra, trattalo bene o io stanotte ti apparirò in sogno vestito da leone.
«Due più quattro? » chiede la maestra. E il mio bambino la guarda impaurito.
Comincio a fremere e ad agitarmi: due più quattro! Ma è buon senso domandare cose di questo genere a un bambino grosso come un coniglietto? Ma chi è che li fa questi programmi?
Il mio bambino lavora con le dita. E troppo difficile, buon Dio!
«Guai a chi suggerisce! » avverte la maestra severamente.
E io invece vorrei urlare:
«Sei! Sei! Sei! ».
Ma non posso, perché io sono aria, sono niente, passo attraverso i tram e nessuno mi vede, mi seggo sulla testa dei vigili e nessuno se ne accorge; canto, grido e nessuno può sentirmi: io posso dormire sulla punta di uno spillo e mi avanza posto.
Ma il mio bambino lavora con le dita disperatamente e il suo labbro inferiore minaccia tempesta. Se non sa rispondere forse lo metteranno in castigo.
«Sei! Sei! Sei! » urlo disperato.
«Sei » risponde il mio bambino.
«Chi ha suggerito? » chiede severa la maestra.
Ha sentito anche lei, lì a due passi. Ma siccome non crede ai miracoli, sorride:
«Bravo ».
*
Ho riaccompagnato a casa il mio bambino: lungo la strada raccontava a sua madre che la signora maestra gli aveva detto bravo. E io mi buttavo a capofitto contro i tram, poi mi impennavo, salivo a fulmine fino al settimo piano, poi venivo giù in picchiata vertiginosamente, e, a un palmo dal suolo, mi raddrizzavo, facevo tre volteggi attorno a un signore grasso, risalivo fino all’altezza di un decimo piano e, abbandonandomi, venivo giù a foglia morta.
Margherita, la dolce Margherita, guardava nel cielo sorridendo e i suoi occhi neri dicevano:
“Giovannino, Giovannino!…”.
Il che è bello e istruttivo.
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