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LETTERATURA: I MAESTRI: L’usignolo e i ranocchi

7 Agosto 2018

di Camillo Pellizzi
[dal “Corriere della Sera”, 5 maggio 1969]

«Dava moglie la Rana al suo figliolo. / Or con la pace vostra, o raganelle, / il suon lo chiese ad un cantar del bro ­lo. / Egli cantò: la cobbola giuliva / parve un picchierel ­lar trito di stelle / nel ciel di sera, che ne tintinniva. / Le campagne addolcì quel tintin ­nio / e i neri boschi fumi ­ganti d’oro… ».

Non è del costume lettera ­rio corrente e rappresentativo (rappresentativo di che?) ci ­tare il Pascoli. « Fa maestri ­na ». Ma ci sono ancora le maestrine? Ho incontrato re ­centemente qualche gruppo di insegnanti elementari. Sospet ­to che vent’anni di TV, cin ­quanta di cinema e non so quanti di fumetti abbiano fat ­to assai minor guasto in cer ­te categorie di persone di quanto non si sarebbe pensato. Le ragazze erano « sveg ­lie », come si suol dire, e bal ­lavano lo shake non peggio, credo, della principessa d’Inghilterra; il che è da appro ­vare senza fìsime, perché non si possono affidare le più gio ­vani generazioni alle mani di personaggi anchilosati in at ­teggiamenti che stridano con una tollerabile medianità del costume vivente. Fa piacere tuttavia riconoscere che l’Ita ­lia ha qualche volta le virtù dei suoi difetti: provinciale e torpida e «vecchia » in troppe cose â— molto nella cultura, parecchio nell’economia, abis ­salmente nella politica â— non perde completamente un suo buon senso terragno, rozzo ma aderente al reale, appoggiato a valori difficili da ribaltare perché hanno il loro centro di gravità vicino a terra.

Pascoli non lo si cita più â— dicevo â— e di ciò si danno anche motivazioni non convincenti. Per esempio un cri ­tico, recentemente, gli rinfac ­ciava quel «complesso delle sorelle », che sarebbe venuto in piena luce negli ultimi an ­ni, con la pubblicazione di carte e lettere prima scono ­sciute. Lasciamo stare che i « complessi » sono solo una teoria scientifica, e fra tutte le opere e le facoltà dell’uomo non c’è niente di più incostante e mutevole della scienza.   È chiaro che in quelle due brave sorelle il Poeta ave ­va riposto il nòcciolo più in ­timo e doloroso dei suoi ri ­cordi ed affetti, la ferita sem ­pre aperta del bestiale delitto che lo aveva orbato del padre. In ogni caso, se di complessi dobbiamo parlare, chi non ne ­ha? E che c’entra questo col ­la poesia, quando c’è?

Non mi entusiasmano le allitterazioni     in     caratteri     greci che seguono al passo citato nel poemetto Nozze delle Myricae Tiò tiò tiò… / torotorotorotorotix ecc. »). Ma oggidì   si fa   ben   altro   in poesia   e   in tutte le arti; e io penso invece che la massima audacia e novità creativa       si       esprimano sempre nelle forme socialmente più consuete e riconosciute: chi esce di casa col piede sinistro infilato nella scarpa destra cammina scomodo, e   in ogni caso dimostra   di   essere poverissimo di fantasia. Pascoli è un ottimo maestro di poesia a chi     sappia     studiarlo senza imitarlo,   senza   esserne «plagiato »; e nei suoi limiti, sorelle a   parte, fu anche un maestro di « umanità » per gli italiani, ai quali cercò di far sentire, fra l’altro, il mito della «natura », generalmente così dilavato e incerto nell’animo loro.

*

Non è nemmeno che Nozze mi appaia tra le composizioni migliori del Pascoli; ma lo   trovo un buon « pezzo » da commentare. Lo avrebbe for ­se ammesso anche il Croce, che negava al Pascoli la poesia, ma riteneva che certe sue cose potessero valere passabilmente come letture scolastiche; come retorica, insomma. Da tempo sono venuto nella convinzione, a buon conto, che poeti ed artisti validi sono sempre e tutti dei retori potenti, perché nulla forma, persuade e trascina quanto la poesia e l’arte in genere. Non è vera la reciproca, che cioè ogni rètore sia perciò stesso un poeta. Ma insisto che il rètore non-poeta è in ogni ca ­so un omettuzzo da poco, ciò che il Pascoli certo non era.

La retorica è stata l’arte della vita civile repubblicana, l’arte di far intendere il sentimento e il giudizio proprio ai concittadini nelle cose di pubblico rilievo; e ha comin ­ciato a morire sotto il princi ­pato. Aureo principato: nientemeno che quello di Augusto!

Ma fu allora che le declamationes si rifugiarono nelle scuole, e con esse i maestri di retorica. Nelle scuole si stava più riparati dai colpi d’aria e qualche sfoghetto repubblica ­no passava liscio. Così e allora si cominciò a parlare di scolastica, nel primo secolo d. C. Il dibattito   delle idee diventò un’esercitazione       di scuola, e ancora lo è per la totalità di quegli italiani che dibattono idee. Sono avvezzi da venti secoli   a   fare scolastica parlando male della retorica; illudendosi, fra l’altro, che questo sia « fare della politica ».   (E il principato in   Italia, quando non c’è, è segno che è caduto da poco oppure sta per venire, ed è quindi giovevole moderare le declamazioni).

Torniamo al nostro testo.

 

«E’ notte: ancora   in   un albor di neve / sale quest’inno come uno zampillo: / quan ­do la Rana chiede, quanto de ­ve: / se quattro chioccioline, o qualche foglia / d’appio, o voglia     un     mazzuolo     di     serpillo, / o voglia un paio di bachi, o ciò che voglia ». One ­sta   e   ragionevole   preoccupa ­zione, sanamente amministrativa, oserei   dire   « borghese » qualora mi concedessi di usa ­re parole che non significano niente;     ma     il     Rosignolo     del Pascoli è un personaggio problematico,     forse     un     tantino « deviazionista », come parve esserlo   qualche   volta     il     suo Autore: « Oh! Rispos’egli: nul ­la al Rosignolo, / nulla tu de ­vi per le sue cantate: / ei l’ha per nulla e dà per nulla: solo sì l’ascoltate e poi non gra ­cidate ».

Orgoglio di intellettuale! E ricordo     gente     minacciosa     in piazza,   in   quel   primo   dopo ­guerra così lontano e così opportunamente dimenticato, che gridava:   « Abbasso gl’intellettuali! ». Oggi lo può gridare solo qualche agitatore di groupuscules,     qualche     raro     stu ­dente (se pur ve ne siano) che abbia preso un cinque o un diciotto.     La   « linea     del     par ­tito »,     in     ogni     caso,   non     lo consente (ci sarà tempo dopo, semmai…).   Il   Pascoli   sapeva che il suo Rosignolo pronun ­ciava una formula cristiana e socialista     insieme:     il   meglio che ognuno può dare di sé è da Dio, quindi ognuno lo deve dare « per nulla » come lo ha     avuto.     Bene     fin qui.     Senonché     il     Rosignolo     colto     e poeta     non     riesce     a   fermarsi qui;     deve     aggiungere:     « Ora che   avete   ascoltato   me,   non gracidate! ».     Può   essere   poesia, dopo tutto, anche il gra ­cidare delle raganelle nel chia ­rore di un plenilunio agreste. E poi, se non gracida, la rana, deve   star sempre   zitta?   Non basta essere cristiani e socialisti e non serve nemmeno, a questi effetti, esser poeti. Ci vuole anche un briciolo di quella «retorica repubblicana » che si rifugiò nelle scuole al tempo di Augusto.

*

Verso un minimo raggio di sole, in questa primavera tan ­to annuvolata fuori e dentro di noi, il canarino che è sta ­to adottato in casa mia si mette a cantare; e ha otte ­nuto il medesimo effetto la « Sonata in sol maggiore per violino e pianoforte » di Mo ­zart. Alcuni tempi di questa lo hanno lasciato interdetto e silenzioso; i più cantati ed allegri, invece, lo hanno provo ­cato come una sfida, o come se volesse rispondere a un con ­fratello ritrovato nella sua pri ­gionia solitaria. C’è chi affer ­ma che il canarino accompa ­gna Mozart, la cui Sonata per ­ciò, che è stata ripresa su na ­stro, ora è detta dagli amici: « per canarino, pianoforte e violino ». Uno psicologo vor ­rebbe portare la bestiola al suo Istituto, per esperimenti. (Fos ­si matto!…)

Pascoli conclude l’apologo in chiave satirica: « Al lume della luna ogni ranocchia / gracidò: Quanta spocchia! / Quanta spocchia! ». Credo che avesse di mira i suoi cri ­tici, che al solito avevano per ­so un decennio o due prima di riconoscerlo. Ma anche questo apologo, e il canarino solare e musicante, e tante altre esperienze, mi richiamano a pensieri intorno ai quali mi vado arruffando i capelli da almeno un quarto di secolo. Quasi non c’è favola antica, di quelle che ci vengono dalla notte della preistoria, dove non figurino animali che par ­lano. E il totem, anche se Lé ­vi Strauss ne fa una specie di sigla anagrafica dei « primitivi », è comunque, il più delle volte, un animale. Ed è ben vero che gli antichi divoravano gli animali non meno di noi: ma per loro era molte volte un « sacrificio »; per noi. al massimo, è la premessa di una buona digestione.  Né solo questo: ogni cosa significante era « sacra » per l’uomo antico, e i prischi Romani le celebravano nel sa ­crario dei loro « dèi momen ­tanei ». Varrone ebbe la   pazienza di contarne trentamila: tutto un vocabolario!

Mi sembra che anche   il canarino segua la sua liturgia del sole, come, quel pretensioso Chanteclair che Rostand inventò per una mediocre finzione teatrale. Ma non c’è « spocchia » in lui e non ce n’è mai negli animali veri. Il canarino è « impegnato », co ­me l’uomo quando celebra un rito di cui sente la significanza fino ai precordi. Il fisiologo che non trovava « l’anima » nel suo lavoro di laboratorio, l’astronauta che non aveva in ­contrato Dio nel suo volo, avrebbero dovuto ascoltare l’inno al sole del mio picco ­lo ospite pennuto. Ci vuole molto coraggio per essere Uomini e pari umiltà: di quel genere che dimostrava Francesco d’Assisi nel cercare Dio «in basso »; e scrisse il Cantico delle Creature.

 

 


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Bart