LETTERATURA: I MAESTRI: L’usignolo e i ranocchi7 Agosto 2018 di Camillo Pellizzi «Dava moglie la Rana al suo figliolo. / Or con la pace vostra, o raganelle, / il suon lo chiese ad un cantar del bro lo. / Egli cantò: la cobbola giuliva / parve un picchierel lar trito di stelle / nel ciel di sera, che ne tintinniva. / Le campagne addolcì quel tintin nio / e i neri boschi fumi ganti d’oro… ». Non è del costume lettera rio corrente e rappresentativo (rappresentativo di che?) ci tare il Pascoli. « Fa maestri na ». Ma ci sono ancora le maestrine? Ho incontrato re centemente qualche gruppo di insegnanti elementari. Sospet to che vent’anni di TV, cin quanta di cinema e non so quanti di fumetti abbiano fat to assai minor guasto in cer te categorie di persone di quanto non si sarebbe pensato. Le ragazze erano « sveg lie », come si suol dire, e bal lavano lo shake non peggio, credo, della principessa d’Inghilterra; il che è da appro vare senza fìsime, perché non si possono affidare le più gio vani generazioni alle mani di personaggi anchilosati in at teggiamenti che stridano con una tollerabile medianità del costume vivente. Fa piacere tuttavia riconoscere che l’Ita lia ha qualche volta le virtù dei suoi difetti: provinciale e torpida e «vecchia » in troppe cose â— molto nella cultura, parecchio nell’economia, abis salmente nella politica â— non perde completamente un suo buon senso terragno, rozzo ma aderente al reale, appoggiato a valori difficili da ribaltare perché hanno il loro centro di gravità vicino a terra. Pascoli non lo si cita più â— dicevo â— e di ciò si danno anche motivazioni non convincenti. Per esempio un cri tico, recentemente, gli rinfac ciava quel «complesso delle sorelle », che sarebbe venuto in piena luce negli ultimi an ni, con la pubblicazione di carte e lettere prima scono sciute. Lasciamo stare che i « complessi » sono solo una teoria scientifica, e fra tutte le opere e le facoltà dell’uomo non c’è niente di più incostante e mutevole della scienza. È chiaro che in quelle due brave sorelle il Poeta ave va riposto il nòcciolo più in timo e doloroso dei suoi ri cordi ed affetti, la ferita sem pre aperta del bestiale delitto che lo aveva orbato del padre. In ogni caso, se di complessi dobbiamo parlare, chi non ne ha? E che c’entra questo col la poesia, quando c’è? Non mi entusiasmano le allitterazioni in caratteri greci che seguono al passo citato nel poemetto Nozze delle Myricae («Tiò tiò tiò… / torotorotorotorotix ecc. »). Ma oggidì si fa ben altro in poesia e in tutte le arti; e io penso invece che la massima audacia e novità creativa si esprimano sempre nelle forme socialmente più consuete e riconosciute: chi esce di casa col piede sinistro infilato nella scarpa destra cammina scomodo, e in ogni caso dimostra di essere poverissimo di fantasia. Pascoli è un ottimo maestro di poesia a chi sappia studiarlo senza imitarlo, senza esserne «plagiato »; e nei suoi limiti, sorelle a parte, fu anche un maestro di « umanità » per gli italiani, ai quali cercò di far sentire, fra l’altro, il mito della «natura », generalmente così dilavato e incerto nell’animo loro. * Non è nemmeno che Nozze mi appaia tra le composizioni migliori del Pascoli; ma lo trovo un buon « pezzo » da commentare. Lo avrebbe for se ammesso anche il Croce, che negava al Pascoli la poesia, ma riteneva che certe sue cose potessero valere passabilmente come letture scolastiche; come retorica, insomma. Da tempo sono venuto nella convinzione, a buon conto, che poeti ed artisti validi sono sempre e tutti dei retori potenti, perché nulla forma, persuade e trascina quanto la poesia e l’arte in genere. Non è vera la reciproca, che cioè ogni rètore sia perciò stesso un poeta. Ma insisto che il rètore non-poeta è in ogni ca so un omettuzzo da poco, ciò che il Pascoli certo non era. La retorica è stata l’arte della vita civile repubblicana, l’arte di far intendere il sentimento e il giudizio proprio ai concittadini nelle cose di pubblico rilievo; e ha comin ciato a morire sotto il princi pato. Aureo principato: nientemeno che quello di Augusto! Ma fu allora che le declamationes si rifugiarono nelle scuole, e con esse i maestri di retorica. Nelle scuole si stava più riparati dai colpi d’aria e qualche sfoghetto repubblica no passava liscio. Così e allora si cominciò a parlare di scolastica, nel primo secolo d. C. Il dibattito delle idee diventò un’esercitazione di scuola, e ancora lo è per la totalità di quegli italiani che dibattono idee. Sono avvezzi da venti secoli a fare scolastica parlando male della retorica; illudendosi, fra l’altro, che questo sia « fare della politica ». (E il principato in Italia, quando non c’è, è segno che è caduto da poco oppure sta per venire, ed è quindi giovevole moderare le declamazioni). Torniamo al nostro testo.
«E’ notte: ancora in un albor di neve / sale quest’inno come uno zampillo: / quan do la Rana chiede, quanto de ve: / se quattro chioccioline, o qualche foglia / d’appio, o voglia un mazzuolo di serpillo, / o voglia un paio di bachi, o ciò che voglia ». One sta e ragionevole preoccupa zione, sanamente amministrativa, oserei dire « borghese » qualora mi concedessi di usa re parole che non significano niente; ma il Rosignolo del Pascoli è un personaggio problematico, forse un tantino « deviazionista », come parve esserlo qualche volta il suo Autore: « Oh! Rispos’egli: nul la al Rosignolo, / nulla tu de vi per le sue cantate: / ei l’ha per nulla e dà per nulla: solo sì l’ascoltate e poi non gra cidate ». Orgoglio di intellettuale! E ricordo gente minacciosa in piazza, in quel primo dopo guerra così lontano e così opportunamente dimenticato, che gridava: « Abbasso gl’intellettuali! ». Oggi lo può gridare solo qualche agitatore di groupuscules, qualche raro stu dente (se pur ve ne siano) che abbia preso un cinque o un diciotto. La « linea del par tito », in ogni caso, non lo consente (ci sarà tempo dopo, semmai…). Il Pascoli sapeva che il suo Rosignolo pronun ciava una formula cristiana e socialista insieme: il meglio che ognuno può dare di sé è da Dio, quindi ognuno lo deve dare « per nulla » come lo ha avuto. Bene fin qui. Senonché il Rosignolo colto e poeta non riesce a fermarsi qui; deve aggiungere: « Ora che avete ascoltato me, non gracidate! ». Può essere poesia, dopo tutto, anche il gra cidare delle raganelle nel chia rore di un plenilunio agreste. E poi, se non gracida, la rana, deve star sempre zitta? Non basta essere cristiani e socialisti e non serve nemmeno, a questi effetti, esser poeti. Ci vuole anche un briciolo di quella «retorica repubblicana » che si rifugiò nelle scuole al tempo di Augusto. * Verso un minimo raggio di sole, in questa primavera tan to annuvolata fuori e dentro di noi, il canarino che è sta to adottato in casa mia si mette a cantare; e ha otte nuto il medesimo effetto la « Sonata in sol maggiore per violino e pianoforte » di Mo zart. Alcuni tempi di questa lo hanno lasciato interdetto e silenzioso; i più cantati ed allegri, invece, lo hanno provo cato come una sfida, o come se volesse rispondere a un con fratello ritrovato nella sua pri gionia solitaria. C’è chi affer ma che il canarino accompa gna Mozart, la cui Sonata per ciò, che è stata ripresa su na stro, ora è detta dagli amici: « per canarino, pianoforte e violino ». Uno psicologo vor rebbe portare la bestiola al suo Istituto, per esperimenti. (Fos si matto!…) Pascoli conclude l’apologo in chiave satirica: « Al lume della luna ogni ranocchia / gracidò: Quanta spocchia! / Quanta spocchia! ». Credo che avesse di mira i suoi cri tici, che al solito avevano per so un decennio o due prima di riconoscerlo. Ma anche questo apologo, e il canarino solare e musicante, e tante altre esperienze, mi richiamano a pensieri intorno ai quali mi vado arruffando i capelli da almeno un quarto di secolo. Quasi non c’è favola antica, di quelle che ci vengono dalla notte della preistoria, dove non figurino animali che par lano. E il totem, anche se Lé vi Strauss ne fa una specie di sigla anagrafica dei « primitivi », è comunque, il più delle volte, un animale. Ed è ben vero che gli antichi divoravano gli animali non meno di noi: ma per loro era molte volte un « sacrificio »; per noi. al massimo, è la premessa di una buona digestione. Né solo questo: ogni cosa significante era « sacra » per l’uomo antico, e i prischi Romani le celebravano nel sa crario dei loro « dèi momen tanei ». Varrone ebbe la pazienza di contarne trentamila: tutto un vocabolario! Mi sembra che anche il canarino segua la sua liturgia del sole, come, quel pretensioso Chanteclair che Rostand inventò per una mediocre finzione teatrale. Ma non c’è « spocchia » in lui e non ce n’è mai negli animali veri. Il canarino è « impegnato », co me l’uomo quando celebra un rito di cui sente la significanza fino ai precordi. Il fisiologo che non trovava « l’anima » nel suo lavoro di laboratorio, l’astronauta che non aveva in contrato Dio nel suo volo, avrebbero dovuto ascoltare l’inno al sole del mio picco lo ospite pennuto. Ci vuole molto coraggio per essere Uomini e pari umiltà: di quel genere che dimostrava Francesco d’Assisi nel cercare Dio «in basso »; e scrisse il Cantico delle Creature.
Letto 876 volte. Nessun commentoNo comments yet. RSS feed for comments on this post. Sorry, the comment form is closed at this time. | ![]() | ||||||||||