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LETTERATURA: I MAESTRI: Nella dacia di Pasternak

27 Gennaio 2012

di Giovanni Grazzini
[dal “Corriere della Sera”, martedì 19 agosto 1969]

Mosca, agosto.

Oggi andiamo a Peredelki ­no. Venti minuti di treno, il triste cemento di Mosca s’al ­lontana, ecco presto la dolce campagna, un viottolo fra l’erba e s’entra nel regno si ­lente in cui natura e poesia sono sorelle. Qui dorme fra gli alberi Pasternak. Ma qui anche s’esprimono, come in una allegoria sociologica tra ­sfigurata in Arcadia, i modi diversi d’essere scrittore nell’Unione Sovietica di oggi. Peredelkino non è soltanto il villaggio alle porte di Mosca, sparso nella quieta pineta, in cui i cittadini affocati dalla estate vengono a trovare re ­frigerio e a cercar funghi in costume da bagno: è il luogo dove tocchi con mano la politica del regime verso gli intellettuali. L’albergo degli scrittori (« Casa creativa del Fondo letterario », si legge sul cancello) e le dacie date in affitto dall’Unione Scrittori ai più fortunati hanno un po’ l’aria d’un parco nazionale pensato per fornire agli scrit ­tori un romitaggio che subli ­mi il loro distacco dalla folla nell’alta solitudine del profe ­ta autorizzato.

Tre destini

La diffidenza della censura nei confronti degli intellet ­tuali, la paura che un’opera d’arte segnata dal dolore della creazione possa avvelenare l’ottimistico clima ufficiale, proviene dalla sopravvalutazione, compiuta da quarant’anni per motivi strumentali, del ruolo esercitato dallo scrittore nella società. Fra le varie forme liturgiche usate per mitizzare gli « ingegneri delle anime », questa specie di « riserve di caccia », di luo ­ghi deputati in cui gli scrit ­tori hanno il dovere sociale di ricaricarsi la fantasia, svol ­gono appunto la doppia fun ­zione di vezzeggiarli, di pro ­teggere i più giovani dalle noie della coabitazione citta ­dina, e insieme di distanziarli dalla realtà del paese. Spo ­sando in sé il sacerdote e il cortigiano, lo scrittore sovie ­tico considera la dacia un privilegio e un diritto. Invece non è soltanto un segno di prestigio: è anche un anello mondano della catena che lo lega, tanto più forte quanto più sembra una fuga nella pace della campagna.

Ne trovo la riprova, pro ­prio a Peredelkino, nelle di ­verse condizioni di culto che in questo paesaggio di betul ­le, di faggi e di pini, all’appa ­renza così lontano dall’aiuola feroce di Mosca, sono riserva ­te da un lato agli scrittori perfettamente integrati nel sistema, dall’altro alla memoria di quelli tenuti in purga ­torio. Prendo tre nomi, Kata ­iev, Mandelstam, Pasternak, e sento nell’aura che circon ­da loro stessi o le loro famiglie l’eco di tre diversi destini.

Comincio con Valentin Kataiev, anni 72, insignito del- l’Ordine di Lenin, uno dei migliori ingegni narrativi del ­la vecchia generazione, e sia come direttore di Junost fra il ’55 e il ’62 (ha lanciato Evtuscenko) sia come sperimen ­tatore di forme piuttosto lon ­tane dal realismo socialista, uno dei pochi che abbia spar ­so fra i giovani i semi della irriverenza. Ecco, Kataiev mi sembra il simbolo vivente di un mestiere letterario e di una libertà creativa perfettamente corretti dal senso del ­l’opportunità politica. Da quando Kruscev, nel ’63, lo accusò pubblicamente di sba ­dataggine per certe dichiara ­zioni fatte durante un viag ­gio americano, Kataiev si è messo la museruola. Ha pub ­blicato (su Novij Mir) L’er ­ba dell’oblio e II cubo, dove la critica meno benevola ve ­de i segni del contagio for ­malista, e dunque non manca ­no occasioni di discorso: invece si guarda bene dal di ­fendere le sue ragioni con l’ospite straniero. Offre gin inglese e succo d’arancia, par ­la compiaciuto della dacia elegante che si leva in mezzo al bosco, affiancata dall’or ­to, dal pozzo e dal pagliaio (120 rubli al mese d’affitto), ma quando gli chiedo del suo lavoro e dei colleghi si rifu ­gia nel monito ovvio che an ­che Tolstoj e Dostoievski ai loro tempi combatterono con ­tro i conservatori. « Comun ­que â— aggiunge sbrigativo â— lo scrittore ha una sola fun ­zione: lottare per la pace esaltando l’umanismo ». A nul ­la valgono le faticose trattative su una serie di doman ­de, scritte a macchina in dop ­pia copia, alle quali egli da ­rà risposte scritte. Il sospet ­to lo divora. Quando torno nel pomeriggio a ritirarle, di ­rà di averci ripensato: me ­glio non farne nulla, meglio parlare dell’Italia e dei due maggiori scrittori italiani che egli conosce, Alberto Moravia e Gianni Rodari.
Nadiezdha Jakoblevna Mandelstam, invece, come chi non ha nulla da perdere, vuol parlare. La vedova del poeta Mandelstam, morto trent’anni fa in un Lager staliniano, coabita in condizioni penose in una casupola priva d’ac ­qua corrente che non merita neppure il nome di dacia. E tuttavia non si vergogna del ­l’abito sdrucito, della miseria circostante: c’è una certa fie ­rezza nel nobile sorriso di questa vecchia signora in cia ­batte che sembra dimentica ­ta da tutti. « Ormai â— dice fumando furiosamente una sigaretta dopo l’altra e usan ­do per portacenere il coper ­chio d’una scatola da scarpe â— ho perduto la speranza di arrotondare la mia piccola pensione d’insegnante con i diritti d’autore che mi spet ­terebbero come vedova di Mandelstam. Gli italiani che hanno edito recentemente al ­cune opere di mio marito non mi hanno fatto avere una li ­ra. Quanto ai sovietici, si guardano bene dal ristampar ­lo. Forse aspettano il 1972: allora scadranno quindici an ­ni dalla riabilitazione, e tut ­ti saranno liberi di ripubbli ­care quello che vogliono sen ­za pagare i diritti ».

Ma perché, dopo la riabili ­tazione, di tutti i libri di Mandelstam nell’Unione Sovietica è tornato a circolare soltanto il Discorso su Dante? La don ­na sorride, si stringe nelle spalle. Poi sbotta: « Lei sa che da noi, alla morte d’ogni scrit ­tore, si costituisce una spe ­cie di commissione incaricata di amministrarne la memoria. Così fu, dopo la riabilitazione, anche per mio marito. Ma la commissione si è riunita una sola volta, l’anno scorso, e non ha combinato niente. Simonov, che la presiede, ha scritto lettere a vari editori, proponendo una ristampa del ­le opere, ma nessuno natural ­mente ha risposto. E se qual ­che rivista, di tanto in tanto, s’azzarda a pubblicare delle poesie di Mandelstam, subito viene attaccata, come se aves ­sero ospitato un nemico della patria. La verità, caro mio, è che nulla è cambiato: l’ultima parola tocca ancora a gente che odia persino la memoria di Mandelstam, un poeta oc ­cidentale e cristiano che di ­sapprovò il modo crudele di realizzare la rivoluzione e non volle piegarsi al realismo so ­cialista. E’ quanto basta per ­ché ancora oggi, nonostante le voci che si levano in suo favore e l’attesa dei giovani, le autorità lo boicottino ».

Rustica semplicità

La dacia di Pasternak non è lontana. Un viale fra il ver ­de, e in una radura a ridosso del bosco trovo la casa in cui visse, alternando con quella di Mosca, fra il ’36 e il ’53, e poi restò sempre, dopo l’in ­farto, fino al ’60. E’ grande e bella nella sua rustica sem ­plicità, ma come spenta, e con i segni d’un’amara incu ­ria: la veranda ha qualche vetro rotto, la facciata si scro ­sta, avanzano le erbacce nel giardino. Da un’attigua ca ­setta di legno, che fu del guardiano, timidamente mi viene incontro un uomo alto, brizzolato, vestito con estiva trasandatezza. La struttura del volto, le guance incava ­te, qualcosa di morbido e lu ­natico negli occhi, tutto mi dice che è uno dei figli di Pasternak.

L’ingegner Evgheni Borissovic Pasternak è un mite, ma la sua voce di velluto è striata d’ironia. « Perché do ­vrebbero pubblicare II dottor Zivago, dal momento che pos ­sono non pubblicarlo? ». Disegna con le dita un aereo sorriso, e torna subito serio. « Non vedo imminente l’uscita del romanzo nell’Unione Sovietica, nonostante gli sforzi della famiglia e degli amici. Se accadrà, sarà in sordina, quando potranno uscire le opere complete di mio padre, chissà quando. Per il momento cerchiamo di convincere l’Unione Scrittori a restaurare la dacia e a trasformarla in un piccolo museo. L’Unione è così poco disposta a venirci incontro che invece pensa di togliercela, per assegnarla ad un altro scrittore… ».

Due ragazzi, i nipotini di Pa ­sternak, giocano seminudi fra gli alberi. Si sale al primo piano, nella stanza di lavoro conservata dalla famiglia nel ­le condizioni in cui si trova ­va quando Pasternak, nove anni fa, vi morì. Il lettuccio di ferro con una coperta sbia ­dita di cotonina, un armadio, un sofà, la scrivania stile « 900 », un lampadario liberty, gli scaffali coi libri che aveva con sé quell’estate (in più tutte le edizioni di Zivago fatte all’estero), il berretto al chiodo, e qualche cimelio velato di polvere: un busto in bronzo di Pasternak, il cal ­co della sua maschera mor ­tuaria e d’una mano. Alle pa ­reti, dove l’intonaco resiste, una foto di Nehru con dedica, i disegni del padre di Paster ­nak per Resurrezione. Sembra d’essere nell’ombra d’un ac ­quario, nel limbo della storia. Su una mensola, accanto a un mazzetto di fiori appassi ­ti, un’urna funeraria: sono le ceneri di Zinaida Nikolaievna. Dalla finestra entra il profumo del bosco. Di qui, affacciandosi, Pasternak vedeva i prati lontani, sentiva i rumori della vita.

La lunga speranza

La voce del figlio, modu ­lata soavemente, fa da sot ­tofondo alla tristezza. « Io, mio fratello Leonid, le due sorelle di mio padre che abi ­tano a Oxford viviamo in at ­tesa del giorno in cui il volto di Pasternak sarà liberato d’ogni velo, e l’opera sua sa ­rà tutta come la volle. Nes ­suno, fra i libri pubblicati in Occidente, ha avuto la sua definitiva approvazione: né Il dottor Zivago, del quale non corresse le ultime bozze, né La bellezza cieca, l’opera teatrale, incompleta, stampa ­ta ultimamente in Italia su una copia provvisoria. La fa ­miglia Pasternak non vede con favore queste edizioni. Come si è rifiutata finora di far pubblicare tutti i brani d’un romanzo senza titolo scritto da Pasternak nel 1936, così tiene a far sapere che soltanto i manoscritti in suo possesso rispecchiano l’ulti ­ma volontà dell’autore. Non possiamo impedire la diffusio ­ne clandestina del Dottor Zi ­vago, ma ci duole che essa avvenga in Russia su copie dattiloscritte, spesso piene di errori dovuti alla fretta e al timore dei copisti… ». La voce di Evgheni Borissovic s’incri ­na, la sua fiducia nel Tempo, che porterà giustizia a suo padre, sembra annebbiarsi. Alla stessa maniera, prima dell’invenzione della stampa, gli scrittori antichi dovettero disperare che l’incuria degli amanuensi salvaguardasse le loro creature dalla severità del destino.

L’ultima sosta è alla tom ­ba, nel cimitero che dalle cu ­pole d’oro della chiesa di Peredelkino si apre a mezza co ­sta su un orizzonte di segale e di pini. Impossibile trovar ­la, senza una guida pietosa che faccia strada nella bassa boscaglia che fascia i recinti. Alfine, protetto da una siepe di roselline di campo, all’om ­bra di tre pini, il tumulo af ­fiora da un’aiuola di mioso ­tis. Un cespo di gelsomini, una panca di legno, e incisi sulla stele il profilo di Pa ­sternak, la sua firma, le date: 10.XI.1890 – 30.V.1960. La pie ­tra non è intatta: scalfita qua e là, maculata di bruno, porta i segni d’un’offesa che le margherite raccolte in due vasetti da marmellata non riescono a nascondere. So ­lenne e dolce, la quiete agre ­ste del luogo è rotta soltanto dal canto lontano d’un gallo, dall’eco del treno. Così, nella gloria della terra, lievita il mistero della poesia.


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Bart