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LETTERATURA: I MAESTRI: Paura di pensare

6 Agosto 2008

di VirgilioTitone
[dal “Corriere della Sera”, lunedì 21 aprile 1969]  

Paura di pensare. Potrebbe sembrare come qualcosa di analogo al rifiuto, ormai abi ­tuale, di termini che pare ri ­cordino cose d’altri tempi e quasi più grandi di noi. Per esempio, non si parla più di una patria, né dell’onore né della virtù. Quando parliamo dell’Italia, ci serviamo del ter ­mine incolore di « paese », che fu già usato da Giolitti, il quale però credeva nella patria. In realtà, il concetto di patria, che alla fine del Settecento assume un significato nuovo e più comprensivo, si riferisce a un ideale oggi pressoché tramontato. Il disuso in cui è caduto il vocabolo, cor ­risponde al declino di idee   e sentimenti che non hanno più posto nella nuova storia. Lo stesso accade per l’onore: mi ­litare, coniugale ecc. Il primo fa pensare a un ideale caval ­leresco o di casta, il secondo riflette un diritto che si am ­mette per l’uomo, ma si nega alla donna. La virtù infine ci riporta a quella morale che si suol chiamare borghese o vittoriana, ed era fatta di con ­venzioni e inibizioni superate. Oggi si pensa – e a ragione – che è molto più morale non far male agli altri e, per esempio, non tormentare gli animali che non sia l’astenersi da divertimenti o piaceri che non si sa perché siano proi ­biti. Perciò si parla soltanto delle virtù dei cari estinti. Il vocabolo, aulico e sufficiente ­mente antiquato, si conviene allo stile dei necrologi e dei discorsi commemorativi.
 

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Analogamente poesia, arte, filosofia sembrano cose anacronistiche.     Anacronistici si considerano i termini stessi e le attività dello spirito che si indicavano con questi nomi. La poesia non si deve distin ­guere dalla non poesia, né è più creazione, intuizione, fan ­tasia, sentimento, immagine: non deve insomma ricordarci nessuna di quelle cose per cui dai romantici in poi, con definizioni diverse, ci si è ri ­feriti a un certo concetto del bello poetico. L’immagine non può essere un’immagine. Il sentimento è volgare e borghese e la capacità creativa un’invenzione capitalistica e reazionaria. Quello del poeta è perciò divenuto un lavoro ‘artigianale o anche sociale e scientifico.   Si   definisce, per esempio, come una ricerca e, poiché anche i filosofi o gli scienziati o gli operatori eco ­nomici fanno le loro ricerche, qualcuno dei moderni esteti ha stabilito che per distinguersene la ricerca poetica dev’essere « ambigua ». Ma se ne danno anche altre definizioni, per le quali l’arte può ugualmente assimiliarsi a un’analisi chimica, ai dati di un cervello elettronico oppure a un’inchie ­sta sociologica. L’essenziale è questo, che non somigli in nulla a quello che dai tempi di Omero l’umanità ha amato e ammirato come poesia. Inoltre occorre che il poeta sia qualcosa di mezzo tra l’agit-prop e un lavoratore in tuta: un lavoratore di versi.
Nella pittura poi e nella scultura non si deve esprime ­re uno stato d’animo. L’operazione è molto più semplice e facile. Gli elementi di cui bisogna disporre sono due: da un lato un’idea astratta, l’angoscia, la fame, la tristezza, la morte, la guerra o altre del genere, e dall’altro un qual ­siasi oggetto: una sedia sgan ­gherata, un mucchio d’immon ­dizia, una scarpa rotta op ­pure un paio di mutande. Si prende l’oggetto in questione, si porta in una mostra perso ­nale e si scrive sotto o ac ­canto il titolo del quadro o della scultura, che rappresen ­terebbe una di quelle idee. L’immondizia diventa così una angoscia cosmica e le mutande possono significare una autunnale tristezza.
Ma gli oggetti si possono anche fabbricare: con chio ­di, filo spinato, latta e sca ­tolame vario. In questo ca ­so l’artista si sente ancora più « autentico » e meno in ­tegrato. Crede di imitar me ­glio l’operaio. Solo che non riesce a imitarlo, perché quel ­lo dei vari operai è un lavo ­ro serio e l’artigiano vuol fa ­re e fa spesso cose molto belle e utili.
Naturalmente queste opera ­zioni rimangono in un campo esclusivamente cerebrale. L’i ­dea non è una rappresenta ­zione né può essere un’« espressione » l’arbitraria ana ­logia che si stabilisce tra es ­sa e le cose.
D’altro lato, buona parte della critica letteraria si è ri ­dotta a un lavoro di sempli ­ce registrazione o talvolta di meticolosa contabilità. Spesso infatti non si occupa se non di quelle tali idee, ossia di contenuti considerati indipen ­dentemente dal ritmo o dal canto – in cui deve vedersi l’essenza stessa della poesia -, oppure di minute analisi linguistiche, che non muovo ­no, come hanno insegnato un Leo Spitzer o un Dàmaso Alonso, dall’intuizione dell’a ­nima e cioè dello stile del poeta o di una civiltà.
 

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Della filosofia non occorre parlare. La tendenza comu ­ne è quella di negare la vali ­dità di un pensiero propria ­mente filosofico. Ma forse la scoperta più significativa si è avuta nel teatro. È di questi giorni il teatro officina – si chiama così -, che vuol es ­sere la negazione di ogni azio ­ne drammatica. Lo spettacolo è abolito. Gli attori si rivol ­gono al pubblico e gli parlano come   da   una     tribuna: del Vietnam, naturalmente, e del ­l’oppressione capitalistica. Che queste cose il medesimo pub ­blico possa leggerle nei gior ­nali proletari, non importa. Tutto ciò ha una sua logica. Poiché il teatro dovrebbe ave ­re un fine sociale o propa ­gandistico, si è pensato che sia più coerente andar dirit ­to allo scopo, limitandosi per l’appunto alla propaganda. In tal modo, senza bisogno di ri ­correre a una finzione dram ­matica, l’autore può esercitare direttamente la sua funzione di contestatore. Tutto il resto si considera un di più, di cui si può fare a meno. Non sa ­rebbe che letteratura: l’inuti ­le relitto di una società e di una borghesia in dissoluzione.
Così senza accorgersene la avanguardia antiletteraria fi ­nisce col coincidere con le stanche imitazioni di una let ­teratura troppo letteraria. La tragedia greca, trasportata a Roma, diviene una serie di noiose e insopportabili predi ­che nell’imitazione che Sene ­ca fece di Euripide. Seneca non era un poeta, ma un filosofo e non abolì la trama o lo spettacolo, ma se ne ser ­vì per esporre le sue idee filosofiche o sociali e politiche:   quello che potrebbe dirsi di un Brecht.
Il   teatro   officina assume perciò il significato di un simbolo, che può riferirsi a quasi tutte le manifestazioni di una letteratura priva di un’a ­nima e quindi autolesionistica. Al riguardo avviene quello che può osservarsi nei re ­gimi politici. Non muoiono per l’altrui violenza. La loro morte è un progressivo sui ­cidio. A poco a poco, cedendo   ai   loro   avversari, fini ­scono col negare sé stessi. Non     diversamente l’intellettuale non è più una guida. Si è mimetizzato con la massa, credendo di avvicinarsele, e se n’è allontanato: così come i preti che fanno i conte ­statori sociali, si sono allontanati dai fedeli.
Ma, se le convenzioni mo ­rali, che vivono nel tempo e si sostituiscono con altri co ­stumi o ideali, possono e debbono negarsi, la morale non si può negare, né ugualmente l’arte o la filosofia. Tuttavia, egli le nega. Le nega e crede di sostituire la sua aridità con un vuoto, che si traduce nell’alibi dell’impegno politico. Nel che è evidente l’analogia con la contestazione, che potrebbe essere qualcosa di molto vivo e attuale: una grande rivoluzione morale, la più grande ed estesa dopo quella del cristianesimo. Il sinistrismo dei conte ­statori non è però la nuova libertà, ma un artificioso richiamarsi a vecchie e tramontate ideologie: un passato che si vorrebbe far passare per il futuro.

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Il nuovo è l’oscuro. La fri ­gidità cerebrale ha bisogno del nuovo, che deve anche riuscire incomprensibile. Poi ­ché non si ha nulla da dire – nulla che sia un’espressio ­ne dell’anima – per farsi prendere   sul   serio   si deve sfidare e stupire la sensibili ­tà comune. L’arte pertanto e il pensiero del passato si condannano come ingenuità assurde o insignificanti. Accadde anche nell’età barocca. Il Marino credette di essere e fu ritenuto come il più grande poeta di cui l’umanità potesse gloriarsi. In quello stesso tempo, della superiorità sugli antichi dei moderni – di quei moderni – si fece una par ­ticolare teoria, che dal titolo di un libro di uno di quegli autori,   Secondo   Lancellotti, si potrebbe chiamare l’oggidianesimo.
Ma nei poeti non meno che nei filosofi tale oscurità è sempre un segno inconfessato di impotenza e le novità non sono mai nuove. Invecchiano subito. Invecchiano le cose che vogliono apparire diverse dalle consuete. Le altre sono veramente diverse e nuove, perché non hanno cercato di esserlo.


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2 Comments

  1. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 6 Agosto 2008 @ 17:43

    Conoscendomi, caro Bartolomeo, ti puoi rendere conto quanto condivida il contenuto del “pezzo” sia per quanto riguarda il concetto di Patria, di onore, di ideali, sia per quanto riguarda la filosofia, il teatro, la scultura e soprattutto la poesia. Mi riferisco in modo particolare a quest’ultima, perché, grazie a Dio e bene o male “ci convivo”. Oggi la poesia appare, non di rado, un insieme di parole coinvolte in un uso artificioso, spesso senz’anima, privo di sentimento vero e genuino, dove “l’immagine non è l’immagine”, dove regnano un vuoto ed un conformismo (non solo formale) privi di creazione e fantasia (queste ultime malamente considerate, come dice l’autore “un’invenzione capitalistica e reazionaria”).
    Auspico che la poesia ed in genere l’arte tornino alla loro funzione portante e ritrovino il loro ruolo di esprimere il vero, il bello, il buono, le istanze vere dell’uomo e dell’umanità, ma lo faccia in modo essenziale con l’animo, col sentimento, con la creazione più aperta e non nell’appiattimento di mode, guarda caso, frequentemente volute da una certa politica di parte. Mi piace riportare, in questo contesto, un brano significativo, tratto da “Lo spleen di Parigi” di Baudelaire:
    “Il poeta gode l’incomparabile privilegio di essere se stesso e altrui a suo piacimento. Come le anime erranti in cerca di un corpo, entra quando gli piace in qualsivoglia personaggio. Per lui soltanto tutto è vacante: e se sembra che certi posti gli siano preclusi, è perché ai suoi occhi non sono degni di essere visitati”.
    E per concludere, direi con René Char: “Il poeta, (è il) conservatore degli infiniti volti di ciò che vive”.
    Grazie ancora, Bartolomeo, per questa ulteriore bella pagina
    Gian Gabriele Benedetti

  2. Commento by Bartolomeo Di Monaco — 6 Agosto 2008 @ 20:32

    La voglia di eccentricità e quella, altrettanto dannosa, di rinnovare ad ogni costo, producono ferite nell’arte. Solo i geni possono permetterselo.
    Ancora grazie, Gian Gabriele, per l’attenzione che poni a tutti gli articoli della rivista. Lettori come te gratificano il mio lavoro di ricerca, ma anche il lavoro degli altri collaboratori.

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