LETTERATURA: I MAESTRI: Paura di pensare6 Agosto 2008 di VirgilioTitone Paura di pensare. Potrebbe sembrare come qualcosa di analogo al rifiuto, ormai abi tuale, di termini che pare ri cordino cose d’altri tempi e quasi più grandi di noi. Per esempio, non si parla più di una patria, né dell’onore né della virtù. Quando parliamo dell’Italia, ci serviamo del ter mine incolore di « paese », che fu già usato da Giolitti, il quale però credeva nella patria. In realtà, il concetto di patria, che alla fine del Settecento assume un significato nuovo e più comprensivo, si riferisce a un ideale oggi pressoché tramontato. Il disuso in cui è caduto il vocabolo, cor risponde al declino di idee e sentimenti che non hanno più posto nella nuova storia. Lo stesso accade per l’onore: mi litare, coniugale ecc. Il primo fa pensare a un ideale caval leresco o di casta, il secondo riflette un diritto che si am mette per l’uomo, ma si nega alla donna. La virtù infine ci riporta a quella morale che si suol chiamare borghese o vittoriana, ed era fatta di con venzioni e inibizioni superate. Oggi si pensa – e a ragione – che è molto più morale non far male agli altri e, per esempio, non tormentare gli animali che non sia l’astenersi da divertimenti o piaceri che non si sa perché siano proi biti. Perciò si parla soltanto delle virtù dei cari estinti. Il vocabolo, aulico e sufficiente mente antiquato, si conviene allo stile dei necrologi e dei discorsi commemorativi. * Analogamente poesia, arte, filosofia sembrano cose anacronistiche. Anacronistici si considerano i termini stessi e le attività dello spirito che si indicavano con questi nomi. La poesia non si deve distin guere dalla non poesia, né è più creazione, intuizione, fan tasia, sentimento, immagine: non deve insomma ricordarci nessuna di quelle cose per cui dai romantici in poi, con definizioni diverse, ci si è ri feriti a un certo concetto del bello poetico. L’immagine non può essere un’immagine. Il sentimento è volgare e borghese e la capacità creativa un’invenzione capitalistica e reazionaria. Quello del poeta è perciò divenuto un lavoro ‘artigianale o anche sociale e scientifico. Si definisce, per esempio, come una ricerca e, poiché anche i filosofi o gli scienziati o gli operatori eco nomici fanno le loro ricerche, qualcuno dei moderni esteti ha stabilito che per distinguersene la ricerca poetica dev’essere « ambigua ». Ma se ne danno anche altre definizioni, per le quali l’arte può ugualmente assimiliarsi a un’analisi chimica, ai dati di un cervello elettronico oppure a un’inchie sta sociologica. L’essenziale è questo, che non somigli in nulla a quello che dai tempi di Omero l’umanità ha amato e ammirato come poesia. Inoltre occorre che il poeta sia qualcosa di mezzo tra l’agit-prop e un lavoratore in tuta: un lavoratore di versi. * Della filosofia non occorre parlare. La tendenza comu ne è quella di negare la vali dità di un pensiero propria mente filosofico. Ma forse la scoperta più significativa si è avuta nel teatro. È di questi giorni il teatro officina – si chiama così -, che vuol es sere la negazione di ogni azio ne drammatica. Lo spettacolo è abolito. Gli attori si rivol gono al pubblico e gli parlano come da una tribuna: del Vietnam, naturalmente, e del l’oppressione capitalistica. Che queste cose il medesimo pub blico possa leggerle nei gior nali proletari, non importa. Tutto ciò ha una sua logica. Poiché il teatro dovrebbe ave re un fine sociale o propa gandistico, si è pensato che sia più coerente andar dirit to allo scopo, limitandosi per l’appunto alla propaganda. In tal modo, senza bisogno di ri correre a una finzione dram matica, l’autore può esercitare direttamente la sua funzione di contestatore. Tutto il resto si considera un di più, di cui si può fare a meno. Non sa rebbe che letteratura: l’inuti le relitto di una società e di una borghesia in dissoluzione. * Il nuovo è l’oscuro. La fri gidità cerebrale ha bisogno del nuovo, che deve anche riuscire incomprensibile. Poi ché non si ha nulla da dire – nulla che sia un’espressio ne dell’anima – per farsi prendere sul serio si deve sfidare e stupire la sensibili tà comune. L’arte pertanto e il pensiero del passato si condannano come ingenuità assurde o insignificanti. Accadde anche nell’età barocca. Il Marino credette di essere e fu ritenuto come il più grande poeta di cui l’umanità potesse gloriarsi. In quello stesso tempo, della superiorità sugli antichi dei moderni – di quei moderni – si fece una par ticolare teoria, che dal titolo di un libro di uno di quegli autori, Secondo Lancellotti, si potrebbe chiamare l’oggidianesimo. Letto 1818 volte. | ![]() | ||||||||||
Commento by Gian Gabriele Benedetti — 6 Agosto 2008 @ 17:43
Conoscendomi, caro Bartolomeo, ti puoi rendere conto quanto condivida il contenuto del “pezzo” sia per quanto riguarda il concetto di Patria, di onore, di ideali, sia per quanto riguarda la filosofia, il teatro, la scultura e soprattutto la poesia. Mi riferisco in modo particolare a quest’ultima, perché, grazie a Dio e bene o male “ci convivo”. Oggi la poesia appare, non di rado, un insieme di parole coinvolte in un uso artificioso, spesso senz’anima, privo di sentimento vero e genuino, dove “l’immagine non è l’immagine”, dove regnano un vuoto ed un conformismo (non solo formale) privi di creazione e fantasia (queste ultime malamente considerate, come dice l’autore “un’invenzione capitalistica e reazionaria”).
Auspico che la poesia ed in genere l’arte tornino alla loro funzione portante e ritrovino il loro ruolo di esprimere il vero, il bello, il buono, le istanze vere dell’uomo e dell’umanità, ma lo faccia in modo essenziale con l’animo, col sentimento, con la creazione più aperta e non nell’appiattimento di mode, guarda caso, frequentemente volute da una certa politica di parte. Mi piace riportare, in questo contesto, un brano significativo, tratto da “Lo spleen di Parigi” di Baudelaire:
“Il poeta gode l’incomparabile privilegio di essere se stesso e altrui a suo piacimento. Come le anime erranti in cerca di un corpo, entra quando gli piace in qualsivoglia personaggio. Per lui soltanto tutto è vacante: e se sembra che certi posti gli siano preclusi, è perché ai suoi occhi non sono degni di essere visitati”.
E per concludere, direi con René Char: “Il poeta, (è il) conservatore degli infiniti volti di ciò che vive”.
Grazie ancora, Bartolomeo, per questa ulteriore bella pagina
Gian Gabriele Benedetti
Commento by Bartolomeo Di Monaco — 6 Agosto 2008 @ 20:32
La voglia di eccentricità e quella, altrettanto dannosa, di rinnovare ad ogni costo, producono ferite nell’arte. Solo i geni possono permetterselo.
Ancora grazie, Gian Gabriele, per l’attenzione che poni a tutti gli articoli della rivista. Lettori come te gratificano il mio lavoro di ricerca, ma anche il lavoro degli altri collaboratori.