di Arrigo Benedetti
[dal “Corriere della Sera”, martedì 22 aprile 1969]
Difesa della natura
In certi istanti, durante il congresso che l’« Anglo-italian Society » per la protezione de gli animali ha tenuto a Bagni di Lucca, con l’apporto di al tre associazioni, tra cui « Ita lia Nostra », s’è avuto paura d’un dissidio. Svanirà â— ci si chiedeva â— l’unità d’intenti e l’armonia, favorita dal luogo?
Una valle stretta e ombro sa; la Lima nelle cui acque vive la trota salmonata; ar chitetture sette-ottocentesche rispettate: un che di sceno grafico e tuttavia naturale. E lapidi testimonianti l’incontro ormai secolare, per merito della poesia, della Gran Bre tagna e dell’Italia. Una com plementarietà che talvolta sembra perfetta. Il forestiero, dopo aver dato una mano all’invenzione dell’ambiente, e averci aggiunto qualcosa di suo â— una chiesa e un cimi tero evangelici â— non na sconde d’essere felice appena si ritrova fra questi monti. La gente del posto appare sod disfatta che la valle sia stata scelta, e continui a essere pre diletta, da gente che, anche quand’è di origine sociale modesta, ha la raffinatezza che una volta i romanzi inglesi attribuivano alle classi ele vate.
Parevano, in taluni momen ti, resistere solo le differenze fìsiche. L’ambasciatore britan nico Sir Evelyn Shuckburg, sullo sfondo dei Bagni, ha un bell’essere fiero del pizzo rinascimentale o spagnolesco. Resta inglese, non meno delle giovani donne convenute, la cui gentilezza e rigidità ricor dano le porcellane settecentesche. E non mancavano, l’al tro giorno, i richiami a epo che più lontane. Ian Green- lees, direttore dell’Istituto bri tannico di Firenze, ha una robustezza elisabettiana. Fa ceva contrasto la nostra di sarmata semplicità. E un’en fasi, quando confrontata alla compostezza britannica, di ventava evidente perfino nei toscani di solito gelidi. Un che d’incontrollato, un alter narsi di furbizia e bonarietà. Eppure un comune desiderio di migliorarsi reciprocamente.
Gli inglesi volevano sape re perché noi si sia tanto im placabili con gli uccelli. E che ci spinga a violentare la na tura: monti, colli, acque, bo schi. Però, Robin Chanter, af finché i suoi connazionali non fossero fraintesi, ebbe a pre cisare subito: noi inglesi ne sappiamo qualcosa. Nei tempi passati, e non lontani, com mettemmo gli stessi peccati.
Gli inglesi insistevano sulla protezione dei volatili dall’e sercito dei cacciatori â— più d’un milione e duecentomila in armi â— che, l’ultima do menica d’agosto, sferra la car neficina, forte di protezioni politiche, com’ebbe a dire il professor Augusto Toschi. Centinaia di milioni spesi dal le province per un ripopola mento che poche ore di cac cia annulla. A un certo pun to, l’esercito venatorio venne descritto simile a una mino ranza che s’impone alla mag gioranza degli italiani, ostili o almeno indifferenti alla strage.
A poco a poco, diventò chiaro che allo sdegno ingle se, velato dall’ironia, gli ita liani presenti nella sala azzur ra del Casino opponevano il nostro buon senso di sempre. Solo un vegetariano può arro garsi il diritto alla predica, dis se Mario Soldati. Non dovreb be, semmai, ripugnarci di più la carne dei vitelli, delle muc che, degli ovini, o dei mam miferi, insomma, parenti pros simi della nostra specie? La natura, obiettava Giorgio Bassani, va difesa nel suo insie me. Insomma, gli italiani, di menticato il tema del conve gno, insistevano sgomenti sul le acque avvelenate dall’indu stria, sui pini della Versilia morenti, sui cipressi destinati al deperimento, sulla bruttez za della nostra architettura consistente di palazzine pre tenziose. Poi, l’incanto si ri componeva. Tanto si compe netravano le due nazioni cul turali, da diventare meno vi sibili le diversità fisiche, e da risultare meno evidenti i due generi d’oratoria: il realismo inglese pieno d’ironia; l’enfa si italiana non priva di quel cinismo che il buon senso comporta sempre.
Finzione teatrale
Tutti parlano di teatro, e uno finisce con volere inter loquire. L’amavo quand’era una finzione. Ricordo la re cita al Giglio, e, una fredda sera, al Pantera, secondo tea tro cittadino, oggi cinema, che io fui tra i pochissimi spettatori scomodatisi per una pri ma assoluta mondiale, come annunziavano le locandine, di un commediografo non lucchese.
In seguito, lo conobbi di persona, a Milano, l’autore del dramma. E la tristezza, come poi imparai consueta, dello sguardo, la scambiai per momentanea. Supposi ch’egli mi avesse riconosciuto, e che gli ricordassi la prova del suo fallimento teatrale. Più d’una volta, in quegli anni milanesi, stetti per confermargli con crudeltà d’essere stato seduto in una poltrona di prima fila – sebbene munito solo di bi glietto per un posto, come si diceva, distinto â— in tale oc casione, ma i suoi occhi buo ni, da setter, me l’impedirono sempre.
Eppoi come avrebbe potuto riconoscere in me già in carne il ragazzo esile che a quel tempo ero?
La mia diffidenza teatrale data da quando dettero a Lucca « I sei personaggi », tragedia che non mi persuase, nonostante gli sprazzi lirici. Quel non sapere o volere cre dere alla realtà scenica, quel linguaggio culturalistico e so fistico resta fra me e il teatro anche perché il motivo piran delliano del « teatro del tea tro » continua, dopo quaran totto anni, a essere sfruttato come scoperta che da sola possa garantire la spregiudi catezza tanto dell’autore quan to del pubblico. E’ successo che, alla convenzione realisti ca â— e quindi ricca d’infinite possibilità â— se ne sia sosti tuita un’altra monotona seb bene ritenuta provocatoria.
E ci sono altre cause del mio disagio. I registi tanto in vadenti da far dimenticare la loro relativa utilità. Essi, per ricercare effetti spettacolari, frappongono tra me e il testo, non solo il loro modo di leg gerlo ma un bric à brac di elementi estranei: dall’arreda mento, rivelatore d’un gusto privato e magari effimero, a certe forzature del testo a cui fingono d’essere costretti dal le idee oggi prevalse, come se toccasse loro aggiornare il pensiero di Becque o di Ibsen o di Pirandello. Oggi poi gli stessi autori si gloriano di proporre non un mondo poe tico ma un’azione d’ordine pratico. Si mettono nello sta to opposto a quello ideale dei poeti, e anche dei romanzieri che, dopo Flaubert e il miglior Tolstoi, travasano la realtà nelle parole con l’ambizione di raggiungere un alto grado di levità e naturalezza.
Eppoi sospetto che alcuni scrittori, appena si stufano di sé â— non avendo ottenuto il successo sperato o essendosi esauriti â— invece di resistere allo spasimo d’una impotenza forse momentanea, si siedano al tavolino e scrivano: atto primo, scena prima… Può an che darsi che si diano al tea tro assillati dal bisogno d’in fluire sulla società contempo ranea, compito che â— essi di menticano â— spetta ai predi catori religiosi e laici e ai po litici.
« Ora ve lo faccio sentire » ha l’aria di tuonare il roman ziere stanco di sé. E gli riesce solo fare del chiasso o pre sentare, nei casi migliori, una trovata di cui è tanto grezzo il meccanismo, da diventare impossibile avvolgerlo d’au tentica verità. Il faut oser di cono i francesi d’oggi, con vinti d’avere la formula per guadagnare denaro e fama, l’uno e l’altra così effimeri. Massima utilitaria d’un paese che della sua grandeur ha conservato solo lo spirito mon dano, e l’opportunismo che ne deriva. Atteggiamento possibi le appena difetti il pudore che accompagna sempre l’in tuizione poetica.
Parto fra i libri
Mi giungono miagolii ma seguito a lavorare. Penso che la gatta abbia le doglie e che si sia nascosta nella stanza accanto al mio studio. Meglio non intervenire, mi dico; se annunciassi l’evento, so che qualcuno, in casa, avrebbe uno scrupolo. Lasciare parto rire la gatta dove meglio cre de, o salvare una poltrona, un cuscino o un tappeto?
La lettura d’una cartella ricopiata mi distrae. Alla fine, immaginandomi soddisfatto solo per avere ricopiato più volte una pagina, e per avere compiuto un indefinibile do vere, alzo gli occhi e scorgo sul cuscino del divano di fron te una grande macchia. Pri ma non c’era. Vi ero stato seduto a leggere. « Dove sei? » chiedevo mentalmente alla gatta. « Da dove mi giungono i lamenti? » aggiungevo rivol to a me stesso. Eppure lo sapevo già: i lamenti, di cui non avevo creduto opportuno capire il senso inequivocabi le, arrivavano dal rifugio om broso che la partoriente aveva trovato sotto il sofà. I neonati miagolavano protestando per i fastidi che incontra ogni crea tura venuta al mondo.
L’anno scorso, sempre a primavera, eravamo partiti. Tornati, dopo alcune settima ne, chiedemmo subito se la gatta bianco-nera avesse par torito e dove. S’udivano â— ci venne risposto â— miagolii nel fienile, non altro. E c’era an che chi li sentiva nella limo naia. Sedutomi alla scrivania per aprire la posta, anche al lora sentii i lamenti. Alzato finalmente lo sguardo, scorsi tre gattini già vivaci, segno ch’erano nati da qualche set timana. Udito il rombo del l’auto in salita, la gatta aveva atteso che fosse riaperta una casa che ritiene sua, e, rien tratavi, dal fienile o dalla li monaia, m’aveva schierato da vanti i frutti dei suoi amori autunnali.