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LETTERATURA: I MAESTRI: Perché si leggono i romanzi polizieschi?

19 Gennaio 2019

di Edmund Wilson
[da “Saggi letterari 1920-1950”, Garzanti, 1967]

Sono anni che sento parlare di romanzi polizieschi. Quasi tutti quelli che conosco li leggono, e avviano sull’argomento lunghe conversazioni alle quali non sono in grado di parteci ­pare. Mi viene continuamente fatto osservare che le perso ­nalità più serie del nostro tempo, da Woodrow Wilson a W.B. Yeats, si sono appassionate a questo genere di narra ­tiva. Ora, tranne pochi racconti di Chesterton. che mi han ­no lasciato piuttosto freddo, io non ho più letto romanzi polizieschi da quando uno dei primi, se non il primo imi ­tatore di Sherlock Holmes, uno scrittore di nome Jacques Putrelle, ora morto, inventò un personaggio chiamato la Macchina Pensante e nel 1907 pubblicò il primo volume di racconti su questo tema. Tanto Sherlock Holmes m’aveva incantato, quanto mi annoiò la Macchina Pensante, la cui lettura pertanto abbandonai, sentendomi a dodici anni già troppo adulto per quel tipo di letteratura.

Ad ogni modo, in una mia rapida e recente indagine sul ­le varie specie del genere popolare, m’è parso opportuno dare un’occhiata anche a qualche campione di questa nar ­rativa, che ha avuto una così ampia diffusione e viene or ­mai prodotta su scala talmente vasta da costringere le ri ­viste ad affidarne le recensioni a redattori specializzati. Per esser certo di leggere prodotti al di sopra della media, ho aspettato l’uscita dei nuovi libri degli autori più apprezzati dagli intenditori; e ho cominciato con l’ultimo volume della serie Nero Wolfe di Rex Stout: Not Quite Dead Enough.

Ciò che vi ho trovato mi ha piuttosto sorpreso e ha de ­luso la mia curiosità. Era semplicemente la vecchia formu ­la di Sherlock Holmes, ripresa ancor più fedelmente di quanto non avesse fatto Jacques Futrelle una quarantina d’anni or sono. C’era l’impareggiabile investigatore privato, ironico e cerimonioso, con una mente superiore e abitudini eccentriche, dedito alla buona tavola e alla coltivazione delle orchidee, così come Holmes aveva il suo debole per la co ­caina e il violino, ma sempre pronto a tornare in sé per compiere prodigi di prontezza mentale; e c’era il personag ­gio di spalla, sempre in ammirazione, adorante e un po’ ottuso, e l’ispettore Lestrade di Scotland Yard, energico ma completamente fuori strada, sotto il nuovo nome di ispettore Cramer della centrale di polizia. Forse l’unica differenza consisteva nel fatto che Nero Wolfe era grasso e sonnolento, mentre Holmes era snello e attivo, e amava spingere i mal ­vagi al suicidio invece di consegnarli alla giustizia. Ma il personaggio di Wolfe mi è abbastanza piaciuto, anche per quelle laute cene e le tranquille serate nella sua casa in fon ­do alla West Thirty-fifth Street, dove si pasce di un sadismo in pantofole regolarmente innaffiato di buona birra. Le due vicende che costituiscono questo nuovo volume â— Not Quite Dead Enough e Booby Trap â— mi sono sembrate piuttosto deludenti; ma poiché erano entrambe più brevi del solito e presentavano il grande investigatore momentaneamente di ­stratto dalla sua professione abituale perché impegnato in un rigoroso corso d’addestramento per l’esercito, ho pensato che forse non rendevano un’idea adeguata delle reali capacità dell’autore, e ho letto anche The Nero Wolfe Omnibus, che comprende due romanzi scritti in epoca precedente: The Red Box e The League of Frightened Men. Ma nean ­che questa lettura mi ha procurato l’eccitamento sperato. Se i racconti più recenti erano schematici e poveri, i due ro ­manzi sembravano un po’ troppo densi, pieni com’erano di lunghi episodi senza sbocco e senza alcuna pertinenza reale all’economia della vicenda. È stato solo consultando Sherlock Holmes che mi son reso conto che Nero Wolfe ne era appena una copia pallida e distante. Le vecchie storie di Conan Doyle avevano una loro vivacità e una loro poesia fiabesca: carrozze, tetri appartamenti londinesi e solitarie dimore di campagna, che Rex Stout cercava malamente di sostituire con le sue ambientazioni in una moderna New York; e in Conan Doyle le sorprese erano molto più diver ­tenti: come minimo ci si trovava in una stanza col soffitto che si abbassava, oppure c’era un serpente ammaestrato a calarsi lungo il cordone del campanello, mentre in Nero Wolfe â— benché The League of Frightened Men si valga di un’intelligente trovata psicologica â— la soluzione del mi ­stero non era di solito ne originale né inattesa. Alla fine ho avuto come l’impressione di dover disfare tutto un volumi ­noso imballaggio per scoprirvi sul fondo pochi chiodi storti e arrugginiti, Mi sono così persuaso, non senza irritazione, che in genere i romanzi polizieschi godono di un ingiusto privilegio per l’uso che vieta al recensore di rivelarne la so ­luzione: risultato di siffatta abitudine è quello di nascondere la nullità di tanti romanzi polizieschi e di garantire ai loro autori una protezione che agli altri settori letterari è nega ­ta. Non è difficile creare una tensione imponendo al lettore l’attesa della rivelazione finale, ma è necessario un certo ta ­lento per creare una vicenda poliziesca abile, pittoresca e di ­vertente abbastanza da compensare il lettore stesso per quel ­la sua attesa, Stavo persino cominciando a dirmi che il vero segreto nascosto dall’autore Rex Stout sotto false piste e di ­vagazioni interminabili era una povertà d’immaginazione, di cui si poteva cogliere tutto lo squallore alla fine dell’ul ­timo capitolo, nel ritrovarsi completamente vuoti.

Gli esperti mi dicono, comunque, che questa intermina ­bile prosecuzione del filone di Doyle non rappresenta né tutto né il meglio di quanto la letteratura poliziesca abbia saputo offrire in decine di anni. C’è anche il tipo di giallo a enigma; e, poiché mi assicuravano che in questo genere Agatha Christie ha raggiunto un altissimo grado di perfe ­zione, ho letto anche l’ultimo libro di Agatha Christie, Death Comes as the End. Confesso che la storia mi avvinceva. Non riuscivo a indovinare chi fosse l’assassino; la vo ­glia di scoprirlo mi ha incitato a continuare la lettura e, quando alla fine l’ho saputo, sono rimasto sorpreso. Ciò no ­nostante, di Agatha Christie non m’importa nulla e non ho nessun desiderio di leggere altri suoi libri. Bisogna forse te ­ner conto che Death Comes as the End è ambientato nel ­l’Egitto del 2000 a. C., sicché il libro ha un sapore alla Lloyd C. Douglas, che a quanto posso capire non è affatto caratteristico dell’autrice. (« Non vi sarebbe stato più Khay in questo mondo a navigare sul Nilo e a pescare e a ridere col viso nel sole mentre lei, sdraiata nella barca col piccolo Teti in grembo, gli faceva eco con un’altra risata »); ma lo stile è così insipido e banale che mi sembra letteralmente illeggibile. Un libro del genere non si può leggere, lo si divora semplicemente per sapere la soluzione dell’enigma; e non ci si può interessare ai personaggi, perché non è mai consentito loro di vivere una propria vita, per quanto piatta e bidimensionale, ma devono essere sempre costruiti in ma ­niera da apparire insospettabili o sinistri, a seconda da che parte occorra attirare i sospetti del lettore. La cosa mi era riuscita persino noiosa con Rex Stout, anche se va detto che per tener dietro alla moda Stout ha creato Nero Wolfe e Archie Goodwin e si è in certo modo sforzato di caratteriz ­zare i propri personaggi; mentre la Christie, quanto più è abile nell’escogitare enigmi e quanto più si applica in ma ­niera esclusiva all’intreccio, tanto più è costretta a trascu ­rare il dato umano; o, meglio, è costretta a riempire il qua ­dro con quella che a me sembra una disastrosa parodia del dato umano. In questo nuovo romanzo, la Christie ha bi ­sogno di burattini utilizzabili in tre diverse fasi di tensione: il lettore deve indovinare anzitutto chi sta per essere ucciso, quindi chi ha commesso il delitto, e infine non deve poter capire quale dei due la protagonista finirà per sposare. È come in un giuoco di prestigio, in cui l’illusionista distragga l’attenzione del pubblico da quegli strani movimenti che na ­scondono la manipolazione delle carte; e la cosa può anche divertire e meravigliare in una certa misura, come appunto in uno spettacolo di prestidigitazione. Ma in uno spettacolo come Death Comes as the End, l’imbonitura si risolve in una noia costante e gli elementi di scena non hanno l’eleganza delle carte da giuoco.

Sempre nel timore di essere ingiusto verso un settore let ­terario che molti trovano così avvincente, ho fatto un altro passo indietro e mi sono letto The Maltese Falcon, che ri ­tenevo di dover considerare un classico nel suo genere, aven ­dolo Alexander Woollcott definito « il miglior giallo che l’America abbia finora prodotto » e dato che all’epoca della sua pubblicazione fece immediatamente diventare Dashiell Hammett il « cocco degli intellettuali », per usare la defini ­zione che Jimmy Durante applica a se stesso. Ma non sono riuscito a capire che cosa â— nel 1930 â— gli intellettuali pen ­sassero di coccolare. Hammett aveva il vantaggio d’una reale esperienza come investigatore privato, e inserì nella vecchia formula di Sherlock Holmes una certa fredda bru ­talità da bassifondi, che in un periodo in cui i gangster era ­no di moda dava probabilmente ai lettori un brivido di tipo nuovo; ma gli mancava la capacità di rendere viva la nar ­razione. Come scrittore, egli è senza dubbio tanto inferiore a Rex Stout quanto questi è inferiore a James Cain. The Maltese Falcon oggi non appare molto più apprezzabile di uno di quei fumetti a puntate, in cui di giorno in giorno si possono seguire le alterne vicende di un eroe mascelluto e di un’avventuriera spietata ma affascinante.

In che consiste dunque il fascino dei romanzi polizieschi, al quale non sono rimasti insensibili neppure T.S. Eliot e Paul Elmer More, ma che io sembro incapace di sentire? Come genere narrativo, a me pare completamente morto. Le storie di spionaggio forse solo adesso cominciano a realiz ­zare le loro possibilità poetiche, a quanto sostengono gli am ­miratori di Graham Greene; e il giallo che sfrutta l’orrore psicologico è una cosa del tutto diversa. Ma il racconto po ­liziesco aveva dato i suoi frutti migliori alla fine del diciannovesimo secolo, e il suo declino era cominciato dal momen ­to in cui Edgar Allan Poe era riuscito a infondere nel suo Dupin qualcosa della propria intensità raziocinante e Dickens aveva investito i suoi intrecci di un significato sociale e morale per cui la soluzione del mistero diventava un sim ­bolo rivelatore di qualcosa che l’autore intendeva seriamen ­te dire. Il giallo, comunque, regge ancora: nel ventennio fra le due guerre ha anzi raggiunto una popolarità senza pre ­cedenti; e io credo che in questo vi sia una profonda ra ­gione. In quegli anni il mondo era oppresso da un diffuso senso di colpa e dallo sgomento di un’imminente catastrofe che sembrava impresa disperata cercar di evitare, in quanto appariva decisamente impossibile inchiodare i colpevoli alle loro responsabilità. Chi aveva commesso il primo delitto e chi sarebbe stato l’autore del prossimo? di quel secondo de ­litto che sempre, nei romanzi, si verifica inaspettatamente, quando le indagini sono bene avviate; e che, come in una delle storie di Nero Wolfe, può verificarsi persino nell’ufficio stesso del grande investigatore. I sospetti cadono a turno su tutti, e le strade sono piene di agenti segreti, non sappiamo al servizio di chi. Nessuno pare innocente, nessuno è sicuro; e poi, a un tratto, si scopre l’assassino e â— o sollievo! â— alla fin fine si tratta di uno come voi e me. È un malvagio – noto in giro come George Gruesome â— ed è stato cattu ­rato dall’infallibile Power, l’investigatore supercilioso e on ­nisciente, che sa con precisione dove inchiodare il colpe ­vole.

14 ottobre 1944

Ancora sui romanzi polizieschi

Tre mesi fa scrissi un articolo su alcuni romanzi polizieschi di recente pubblicazione. Non avevo mai letto niente del ge ­nere dai tempi di Sherlock Holmes, e a forza di sentir parlare e discutere sui meriti degli autori di libri gialli, mi venne la curiosità di vedere com’erano quelli di oggi. I campioni da me saggiati mi lasciarono deluso e formulai un giudizio piuttosto sprezzante sull’intero genere letterario. Con mio grande stupore, ricevetti a seguito di ciò tante lettere di protesta e così accalorate, che di simili quasi non ne ave ­vano provocate neppure le mie occasionali critiche all’Unio ­ne Sovietica. Delle trentanove lettere che mi pervennero, solo sette approvavano le mie censure. Gli autori della mag ­gior parte delle altre si dimostravano profondamente offesi e colpiti, e tutti dicevano quasi esattamente la stessa cosa: che non avevo letto i romanzi giusti e che certo mi sarei ricreduto se avessi provato a leggere l’uno o l’altro autore raccomandati dagli scriventi. In molte di queste lettere c’era una nota d’asprezza, e una signora giungeva a dichia ­rare che non avrebbe più letto i miei articoli se non fossi stato pronto a rivedere la mia posizione. Inoltre, altri scrit ­tori avevano pubblicato nel frattempo articoli in difesa dei libri gialli: Jacques Barzun, Joseph Wood Krutch, Ray ­mond Chandler e Somerset Maugham hanno avuto tutti qualcosa da dire sull’argomento; né l’irascibile Bernard De Voto ha mancato di far sentire la sua voce.

Soverchiato da tante insistenze, scrissi infine ai miei cor ­rispondenti che avrei cercato di rimediare ad ogni mia even ­tuale ingiustizia disponendomi a leggere alcuni degli autori che mi erano stati maggiormente raccomandati, e che sarei tornato sull’argomento. Comunque, elencate le preferenze di questi lettori, mi accorsi che erano estremamente discordi: svariavano infatti su cinquantadue scrittori e sessantasette li ­bri diversi, la maggior parte dei quali figuravano con un solo voto o con due. Gli unici scrittori che raggiungevano cinque o più voti erano Dorothy L. Sayers, Margery Allin ­gham, Ngaio Marsh, Michael Innes, Raymond Chandler e l’autore che si cela sotto gli pseudonimi di Carter Dickson e John Dickson Carr.

La scrittrice che i miei corrispondenti ponevano quasi al ­l’unanimità in testa alla classifica era Dorothy L. Sayers, che mi veniva caldamente raccomandata da diciotto persone e il suo libro che secondo otto di loro non avrei potuto fare a meno di apprezzare si intitolava The Nine Tailors. Eb ­bene, mi son messo a leggere The Nine Tailors nella spe ­ranza di ricavarne un qualche nuovo stimolo e posso atte ­stare che mi sembra uno dei libri più noiosi che mi siano mai capitati. Tutta la prima parte parla della maniera di suonar le campane nelle chiese inglesi, e contiene una quantità di notizie del genere rinvenibile in un’enciclopedia alla voce « campanologia ». Ho sorvolato per buona parte ed ho sal ­tato pure molti dialoghi fra i soliti personaggi inglesi di campagna, tipo: « Oh, ecco Hinkins con le aspidistre. La gente può dire quello che vuole delle aspidistre, ma durano tutto l’anno e fanno ambiente »; e così via. C’è anche una banalissima figura di aristocratico inglese del tipo alla buo ­na, con l’imbarazzante nome di Lord Peter Wimsey; e ben ­ché si tratti del personaggio chiave del romanzo, in quanto è la versione che la Sayers ci offre dell’immancabile investi ­gatore alla Sherlock Holmes, ho dovuto saltare parecchio an ­che a questo riguardo. Intanto avevo smarrito il filo della vicenda, che non aveva mai avvinto la mia attenzione, ma ho fatto marcia indietro rimettendomi in carreggiata e pro ­cedendo poi con fermezza fino alla fine; ho così scoperto che il nocciolo della questione era che, se un uomo veniva rin ­chiuso in un campanile mentre le campane suonavano a di ­stesa, le onde sonore potevano ucciderlo. Come idea per un delitto non era male, e Conan Doyle avrebbe saputo imba ­stirci un divertente racconto d’una trentina di pagine; ma la Sayers non aveva esitato a diluirla in un libro di trecentotrenta pagine, architettando una di quelle logore panzane su una donna che diventa bigama a sua insaputa, e conden ­do il tutto con dettagli di architettura sacra, brani di biz ­zarra erudizione libresca sui vari modi di suonar le campane, e quell’orrendo, bislacco chiacchierone di Lord Peter.

Avevo spesso sentito affermare che Dorothy Sayers scri ­veva bene, e capivo che i miei corrispondenti ci puntavano come sulla loro carta migliore. Ma in realtà non scrive bene per niente: solo è dotata di un maggior senso letterario del ­la maggior parte degli autori di gialli, ed è dunque inevita ­bile che si distingua in un genere che resta per lo più a un livello sub-letterario. Nell’ambito di una seria narrativa, il suo modo di scrivere non spiccherebbe affatto. Eppure, per quanto banale possa essere a questo riguardo, se la confron ­tiamo con la signorina Ngaio Marsh, la cui Overture to Death mi è stata consigliata anch’essa da parecchi corri ­spondenti, la Sayers può addirittura sembrarci una scrittrice di talento. Il De Voto si è messo nel novero di chi sostiene che la Marsh, al pari della Sayers e della Allingham, scrive i suoi romanzi in una « prosa eccellente », e questo, per me, spiega notevolmente le opinioni critiche del De Voto stesso. Prima non mi ero mai reso conto, pur avendone notato lo stile alquanto impuro, fino a che punto egli fosse sordo alla qualità dello scrivere. Non capisco come una persona con un minimo di sensibilità linguistica possa definire « prosa eccel ­lente » o semplicemente prosa, a meno che non voglia inten ­dere per tale quel che non è scritto in versi, l’immaginabile segatura che la Marsh ci ammannisce nelle sue pagine. Anche il libro della Marsh non è, per lo più, che farragine. C’è l’idea che si potrebbe commettere un assassinio sistemando un fucile dentro un pianoforte in modo che appena la vittima schiacci il pedale si spari addosso; ma tutto questo e sepolto fra i dialoghi e le azioni di certi artificiosi inglesi di provincia, ancor più noiosi di quelli di The Nine Tailors.

A questo punto l’amatore di gialli obietterà indignato che io li leggo in un modo sbagliato: che non devo preten ­derne qualità di stile, né caratterizzazioni, né interessi umani e neppure atmosfera. Senza dubbio ha ragione, benché io non ne fossi del tutto consapevole disponendomi a leggere Flowers for the Judge, considerato dagli intenditori uno dei migliori libri di uno dei maestri di questa scuola, Margery Allingham. L’ho trovato assolutamente illeggibile. Sia l’in ­treccio che lo stile erano talmente goffi e morti, che non riuscivo a concentrarmi nella lettura. Cosa può importarci di sapere chi possa aver commesso un delitto che non si è mai realmente verificato, dato che la scrittrice non possiede la minima capacità di farcelo vedere o sentire? Come pos ­siamo cercar di vagliare gli indizi di colpevolezza, se i perso ­naggi sembrano tutti uguali, non essendo altro che nomi sulla carta? Ho capito a questo punto che il vero intendi ­tore di gialli deve saper rinunciare a qualsiasi esigenza di immaginazione e di gusto letterario e prendere la cosa co ­me un semplice problema mentale. Ma come sia possibile giungere ad una siffatta disposizione d’animo, proprio non riesco a comprenderlo.

Alla luce di questa rivelazione, capisco che probabilmen ­te non ha senso dire che la lettura di The Burning Court di John Dickson Carr mi ha procurato maggior piacere di tutti i romanzi delle suddette signore. C’è un’aura di magia nera che conferisce al libro un certo interesse da sto ­ria dell’orrore, e l’autore è così abile nel giocare tra alterne ipotesi da rendere più divertente del solito questo trucco del ­la letteratura poliziesca.

Desidero comunque esaminare alcune osservazioni formu ­late dagli autori degli articoli da me ricordati.

Il Barzun informa il profano che il romanzo giallo è una specie di partita in cui il lettore di una certa storia, per es ­sere in grado di giocare adeguatamente la propria mano, dovrebbe conoscere bene tutti i trucchi già impiegati in al ­tri racconti. Tali trucchi sono, a quanto pare, vietati: il lettore deve sfidare lo scrittore a risolvere il problema in modo inedito, e lo scrittore impegna il lettore a cercar di in ­dovinare la nuova soluzione. Sarà così, ma io avrei scarse probabilità di cavarmela decentemente. Per conto mio, preferirei fare il giuoco delle venti domande, che se non altro non mi costringerebbe a sorbirmi centinaia di libri mal scritti.

Il Maugham, il De Voto e il Krutch sostengono dal canto loro che il romanzo è diventato così filosofico, così psicolo ­gico e così simbolico, che il pubblico si è visto costretto a ri ­volgersi al libro giallo come all’unico genere in cui sussista una vera narrazione.

Questa osservazione mi pare nasconda due sofismi. In primo luogo, non corrisponde sicuramente a verità il fatto che « gli scrittori seri di oggi » â— per citare il Maugham â— « hanno spesso », a differenza degli scrittori del passato, « pochi o punti fatti da raccontare », e che « si sono resi convinti che raccontare una storia sia una forma d’arte trascurabile ». È bensì vero che Joyce e Proust â— i quali, im ­magino, devono essere considerati i più indigesti fra gli scrit ­tori in circolazione â— hanno i loro svariati e moderni siste ­mi di annoiare e menar per il naso il lettore. Ma allora che dire dei tremendi pantani e degli ostacoli che bisogna superare in un romanzo di Walter Scott? e delle digressioni saggistiche di Hugo? e dello stillicidio di riflessioni sulla vita attraverso le quali si svolge, goccia a goccia, la vicenda dei libri di Thackeray? C’è forse qualcosa di altrettanto gratuito di simili lungaggini in uno solo dei migliori romanzi contemporanei? Anche Proust e Joyce e Virginia Woolf hanno delle vicende da raccontare, e hanno organizzato i loro libri con un’intensità che nella storia del romanzo è relativamente rara, e che a parer mio compensa più che largamente le loro occasionali viscosità.

In secondo luogo, sostenere che il medio libro giallo co ­stituisce un esempio di buona narrativa, mi sembra â— per i motivi che ho già esposti â— una colossale distorsione dei fatti. Le doti di narratore, come qualsiasi altra dote artisti ­ca, sono rare, e il solo fra questi scrittori â— fra gli scrittori lodati dai miei corrispondenti â— che mi sembri possederle in una certa misura è Raymond Chandler. Il suo Farewell, My Lovely, è il solo fra questi libri che io abbia letto per intero, e con piacere. Ma Chandler, benché nel suo ultimo articolo indichi il suo maestro in Hammett, in realtà non appartiene alla scuola del giallo tradizionale. Egli è piutto ­sto uno scrittore d’avventure, più che ad Hammett, vicino ad Alfred Hitchcock e Graham Greene, ossia al moderno racconto di spionaggio che al lussuoso mondo di E. Phillips Oppenheim sostituisce il terrore della Gestapo e della GPU. Non c’è soltanto un intreccio ad enigma, ma anche un senso di malessere che viene trasmesso al lettore, e l’orrore di una cospirazione segreta che si manifesta continuamente nelle combinazioni più svariate e imprevedibili. Per scrivere bene un romanzo del genere bisogna saper inventare personaggi ed episodi, saper creare un’atmosfera; e Chandler vi riesce, anche se è lontano dal livello di un Graham Greene. Solo alla fine del libro mi sono sentito riprendere dalla depres ­sione per questo tipo di narrativa; perché anche qui, come il più delle volte accade, la spiegazione del mistero non si rivela né abbastanza interessante, né abbastanza plausibile : non riesce, insomma, a giustificare l’interesse provocato dal ­l’elaborata costruzione di avvenimenti pittoreschi e sinistri, e non si può fare a meno di sentirsi defraudati.

La mia esperienza con questa seconda infornata di gialli è stata dunque ancor più deludente della prima, e debbo perciò concludere che questo tipo di lettura altro non è che una specie di vizio, che per la sua stupidità e il minor no ­cumento si pone a mezza via tra il vizio del fumo e quello delle parole incrociate. Questa conclusione è confortata dal ­la violenza stessa delle lettere che ho ricevuto. I lettori di gialli si sentono in colpa, stanno generalmente sulla difen ­siva, e tutte le loro chiacchiere sui gialli « scritti bene » non sono altro che scusanti per il loro vizio, non dissimili dalle ragioni che un alcolizzato sa sempre addurre per giustifica ­re un bicchierino in più. Una di queste lettere rivela una mania del tipo più franco e sfacciato: è di una signora che comincia, come tutti gli altri, con la pretesa di guidarmi nel ­la scelta, ma poi crolla e dichiara tutta la triste verità. Ben ­ché, per sua ammissione, ella abbia letto centinaia di roman ­zi polizieschi, « è sorprendente », confessa alla fine, « come siano pochi i libri che saprei raccomandare a un altro. Co ­munque, un misero giallo è meglio che niente. Faccia un altro tentativo. Con un po’ più di fortuna, ne troverà uno che le piaccia, Allora anche lei potrà diventare

Un patito dei gialli ».

Questa lettera mi ha fatto agghiacciare il sangue: non diversamente, il fumatore d’oppio dice al novizio di non preoccuparsi se la prima pipata lo farà star male; e per tranquillizzarmi, me ne torno di corsa alla piccola, ardimen ­tosa schiera di lettori che condividono le mie opinioni sul ­l’argomento. Uno di essi mi dice che ho sottovalutato sia la cattiva qualità di questi romanzi, sia la pigrizia mentale dei loro appassionati. La cosa peggiore, mi assicura, è che il lettore accanito di gialli nel cinquanta per cento dei casi non riesce neppure a indovinare chi è l’assassino: egli legge non via per scoprire qualcosa, ma unicamente per il lieve eccita ­mento che ricava dal succedersi di una serie di avvenimenti inattesi e dall’aspettativa di una sensazionale rivelazione. Che questo segreto sia un bel niente di niente e che non abbia la minima relazione con gli incidenti della storia, per un cultore del genere non conta nulla. Il lungo indulgere al vizio gli ha insegnato a farsi complice dell’autore nella frode: quando arriva la deludente rivelazione, lui non si cura di riflettere sui fatti e di controllarli, ma si limita a chiudere il libro e ad attaccarne un altro.

Ai lettori accaniti di gialli allora io dico: per favore, non scrivetemi altre lettere per dirmi che non ho letto i libri giu ­sti. E ai sette corrispondenti che sono del mio parere, dei quali alcuni mi hanno ringraziato per averli aiutati a libe ­rarsi da un’abitudine che loro stessi consideravano una per ­dita di tempo e una degradazione dell’intelligenza, ma di cui erano divenuti schiavi per conformismo e per l’enorme suggestione degli invocati esempi di Woodrow Wilson e di André Gide, a questi spiriti saldi e puri io dico: amici, rappresentiamo una minoranza, ma la letteratura è dalla nostra parte. Con tanti bei libri da leggere e da studiare e da co ­noscere, non c’è nessuna ragione di attediarsi con questo ciarpame. E con la penuria di carta che assilla gli editori e con tanti scrittori di prim’ordine che non riescono a farsi ristampare, faremo bene a scoraggiare lo spreco di questa carta, che potrebbe essere destinata a un uso migliore.

20 gennaio 1945

 

 


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Bart