LETTERATURA: I MAESTRI: Tobino e Dante4 Novembre 2017 di Claudio Marabini [da: La Nazione, venerdì 25 ottobre 1974] Saltando a piè pari la filologia, da chi altri avremmo po Âtuto tollerare una vita di Dante? A prendere di petto Dante, a dire che era bello, a scrive Âre la storia « sacra » della sua intera vita occorreva un poeta, e un poeta strapieno della mu Âsica della bellezza e della poe Âsia. Occorrevano una fede re Âligiosa nel mito dantesco e quel senso musicale della lin Âgua e del narrare che è tipico della favola. Occorreva un aedo, un rapsodo che sostituisse con musica di pure parole la mu Âsica assente dell’antica cetra, e che avesse la forza di im Âmaginare davanti a sé l’uditorio incantato, a cui rivolgersi di-| rettamente. Ne sarebbe uscita la vita d un santo, alla maniera di quel le del Trecento, edificanti e favolose, o il cavalleresco poema di un eroe, in ottave dissolte in quella musica. Oppure l’arazzo araldico di una intera epoca e del suo interprete, tra forti colori, leggiadria di se Âgni, grande armonia d’insieme Occorre credere soprattutto che la poesia viaggi per le stra Âde del mondo con un marchio speciale sulla fronte. Occorre credere che il poeta è un uomo diverso, una specie di semidio che emana luce, spande intorno grandezza e armonia, scopre la verità e la giustizia, indica il bene tra il quotidiano disor Âdine della realtà . Non solo: ma rende oro tutto quello che toc Âca, oro eterno, sicché ogni co Âche l’ha sfiorato non finirà mai. Per questo non basta un nor Âmale discorso letterario, una prosastica narrazione intessuta di parole e di immagini comu Âni. Si rende necessario un di Âscorso di tono superiore, con immagini più rare e più belle. Occorre cercare sfumature, co Âlori, pà tine, luccichii, e fru Âgare nei fondi più antichi della metafora per svelarne significati dimenticati e per rinno Âvarli, così come si rinnovano e tornano a brillare certi me Âtalli rimasti sepolti per secoli o millenni. Ecco allora che il cervello bollente di grandi idee del poeta diventa una « ruota di mulino mossa da profonda gora ». Ecco che in Firenze « i venti della lussuria, invidia, su Âperbia, avarizia, fischiano per le sue strade, si infilano per ogni porta socchiusa, per ogni spiraglio di finestra… ». Ecco che un papa, Bonifacio, per im Âpadronirsi di Firenze, vuole « conficcare di più gli artigli ». Ecco  che  mentre  il  poeta  si trova   in   Romagna,   presso   la « segreteria   degli    Ordelaffi », volgendo sfavorevolmente il destino,   « l’ago  batte   al  tempo scuro,   all’acqua   tinta ».   Ecco che l’anima dei re diventa un sorta di oscuro sacrario: « Ma cortigiani sanno leggere nei silenzi dei loro re, come avessero in mano una torcia camminano nei sotterranei della lori anima ». A chi, se non a Mario Tobino,  di  creare  questa  « sacra favola » di Dante? Io non conosco   poeta   e   narratore   che come Tobino abbia conservati nel sangue la sacra retorica popolare,  il gusto favoloso delle cose grandi e belle, e l’orecchio musicale  degli   antichi  cantari. Tutto quello che Tobino tocca s’allontana,   s’impreziosisce,   si imbelletta di pà tine e di smalti. La realtà si trasfigura, forza i suoi caratteri, tende ad esaltarsi. Egli può parlare dei suo matti,   degli   eroi   del   deserto della Libia o della sua antica saga  familiare:   uomini e cose salgono su una ribalta dominante, in cui gli uomini parlano con un tono di voce più alto e le cose assumono valori inconsueti.   Il  senso  popolare  della sua letteratura gode delle virtù estreme    dell’anima    popolare dei  grandi  incantesimi  e delle plebee violenze, delle dolcezze raffinate e dei sacri sdegni, del Âle eleganze più leggiadre e dei beffardi anatemi. Il suo Dante, sottoposto al titolo Biondo era e bello (Mondadori), che è già di per sé un titolo fiabesco e araldico, è anche un Dante incontrato per strada, sentito ricordare ai crocicchi, alle osterie, alle cancellerie, alle corti. E’ un fanta Âsma che Tobino sente per i viottoli della sua Toscana e che ogni giorno controlla nel Âla parlata della gente e nelle facce La sua poesia, vale a di Âre la sua diretta parola, vibra ancora nell’aria: i versi della « Divina Commedia » prendo Âno vita sulle labbra del popolo. Questo Dante lo si può an Âcora toccare e udire come un viandante che all’improvviso si affianca al nostro cammino. Poi, da questo fondo di an Âtica provincia e di antico mon Âdo popolano, si stacca il mito, la favola sacra, Tonda mu Âsicale della celebrazione della poesia e del suo sacerdote. Ed ecco che il poeta Tobino misura il passo su quello dell’antico maestro dei maestri, come lui fece con Virgilio, e sale il col Âle della Poesia, quella che nel suo cuore non tramonta mai. E Dante, brutto, nero, piccolo, un po’ bistorto, sdegnoso, ta Âciturno, superbo, diventa bello e biondo, alto e sereno. Il lettore non crede al poeta Tobino ma gli sta dietro volentieri perché sente che la sua passione è pulita e rara. Sente che Dante è un tramite e che il vero protagonista è la Poe Âsia. E allora plaude a Tobino e al libro, oggi che di poesia non si parla più, come si plau Âde agli eroi di un tempo che non si vorrebbe veder finire.
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