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LETTERATURA: I MAESTRI: Un lungo discorso su Jane Austen

12 Febbraio 2019

di Edmund Wilson
[da “Saggi letterari – 1920-1950”, Garzanti, 1967]

Nell’ultimo secolo sono state parecchie le rivoluzioni del gusto che hanno segnato la storia delle lettere inglesi, e in tutto questo periodo solo due forse sono le glorie che non siano state toccate dal mutar delle mode: quella di Shakespeare e quella di Jane Austen. Il giudizio di Scott su que ­st’ultima, così come il giudizio di Ben Jonson su Shakespeare, sono tuttora da noi condivisi. Da Scott, Southey, Cole ­ridge e Macaulay (per non dire del principe reggente che teneva una raccolta delle sue opere complete « in ognuna delle sue residenze ») fino a Kipling, George Moore, Virginia Woolf ed E.M. Forster, la Austen ha suscitato la viva ammirazione di scrittori delle più diverse tendenze; direi anche che Jane Austen e Dickens sono oggi, per strano che possa sembrare, gli unici due romanzieri inglesi (anche se non i soli romanzieri di lingua inglese) all’altezza dei grandi nar ­ratori russi e francesi. Jane Austen, come disse una volta Stark Young, costituisce forse il solo esempio inglese di quel ­lo spirito della commedia classica che è più consono ai po ­poli latini che non al nostro e che per la Francia è rappre ­sentato da Molière. È una delle più bizzarre anomalie, fra le molte della storia letteraria inglese, il fatto che tale spi ­rito si sia manifestato in Inghilterra nell’anima di una zitella di buona famiglia, figlia di un ecclesiastico di campagna, che del mondo non conobbe mai più di quanto le fu consentito da qualche breve visita a Londra e da alcuni anni di soggiorno a Bath e che trovò l’argomento dei suoi ro ­manzi prevalentemente nei problemi di ragazze di provincia in cerca di marito.

Due colleghe di Jane Austen, in quanto esse stesse scrittrici di romanzi, e precisamente G.B. Stern e Sheila Kaye-Smith, le rendono ora un doveroso omaggio nel loro libro Speaking of Jane Austen. Sia la Stern che la Kaye-Smith hanno letto e riletto a fondo i sei romanzi della scrittrice e conoscono a menadito ogni connotato, ogni discorso e ogni gesto di ogni suo personaggio. In quest’opera esse affrontano il loro argomento sotto molteplici aspetti, in una serie di capitoli alternati che fanno un po’ l’effetto di un dialogo. La Kaye-Smith si interessa in modo particolare del conte ­sto storico dei romanzi: pertanto ella riferisce parecchie co ­se interessanti sugli abiti e sui cibi dell’epoca e sulla posizione sociale degli ecclesiastici, oltre a riflettere, pur in modo scarno e vago, gli sconvolgenti avvenimenti politici verificatisi negli anni in cui Jane Austen visse. La Stern si preoc ­cupa invece maggiormente dei personaggi, dei quali parla a volte come di persone realmente esistite, classificandoli se ­condo criteri propri e ipotizzando sulle loro possibili vicen ­de al di fuori dello stesso contesto narrativo; a volte ella muove le sue critiche secondo un punto di vista di scrittrice che in certi casi vedrebbe la situazione in modo un po’ diverso, modificando o rimpolpando un personaggio o attribuendo ad una protagonista un innamorato diverso. Le due autrici discutono insieme il grado di merito dei vari roman ­zi, convenendo che Pride and Prejudice va messo non in ci ­ma ma piuttosto in fondo alla classifica, e in parte concor ­dando e in parte no su quelli che sono i personaggi meno riusciti; svolgono delle osservazioni sul linguaggio della Au ­sten e ne sottolineano alcuni abilissimi quanto discreti toc ­chi; inoltre cercano di immaginare le figure di certi perso ­naggi che, pur menzionati, non appaiono mai ed hanno architettato un terrificante questionario a cui ben pochi let ­tori, suppongo, saranno in grado di rispondere. Il libro contiene pertanto molte cose che interesseranno a coloro cui interessa Jane Austen, benché né la Stern né la Kaye-Smith, a quanto mi sembra, trattino l’argomento con profondità adeguata. La mia impressione è che il lungo studio su Jane Austen, recentemente pubblicato da Queenie Leavis nella ri ­vista inglese Scrutiny, riesca a coglierne lo sviluppo artistico in un modo che la Stern e la Kaye-Smith, le quali non ci ­tano il saggio della signora Leavis, non hanno nemmeno tentato. Tuttavia Speaking of Jane Austen, considerato al ­la stregua di un repertorio di materiali, ravviva l’entusia ­smo del lettore e lo invita a riflettere sui problemi proposti dalle due autrici. Mi siano peraltro consentiti alcuni commenti che porranno in evidenza alcuni di questi problemi:

1)             I sei romanzi di Jane Austen furono scritti in due cicli di tre ciascuno, divisi da un intervallo di una decina di anni: Pride and Prejudice, Sense and Sensibility e Northanger Abbey, da un lato; e Mansfield Park, Emma e Persuasion, dall’altro. I romanzi del primo gruppo, sia per la loro vena comico-satirica che per la commozione di Sense and Sensibility, sono molto vicini al Settecento; mentre invece quelli del secondo gruppo, per il loro acume psicologico e per certi   tratti   di   realismo   come   l’episodio di Mansfield Park in cui Fanny rientra nella sua volgare famiglia, si avvvicinano molto di più al genere cosiddetto « moderno ». Nel seondo gruppo il personaggio comico tipo Lady Catherine de Bourgh che in certi momenti, come rileva la Stern, scade nel tono di una vecchia commedia, tende a dar luogo ad un’altra specie di ritratto â— come nel piccolo paese di campagna di Emma â— che si discosta dalla caricatura e si qua ­lifica piuttosto come bozzetto di vita quotidiana, mentre in Persuasion si manifestano una sensibilità paesistica ed una delicatezza di sentimento nettamente romantiche. Non è ve ­ro che, come si è lamentato a volte, la Austen fosse insensi ­bile alla natura, benché fra i suoi libri soltanto l’ultimo romanzo citato lasci nel lettore un preciso ricordo della sua ambientazione. A proposito di Persuasion la Kaye-Smith ri ­leva che « l’atmosfera e lo scenario riflettono in parte la violenza emotiva di cui tutto il libro è permeato ». Ma entrambe le autrici sembrano considerare i romanzi, anziché nei termini di una sequenza, come un insieme sincronico. Quel che non trovo in Speaking of Jane Austen è una benché minima spiegazione dei successivi passaggi, letterali e psicologici, che portarono la Austen da Pride and Prejudice a Persuasion.

2) Le autrici del libro in esame ritengono che ci sia qualcosa di sbagliato in Mansfield Park, ed hanno molte cose da dire a questo riguardo. Secondo loro la figura principale, Fanny Price, una parente povera che si sacrifica ad un’agiata famiglia di campagna, è troppo modesta â— troppo « to ­pino », dice la signorina Kaye-Smith â— per essere una protagonista che riscuota le piene simpatie del lettore; e per ­tanto l’autrice stessa avrebbe adottato in questo caso un in ­solito e piuttosto farisaico atteggiamento nei confronti dei personaggi più allegri e sofisticati. La Kaye-Smith cerca di spiegare tale atteggiamento con l’ipotesi che Jane Austen sarebbe stata in quel periodo sotto l’influenza del Movi ­mento Evangelico, ripetutamente menzionato.

Questo tipo di critica a Mansfield Park lo conosco già bene: a quanto sembra costituisce una reazione tipica e si ­stematica di ogni lettore di sesso femminile; tuttavia non ho mai ritenuto particolarmente importanti obiezioni del gene ­re, né si è affievolita la mia convinzione che Mansfield Park sia tra i romanzi della Austen il più vicino alla perfezione. È vero che non lo leggo da trent’anni, per cui ho avuto tempo di dimenticare i moralismi che disturbano le signo ­rine Kaye-Smith e Stern, ma le sensazioni di cui mi ricordo furono allora di carattere puramente estetico: il piacere di mettere a fuoco quel complesso gruppo di personaggi attra ­verso l’ingenuo sguardo di Fanny, l’armonioso equilibrio in cui si collocavano le diverse note dei personaggi, ora sinto ­nizzate, ora in contrasto. Io credo che, nei confronti dei per ­sonaggi femminili di Jane Austen, il punto di vista dei let ­tori uomini sia in certo qual modo diverso da quello delle donne. La lettrice tende ad autoidentificarsi con la protago ­nista, e pertanto si ribella all’idea di essere Fanny; il lettore invece, oltre a non mettersi nei panni di Fanny, non si figu ­ra nemmeno di sposarla, così come non si figura di sposare la bella ragazzina di What Maisie Knew di Henry James, romanzo in qualche modo assai somigliante a Mansfield Park. Quel che per un uomo è interessante nei personaggi femminili della Austen è la meravigliosa galleria di ritratti di tipi diversi di donne; e Fanny, con la sua modestia, con la sua pedanteria, e la sua buonafede ingenua e commoven ­te, costituisce il perfetto ritratto di un tipo di donna.

Indipendentemente dal tono che a volte Jane Austen può assumere, quel che emerge dal libro e gli conferisce validità sono personaggi visti obiettivamente, forma e movimento esteticamente concepiti. È questo che distingue nettamente Jane Austen da tante altre autrici di romanzi â— sia, come l’autrice di Wuthering Heights o quella di Gone With Wind, che impongano la loro forza mediante la proiezione dei loro femminili sogni ad occhi aperti, sia che, come in Evelina o Gentlemen Prefere Blondes, ci vogliano divertire scimmiot ­tando il prossimo. La Austen è quasi unica fra le scrit ­trici di romanzi a dimostrare un profondo e tenace interesse, non per le surrogative soddisfazioni del sentimento (anche se il tema di Cenerentola figura in più d’un suo romanzo) né per l’abile sfruttamento del pettegolezzo, ma â— come nei grandi romanzieri â— per il romanzo come opera d’arte.

3) Emma, romanzo prediletto dalla Stern e dalla Kaye-Smith, è per Jane Austen quel che Amleto è per Shakespeare: è insomma, fra i suoi libri, quello che suscita nei lettori le reazioni più contrastanti, in quanto essi tendono o ad esaltarlo in modo indiscriminato o a trovarlo noioso, infor ­me e complicato. Ciò si spiega a mio parere, come nel caso dell’Amleto, col fatto che c’è qualcosa fuori del quadro che nella storia non è mai detto ma che il lettore deve indovi ­nare per poter apprezzare il libro. Molte lettrici avvertono istintivamente la legittimità psicologica del comportamento attribuito a Emma, e sono appunto quelle che ammirano il romanzo. Alcuni lettori di sesso maschile, come il giudice Holmes, che era certamente un conoscitore di romanzi e che tuttavia scrisse a Sir Frederick Pollock che « a parte Miss Bates » lui era « annoiato di Emma », non riescono invece mai a compenetrarsi nella vicenda «in quanto non riescono a capirne il senso ». Perché Emma raccoglie le sue due pro ­tette? Perché si da tanto pensiero a loro riguardo? Perché si sbaglia a tal punto sulla verità dei fatti e prende certe ridi ­cole cantonate sul loro conto? Perché le ci vuol tanto tempo per addivenire al logico ravvicinamento con Knightley?

La risposta è che Emma non ha interesse per gli uomini, se non in termini di rapporto paterno. A farle da padre, in effetti, c’è una stupida vecchia: in casa è la stessa Emma che, essendo orfana di madre, tiene le redini della famiglia; è lei che prende il posto del genitore ed è il signor Woodhouse che diventa il bambino. È Knightley che la controlla e la rimprovera, che presiede ai suoi passi nel mondo; e lei lo accetta come sostituto del padre: infine lo sposa e lo porta in casa, dove egli viene a consolidare la posizione del signor Woodhouse. La Stern vede le difficoltà di questa stra ­na situazione. « Oh, Miss Austen, » ella geme, « non era una buona soluzione; è stata una cattiva soluzione, un tri ­ste finale, se appena potessimo vedere oltre le ultime pagine del libro. » Ma fra i contrattempi da lei previsti non elenca quello che sarebbe stato certamente il peggiore. Emma, relativamente insensibile agli uomini, era invece soggetta ad infatuazioni per le persone del suo sesso; e quale ragione c’è di credere che il matrimonio con Knightley le impedirà di continuare come per il passato? Di scoprire, ad esempio, un’altra giovane signora del fascino di Harriet Smith, che domini la sua personalità e di collocarla in un suo mondo in cui le attribuirà tutti gli immaginari vantaggi possibili, ma che non avrà connessione alcuna con la sua condizio ­ne o le sue reali possibilità? Questo irriterebbe certamente Knightley e lo metterebbe senz’altro in grave imbarazzo. Sarebbe fortunato a non trovarsi sulle spalle, insieme agli altri fastidiosi aspetti della situazione, una delle giovani protette di Emma come effettiva componente della famiglia. Non è mia intenzione suggerire per Emma alcuna spe ­cifica formula freudiana, ma sono certo che è il solo roman ­zo della Austen in cui il particolare « condizionamento » dell’autrice si rivela nel modo più singolare e più chiaro. Jane Austen passò tutta la vita con persone a lei consan ­guinee â— i genitori, i cinque fratelli, la sua unica sorella non sposata â— e l’esperienza alla base dei rapporti da lei immaginati nei suoi romanzi è sempre un’esperienza di pa ­rentela consanguinea, e il legame fra sorelle è il più profondamente sentito. Le signorine Stern e Kaye-Smith concor ­dano con George Moore che l’amore di Marianne per Willoughby in Sense and Sensibility è il momento più appassio ­nato di Jane Austen; ma non è piuttosto la commozione di Elinor di fronte al disastro della sorella anziché quella di Marianne per Willoughby a raggiungere con più efficacia il lettore? Lo stretto reciproco legame delle due sorelle è il vero motivo centrale del libro, così come in Pride and Prejudice il rapporto di Elizabeth con le sue sorelle costi ­tuisce una componente fondamentale. Benché l’intelligenza della Austen fosse libera di seguire e comprendere altre donne innamorate o felicemente sposate, a caccia di marito o col cuore infranto, essa sembra in realtà sempre attaccata alla trama dei suoi legami familiari d’origine. Ad un qualche particolare equilibrio del genere, che non sentì mai la necessità di sovvertire, ella dovette probabilmente in parte quella freddezza, pazienza, ponderatezza, quella distensione mentale di uno scrivere fine a se stesso, che le consentirono di diventare una grande artista. La premurosa sollecitudine con cui la savia Elinor Dashwood sorveglia la sua stordita sorellina Marianne diventa col tempo il distaccato interesse dell’autrice che guarda alle avventure delle sue eroine. Nel suo ultimo romanzo, Persuasion, si ritrova un diverso ele ­mento e si avverte una personale commozione dell’autrice â— una sfumatura di tristezza per la mancata realizzazione del ­la personalità di una donna â— ma il modello è ancora in gran parte lo stesso. Anne Elliot è anche lei una giovane sorella: anche lei ha una sorella maggiore, Lady Russell, « che al pari di Emma ha sviato la sua protetta, in questo caso distogliendola dal matrimonio e quasi rovinando la sua vita. La Stern e la Kaye-Smith non si curano molto di La ­dy Russell come personaggio; ma è un personaggio che do ­vrebbe essere seriamente considerato come espressione di un motivo importantissimo in Jane Austen:     quella   che è in Emma la commedia del falso rapporto fra le sorelle diventa qui qualcosa di quasi tragico.

24 giugno 1944

 

 


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