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LETTERATURA: STORIA: I MAESTRI: Un tale Roussel

3 Novembre 2018

di Leonardo Sciascia
[dal “Corriere della Sera”, giovedì 29 ottobre 1970]

Le curiose coincidenze, le piccole inquietanti fatalità. Nel 1964, appena pubblicate presso Rizzoli le Impressioni d’Africa di Raymond Roussel, Mauro De Mauro, il giornalista misteriosamente scompar ­so, e sulla cui scomparsa da più di un mese i giornali si arrovellano, svolgeva per il suo giornale una inchiesta sulla morte dello scrittore francese. Com’è noto, Roussel morì a Palermo, nella notte tra il 13 e il 14 luglio del 1953, nella camera 224 del Grand Hotel delle Palme. De Mauro cominciò la sua inchiesta dall’ufficio di Stato Civile del Comune, dove nel registro degli atti di morte si legge che Raymond Roussel, fu Eugene e fu Marguerite Chalon (ma il cognome della ma ­dre era Moreau-Chaslon), nato a Parigi, celibe, possidente, 56 anni, decedeva il 14 luglio all’Hotel des Palmes (un trattino sull’ora del decesso) e che la rimozione della sal ­ma, e l’inumazione al cimi ­tero dei Rotoli, era stata autorizzata dal pretore Mar ­giotta. De Mauro cercò il Margiotta, che da consigliere di corte d’appello si era di ­messo ed esercitava l’ufficio di notaio: e si ricordava be ­nissimo del caso, raccontò i particolari che lo avevano colpito e praticamente fermò l’inchiesta del giornalista di ­cendogli che il fascicolo degli atti relativi da lui compilato sula morte di Roussel con tutta probabilità non esisteva più negli archivi del tribu ­nale: « gli atti relativi non si conservano, si conservano gli atti dei casi in cui sia confi ­gurata anche la sola ipotesi del reato o del suicidio ». De Mauro non cercò dunque gli atti relativi.

Qualche giorno prima che De Mauro scomparisse, Ser ­gio Morando mi chiese, per uno studioso francese che sta scrivendo una biografia di Roussel, una copia dell’atto di morte di Roussel. L’ebbi; e non sapendo (fortunatamen ­te) dell’inchiesta di De Mau ­ro, mi venne voglia di farla per mio conto, a distrarmi da un lavoro che cominciava ad annoiarmi. Un mio amico av ­vocato si incaricò di fare una ricerca nell’archivio del tribu ­nale: non sperando però di trovare quel fascicolo che in ­vece stava lì, scampato al ma ­cero. Il mio amico l’ha avuto per un momento tra le mani, l’ha sfogliato: ma per leg ­gerlo, per copiarlo, occorre l’autorizzazione del procura ­tore della Repubblica. Pre ­sentata la regolare richiesta, la decisione spetta al magi ­strato che in questo momento si occupa appunto del caso De Mauro. E non è proprio il momento per sollecitarglie ­la. Purtroppo, però, pare sia consuetudine degli uffici giu ­diziari rifiutare simili autoriz ­zazioni. E non so fino a che punto tale consuetudine giu ­stamente interpreti la legge, ma a lume di buon senso è senz’altro assurda. Gli atti relativi non si conservano, non si versano negli archivi di Stato, si possono mandare al macero (cioè dare in mano a persone che non hanno niente a che fare con l’am ­ministrazione della giustizia): ma non possono essere letti da uno studioso, da un gior ­nalista, se non settant’anni dopo la morte della persona cui si riferiscono. Nel caso di Roussel, questi atti sarebbero visibili nel 2003: ammesso che fino a quell’anno scam ­pino al macero.

Pare si possa affermare, comunque, che gli atti rela ­tivi alla morte di Raymond Roussel non arrivino a confi ­gurare l’ipotesi del suicidio. Roussel era un barbituromane, e morì per una dose, forse in sé eccessiva o forse tale da provocare una imponde ­rabile e fatale combinazione o saturazione, di Sonéryl. Vero è che giorni prima ave ­va tentato di suicidarsi ta ­gliandosi le vene dei polsi con una Gillette: ma il cameriere ricorda che rideva mentre lo soccorrevano, e forse aveva voluto provare se era facile morire (lo disse: che era una piacevole sorpresa constatare quanto fosse facile morire). E del resto, secondo il ricor ­do del cameriere, « si era ta ­gliato le vene dei polsi nella vasca da bagno, e subito do ­po aveva chiamato aiuto ». Una prova, quasi uno scherzo.

La sera del 13 luglio aveva invece tutte le ragioni per prendere una buona dose di sonnifero. Era stata una gior ­nata calda. E la notte, come sempre, nonché far scendere la temperatura, la caricava di insopportabile umidità. Ed era la vigilia del « festino », della festa cittadina in onore di santa Rosalia. Il balcone della camera di Roussel si affacciava sulla via Mariano Stabile, di solito rumorosa e in quella vigilia particolarmente. Bisogna poi aggiungere che quel 13 luglio del 1933 doveva essere stato ben noioso per uno straniero, e per un francese, nella città eccezionalmente imbandierata, eccessivamente patriottica, ec ­cessivamente inneggiante al duce e alle « meteore tricolori » che sorvolavano l’Atlan ­tico. Erano infatti i giorni della « trasvolata atlantica » di Balbo: l’Italia veramente esultava, era in festa; e figu ­riamoci Palermo, dove la fe ­sta patriottica veniva a com ­binarsi con l’antico « festi ­no ». (Ma aveva la meglio Balbo o santa Rosalia? Stan ­do ai giornali, i palermitani non tripudiavano che per la trasvolata; conoscendo i pa ­lermitani, quei vortici di ban ­diere e gagliardetti, quei gor ­ghi di clamore patriottico, saranno stati considerati co ­me un nuovo elemento di glorificazione della « Santuz ­za »).

Ce n’era abbastanza, co ­munque, per un uomo come Roussel. Sarà stato colto, con un anticipo di quattro anni, da quella noia che con esito fatale coglie, in un albergo di Caltanissetta, il professor Do ­menico Vannantò, personag ­gio quasi autobiografico di un racconto di Brancati: e il « quasi » vale per il colpo di pistola con cui Vannantò mette fine alla sua noia. « Chi non conosce la noia, che si stabilì in Italia nel 1937, manca di una grave espe ­rienza che forse non potrà avere più mai, nemmeno nei suoi discendenti, perché è difficile che si ripetano nel mondo quelle singolari con ­dizioni ».

Naturalmente, questa della noia del ’33, e che Rous ­sel l’abbia insopportabilmente sentita in quel 13 luglio, è soltanto una mia fantasia. Ma non del tutto gratuita, consi ­derando i dati oggettivi della giornata in rapporto al tem ­peramento e alle idiosincrasie di Roussel. Che i tempi fos ­sero noiosi, non c’è dubbio. Che ancora di più lo fossero quelle giornate di spontanea e insieme obbligatoria esul ­tanza nazionale, il ricordo che ne abbiamo non contraddice.

Io avevo dodici anni e non mi annoiavo: esultavo anch’io, anzi; vestito da balilla e col moschetto finto in ma ­no. Ma se di anni ne avessi avuto cinquantasei, quanti ne aveva Roussel, mi sarei an ­noiato a morte. A morte, per dire. Roussel, coi barbiturici a portata di mano, per fare.

Il fatto stesso che in Italia non ci si potesse annoiare, che fosse vietato di dirsi an ­noiati, che ci si dovesse con ­siderare fortunati di vivere in un tempo eroico e meravi ­glioso, refrattario agli abban ­doni, alla stanchezza, alla noia: questo faceva sì che la noia scendesse sulla vita co ­me una colata di cemento a presa rapida. E che la noia fosse vietata sul territorio nazionale anche agli stranieri, e che uno straniero non do ­vesse sentire in Italia cedi ­menti e stanchezze, è com ­provato dal fatto che i giornali non diedero notizia della morte di Roussel. Nemmeno il sospetto, bisognava dare, che uno in Italia potesse met ­tere fine alla sua vita. Nem ­meno un francese: e tanto più che proprio il giorno in cui sarebbe dovuta apparire la notizia della morte di Roussel, a Palazzo Venezia veniva firmato il « patto a quattro ». La cronaca cittadi ­na registra dunque l’infelicità di un barbiere in seconde noz ­ze, il calcio di un mulo, un agente di assicurazione basto ­nato, un rinvenimento di scheletri sotto il selciato di una piazza. E il successo di Anna Fougez nella rivista Per voi signore. Che all’alber ­go delle Palme fosse morto un tale Roussel, benestante, imparentato col duca della Moscova, autore di un libro (rinvenuto in più copie in ­tonse nella camera) intitolato Locus Solus, restò un segreto tra il personale dell’albergo, i due medici che fecero le constatazioni di legge, il com ­missariato di piazza Politea ­ma e il pretore Margiotta.

 


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Bart