LETTERATURA: I MAESTRI: Una notte su Monte Cavo22 Dicembre 2018 di Giorgio Vigolo Un’idea strana ma affasci nante si era impadronita tan ti anni fa della mia fantasia: che le nuvole possano vibra re di una loro musica tenuissima, che dei singolari fe nomeni di rifrazione acusti ca vi si possano verificare, degli echi, delle iridescenze foniche. Quale musica vibra nelle nuvole, per esempio, quando vi si rifrange un arco baleno? Probabilmente l’iride che noi vediamo non è che l’e quivalente luminoso, visibile d’una vibrazione che non ascoltiamo ma che sarebbe ascoltabile in condizioni acu stiche privilegiate. Se avessi mo un udito straordinariamen te fine e addestrato, chissà che non potremmo percepire la musica delle nuvole, come ne vediamo i colori e le forme. Forse alcuni uccelli la ascol tano, allo stesso modo che le aquile sono dotate di una vista potentissima. Essi volano in un cielo melodioso. Es si ascoltano i mattutini delle nuvole e i loro vespri al ca lare della sera. Questa idea mi era venu ta a Roma, improvvisamente una mattina di novembre al primo rompersi della stagio ne. Mi ero svegliato sentendo una grande pioggia tenebrosa, un diluvio fitto, uguale scen dere da un cielo tutto chiuso. Pareva impossibile che fosse lo stesso cielo, le stesse nu vole che avevo veduto dal Gianicolo la sera prima con quei colori splendenti e quel le forme straordinarie di oro, di viola, di scarlatto che pos sono prendere in una sera d’autunno. Adesso mi sem brava strano che da quelle stesse nuvole, da quel cielo di favole, scendesse tutta quel la pioggia di cui ascoltavo lo scroscio. Lo ascoltavo con una singolare ebrezza, come una nota d’organo che pure sentivo ricca di infiniti armo nici. Era già una prima tra sformazione della luce in suo no, ma a me pareva di essere sulla soglia di una metamor fosi più meravigliosa ancora, in cui quell’accordo uniforme, quel pedale profondo della pioggia mi si sviluppasse sin tonicamente in qualche cosa di analogo alla luce e ai colori delle nuvole nel tramonto au tunnale della sera prima. * Questa idea, che sarebbe dovuta piacere a Baudelaire, l’avevo segretamente confida ta a un paio di amici. E con loro fu fatto il progetto di tentare una notte l’avventura dall’alto di un monte da dove si potessero ascoltare quei pro babili fenomeni acustici più da vicino. E si pensò che la vetta più alta dei Colli Alba ni, l’antica e leggendaria ci ma di Monte Cavo, poteva es sere la più adatta: â— quella vetta, indubbiamente carica di magnetismo con i due la ghi al di sotto, e spesso incap pata di nuvole. Di lì gli anti chi abitatori sentivano scen dere delle voci arcane che prendevano per oracoli. L’episodio che sto per rac contare accadeva in un tem po ancora quasi puro di mac chine. Non ci si spaventava allora all’idea di raggiungere a piedi la vetta di Monte Cavo da Roma in una mezza gior nata di buon cammino. Ricor do la partenza che si fece di primo mattino, il ponte pas sato dai Prati di Castello, con i pianeti ancora fulgidi in un cielo verde che si spec chiava nel Tevere. Si faceva del resto un passeggiare piace volissimo, sempre vivo di di scorsi, di dialoghi. Si cantava anche ricordando pezzi di musica strumentali e sinfonici ai cui motivi si annetteva un grande valore non solo musi cale ma quasi direi ontologico. Si mettevano così insieme dei veri concerti a più voci, cam minando per la campagna, con l’ingenuo entusiasmo che biso gnasse fare ascoltare Beethoven anche alla natura, ai ci pressi e alle pietre della via Appia. Si parlava poi con passione di queste musiche e delle letture di scoperta che si stavano facendo di poeti e di filosofi. I poeti si sapevano a memoria. Tutti codesti ele menti si fondevano nel go dimento del paesaggio, letto anch’esso come poema e scan dito al ritmo naturale e uma no del camminare; e non man cavano nemmeno le confor tevoli fermate in qualche per gola o in qualche grotta dove la molta strada fatta e la fame dei vent’anni trovavano il loro giusto epilogo conviviale. In una pergola albana a picco sul lago si era fatto il desinare dell’una; la cena in vece in una grotta di Nemi fumosa e assiepata di nere botti. Ricordo l’impressione che provammo, uscendo da quel l’antro, a respirare il fiato umi do della campagna e dei bo schi annottati. Cominciammo la nostra ascensione per sen tieri malcerti, muovendo da una località, da un crocevia che si chiamava e credo si chiami ancora: Fontana Tem pesta. Finimmo col perderci nel più fitto delle boscaglie. L’u nica direzione da seguire era di arrampicarci per le balze, per l’erte, per le forre nella speranza di arrivare a qualche pianoro aperto, dove, allargandosi le piante, fosse visi bile a picco su di noi la vetta del monte. Ma la macchia si faceva sempre più stretta e per ore andammo alla ventura fra tronchi e virgulti al buio, sen za vedere più nulla. Solo si sentiva, tutt’intorno, uguale, la pioggia affondare nella cupa verdura, penetrare dentro i cespugli fino ai piccoli fiori spenti che mormoravano sot tovoce le loro notturne ora zioni. Dopo non so quanto tem po, i tronchi cominciarono a diradare, i fogliami si apri rono e sboccammo sopra una sporgenza, su una rupestre gobba del monte: sopra di noi, quasi a piombo, torreggiava su querciosi macigni la vetta. La raggiungemmo prendendo di petto tra radiche e scheggioni di tufo l’ultima e più ardua balza dell’ascensione. Dal ciglio di quel balcone sul Lazio scrosciava nel buio la cascata dei boschi e si perdeva verso l’orlo della pianura sul lontano Tirreno. * Quella distesa di una ventina di miglia, a vederla oggi di notte da quelle medesime alture, è tutto un fitto bruli chio, un mare di lumi, una scintillante immensa vetrina di gemme. Ma allora in quegli anni lontani fra i colli e la città c’era il deserto e il nero della notte. Solo all’estremo di quella fitta tenebra, lag giù, come una lieve costella zione azzurrina baluginavano i lumi della città. Per tutta quella distanza nel cielo, una sola grande tettoia di nuvole pesava, spessa e tirata, ma il suo bordo dalla nostra parte era così accosto alla vetta che quasi si toccava. A stendere una mano, pareva di strap parne dei fiocchi lanosi, dei bianchi ciuffi di nuvole. Fu allora in quel silenzio assoluto, tendendo l’orecchio, appoggiandolo quasi sulla fol ta felpa delle nuvole, vi sen timmo formicolare dei brusii, dei bisbigli, degli echi, dei murmuri infiniti come in una conchiglia. Una città di suoni vibrava riflessa nella nuvola, il suo doppio sonoro era capo volto nell’aria, come per una speculare rifrazione fonica. Il fenomeno previsto avveniva in quella straordinaria notte su Monte Cavo. Ma a renderlo possibile aveva certo contri buito oltre agli elementi atmosferici anche l’altro polo della nostra non comune ri cettività. La nuvola che per l’intera giornata aveva covato la città continuava ora a vibrarne come organo appena finito di suonare. Gli spettri dei rumori vi s’ingolfavano e giravano a vortici, a spirali, a sinusoidi, nella più singolare delle musiche elettroniche: strani fonèmi, parole, frammenti di frasi rapiti a volo dalle strade, un nome di donna chiamato di lontano: e poi sibili, urli di treni, cigolìi di tram oppure scrosci di fontane, tenute su un lungo pedale, e il persistente rintocco delle torri, che in quella notte fonda durava ancora come se delle basiliche altissime suonassero a stormo da dentro le nuvole. Il fenomeno dei suoni riflessi durò un certo tempo: poi improvvisamente non si udì più nulla. Una subitanea incrinatura aveva fulminato lo specchio. Neppure la più vaga eco della città lontana: solo, lo scroscio della pioggia nei boschi dalla vetta fino al mare. Quante altre volte siamo poi tornati sulla cima notturna Ma la singolare esperienza non l’abbiamo più avuta. Certo, noi potemmo quella notte ascoltare per una irripetibile coincidenza di condizioni meteorologiche e del nostro stato personale, un fenomeno fonico eccezionale, paragonabile per i suoni alle luci che nei deserti fanno tremare nell’aria miraggi di acque specchianti favolose città.
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