LETTERATURA: I MAESTRI: Vicolo del Piombo4 Agosto 2018 di Ercole Patti La mia prima abitazione quando studente in legge di ciassettenne arrivai a Roma più che mai deciso a fare lo scrittore, si trovava al Vico lo del Piombo una viuzza chiusa nel suo strettissimo sbocco sul corso Umberto a due passi da piazza Venezia da un grosso paracarro situato in mezzo per impedire il passaggio dei veicoli. Ancora oggi il Vicolo del Piom bo è identico a più di quarantacinque anni fa e il grosso paracarro sul quale tante volte passando poggiai le mie mani diciassettenni è sempre lì un po’ consumato dallo strusciare di chi sa quante altre mani prima e dopo le mie. In realtà quel paracarro così grosso e potente è forse eccessivo perché anche senza di esso sarebbe quasi impossibile a qualsiasi veicolo pas sare, talmente stretta è quel l’uscita sul Corso, a meno di non introdurvisi di precisione come una cartuccia nel fucile. Avevo trovato quella ca mera sugli annunzi del Messaggero; la mia più grande aspirazione di allora era di abitare al centro e infatti in quegli anni abitai camere am mobiliate di tutte le traverse del Corso nessuna esclusa da piazza Venezia a piazza del Popolo; e certe camere am mobiliate di via Frattina, via della Croce, via Borgognona, via Gesù e Maria, via della Frezza, via Vittoria mi sono rimaste vive nel ricordo con un senso di nostalgia e di sgomento per i loro interni e gli odori vaganti per camere e corridoi. * Quello di vicolo del Piom bo era un piccolo apparta mento di tre stanze delle qua li la padrona ne affittava due tenendo per sé quella matri moniale. Una era occupata da un taciturno piccolo impiega to calabrese cui i parenti in viavano spesso da Acri pac chi di fichisecchi, l’altra era la mia. Attraverso le tendi ne si vedeva il vicoletto sempre in penombra coi selci lustri di umidità e dalla fe ritoia tra i due alti palazzi che lo fiancheggiavano, un pezzetto di Corso Umberto con uno spicchio di palazzo Doria. L’arredamento della mia stanzetta in quella penombra perenne consisteva in un bas so divano-letto e un cantera no con alcuni cassetti. I miei due vestiti e il cappotto erano appesi a un attaccapanni del tipo «omo morto » di quelli che allora si trovavano in molti piccoli ristoranti e osterie. Talvolta nella bella stagione un raggio di sole scendeva perpendicolarmente lungo l’alta facciata laterale del palazzo del Banco di Si cilia che fiancheggiava il vi colo, batteva sul vetro della finestra e sulle prime matto nelle che c’erano sotto; ma era questione di minuti per ché subito si spostava, rista gnava un attimo sui selci del vicolo che in quel punto si al largava un pochino formando come un piccolissimo largo, e spariva definitivamente. La padrona era una bion da ossigenata di Bergamo sui trentacinque e forse quaran ta anni ancora fresca e ben fatta che girava per casa con vestaglie leggere che le scopri vano spesso le gambe. Non si sapeva nulla del suo passato; poteva essere una ex-ballerina che si era ritirata dopo di aver messo da parte un po’ di soldi, oppure una ex-mantenuta che aveva ricevuto una liquidazione da un oculato amante di provincia e adesso tirava avanti affittando le due camerette. Con quelle sue vestaglie svolazzanti e quell’aria un po co navigata di matura ragaz za bergamasca fu lei una del le primissime donne che tur barono i miei sensi ancora di adolescente; e lei da donna che aveva una larga esperienza di uomini provava gusto nel tentare il diciassettenne inesperto venuto da Catania specie in certi pomeriggi di primavera quando veniva a sedersi con la gamba accavallata sul divano-letto della mia stanza e intorno c’era la casa vuota sul silenzioso vicoletto essendo il calabrese trattenu to in ufficio. Ma il mio desiderio di fa re lo scrittore era così forte che non mi lasciavo mai tra volgere del tutto da lei. L’a ria leggera e un poco friz zante di Roma coi suoi gior nali con le firme degli scritto ri famosi che abitavano vici no e che desideravo cono scere, mi dava come una leg gera ebbrezza e mi spingeva a lavorare. * Nella mia stanza oltre al divano-letto e al canterano esisteva anche un tavolinetto minuscolo e traballante sul quale sarebbe stato impossi bile scrivere più di qualche firma per il postino che mi portava la raccomandata quindicinale di mio padre o un numero di telefono. Andavo a scrivere nei caf fè. L’Esperia al Lungotevere Mellini fu il mio caffè preferito per l’assoluta tranquilli tà della sua grande sala. Mi alzavo prestissimo poco dopo le sette e uscivo nel l’aria pulita del mattino con la mia busta di cuoio piena di appunti, di cartelline bianche e la penna stilografica. Quel la passeggiata in quelle ore mattutine con il mio pro gramma di lavoro in testa era la felicità. Percorrevo il marciapiedi del Corso Um berto passando lungo i nego zi in parte ancora chiusi, at traversavo piazza Colonna, col mio passo leggero di ra gazzo arrivavo al Largo Goldoni giravo per via Tomacelli, attraversavo il ponte Ca vour ed ero subito al caffè Esperia. La grande sala quadrata lungo le cui pareti correva un lungo e accogliente divano grigio era a quell’ora deserta. Mi andavo a mettere nell’angolo giusto sotto la fine stra dai vetri istoriati affac ciata su via Vittoria Colon na, che gettava una luce ri posante sul tavolino e sulle mie cartelline. Il vecchio ca meriere che già mi conosceva mi portava paternamente un caffè ed io con le idee e i pensieri eccitanti che mi frul lavano per il capo mi mette vo a scrivere le mie prose e i miei racconti di allora. Quei racconti in genere rie vocavano gli anni, d’altronde assai recenti, della fanciullez za, gli amori nelle aule scola stiche o durante la villeggia tura precedente come fatti accaduti in un lontano pas sato; oppure descrivevano campagne e mattinate di cac cia ai piedi dell’Etna; oppu re ancora immaginavano sto rie sulla brevità della vita, su ragazzi tredicenni che ritor navano vecchi cadenti nel paesetto dei loro amori tro vandovi delle vecchine cente narie diafane e tremolanti che erano le tredicenni di un tem po ridotte così. Il pensiero della vecchiaia e della morte sfiorava senza turbarla, quasi piacevolmente, la mia grande voglia di vivere. Ogni tanto alzavo lo sguar do sull’ampia sala deserta che mi dava un senso di si curezza e di protezione come se mi trovassi in un castello tutto mio con quel vecchio cameriere che forse mi aveva visto nascere; e qualche clien te e qualche coppia che co minciavano ad apparire verso le dieci e si siedevano laggiù lontani non mi davano nessu na noia mentre continuavo a scrivere a cancellare e a ri scrivere a quella blanda luce di via Vittoria Colonna nel 1922. Quando il caffè cominciava a riempirsi dopo le undici uscivo e allora cominciava la mia lunga giornata romana fra osteriole a prezzo fisso, passeggiate al Pincio, soste nella terza saletta di Aragno a guardare da lontano Carda relli, Spadini, de Chirico, Sof fici, Barilli, Bartoli. Nel tardo pomeriggio e tal volta a notte alta rientravo al vicolo del Piombo le cui stan ze e l’ingresso erano sempre impregnate del pungente e colpevole profumo della pa drona bionda la quale se og gi è ancora viva non può ave re meno di 81, 82 e forse an che 87 anni.
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