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LETTERATURA: I MAESTRI: Vicolo del Piombo

4 Agosto 2018

di Ercole Patti
[dal “Corriere della Sera”, martedì 31 marzo 1970]

La mia prima abitazione quando studente in legge di ­ciassettenne arrivai a Roma più che mai deciso a fare lo scrittore, si trovava al Vico ­lo del Piombo una viuzza chiusa nel suo strettissimo sbocco sul corso Umberto a due  passi da piazza Venezia da un grosso paracarro situato in mezzo per impedire il passaggio dei veicoli. Ancora oggi il Vicolo del Piom ­bo è identico a più di quarantacinque anni fa e il grosso paracarro sul quale tante volte passando poggiai le mie mani diciassettenni è sempre lì un po’ consumato dallo strusciare di chi sa quante altre mani prima e dopo le mie. In realtà quel paracarro così grosso e potente è forse eccessivo perché anche senza di esso sarebbe quasi impossibile a qualsiasi veicolo pas ­sare, talmente stretta è quel ­l’uscita sul Corso, a meno di non introdurvisi di precisione come una cartuccia nel fucile.

Avevo trovato quella ca ­mera sugli annunzi del Messaggero; la mia più grande aspirazione di allora era di abitare al centro e infatti in quegli anni abitai camere am ­mobiliate di tutte le traverse del Corso nessuna esclusa da piazza Venezia a piazza del Popolo; e certe camere am ­mobiliate di via Frattina, via della Croce, via Borgognona, via Gesù e Maria, via della Frezza, via Vittoria mi sono rimaste vive nel ricordo con un senso di nostalgia e di sgomento per i loro interni e gli odori vaganti per camere e corridoi.

*

Quello di vicolo del Piom ­bo era un piccolo apparta ­mento di tre stanze delle qua ­li la padrona ne affittava due tenendo per sé quella matri ­moniale. Una era occupata da un taciturno piccolo impiega ­to calabrese cui i parenti in ­viavano spesso da Acri pac ­chi di fichisecchi, l’altra era la mia. Attraverso le tendi ­ne si vedeva il vicoletto sempre in penombra coi selci lustri di umidità e dalla fe ­ritoia tra i due alti palazzi che lo fiancheggiavano, un pezzetto di Corso Umberto con uno spicchio di palazzo Doria.

L’arredamento della mia stanzetta in quella penombra perenne consisteva in un bas ­so divano-letto e un cantera ­no con alcuni cassetti. I miei due vestiti e il cappotto erano appesi a un attaccapanni del tipo «omo morto » di quelli che allora si trovavano in molti piccoli ristoranti e osterie. Talvolta nella bella stagione un raggio di sole scendeva perpendicolarmente lungo l’alta facciata laterale del palazzo del Banco di Si ­cilia che fiancheggiava il vi ­colo, batteva sul vetro della finestra e sulle prime matto ­nelle che c’erano sotto; ma era questione di minuti per ­ché subito si spostava, rista ­gnava un attimo sui selci del vicolo che in quel punto si al ­largava un pochino formando come un piccolissimo largo, e spariva definitivamente.

La padrona era una bion ­da ossigenata di Bergamo sui trentacinque e forse quaran ­ta anni ancora fresca e ben fatta che girava per casa con vestaglie leggere che le scopri ­vano spesso le gambe. Non si sapeva nulla del suo passato; poteva essere una ex-ballerina che si era ritirata dopo di aver messo da parte un po’ di soldi, oppure una ex-mantenuta che aveva ricevuto una liquidazione da un oculato amante di provincia e adesso tirava avanti affittando le due camerette.

Con quelle sue vestaglie svolazzanti e quell’aria un po ­co navigata di matura ragaz ­za bergamasca fu lei una del ­le primissime donne che tur ­barono i miei sensi ancora di adolescente; e lei da donna che aveva una larga esperienza di uomini provava gusto nel tentare il diciassettenne inesperto venuto da Catania specie in certi pomeriggi di primavera quando veniva a sedersi con la gamba accavallata sul divano-letto della mia stanza e intorno c’era la casa vuota sul silenzioso vicoletto essendo il calabrese trattenu ­to in ufficio.

Ma il mio desiderio di fa ­re lo scrittore era così forte che non mi lasciavo mai tra ­volgere del tutto da lei. L’a ­ria leggera e un poco friz ­zante di Roma coi suoi gior ­nali con le firme degli scritto ­ri famosi che abitavano vici ­no e che desideravo cono ­scere, mi dava come una leg ­gera ebbrezza e mi spingeva a lavorare.

*

Nella mia stanza oltre al divano-letto e al canterano esisteva anche un tavolinetto minuscolo e traballante sul quale sarebbe stato impossi ­bile scrivere più di qualche firma per il postino che mi portava la raccomandata quindicinale di mio padre o un numero di telefono.

Andavo a scrivere nei caf ­fè. L’Esperia al Lungotevere Mellini fu il mio caffè preferito per l’assoluta tranquilli ­tà della sua grande sala.

Mi alzavo prestissimo poco dopo le sette e uscivo nel ­l’aria pulita del mattino con la mia busta di cuoio piena di appunti, di cartelline bianche e la penna stilografica. Quel ­la passeggiata in quelle ore mattutine con il mio pro ­gramma di lavoro in testa era la felicità. Percorrevo il marciapiedi del Corso Um ­berto passando lungo i nego ­zi in parte ancora chiusi, at ­traversavo piazza Colonna, col mio passo leggero di ra ­gazzo arrivavo al Largo Goldoni giravo per via Tomacelli, attraversavo il ponte Ca ­vour ed ero subito al caffè Esperia. La grande sala quadrata lungo le cui pareti correva un lungo e accogliente divano grigio era a quell’ora deserta.

Mi andavo a mettere nell’angolo giusto sotto la fine ­stra dai vetri istoriati affac ­ciata su via Vittoria Colon ­na, che gettava una luce ri ­posante sul tavolino e sulle mie cartelline. Il vecchio ca ­meriere che già mi conosceva mi portava paternamente un caffè ed io con le idee e i pensieri eccitanti che mi frul ­lavano per il capo mi mette ­vo a scrivere le mie prose e i miei racconti di allora.

Quei racconti in genere rie ­vocavano gli anni, d’altronde assai recenti, della fanciullez ­za, gli amori nelle aule scola ­stiche o durante la villeggia ­tura precedente come fatti accaduti in un lontano pas ­sato; oppure descrivevano campagne e mattinate di cac ­cia ai piedi dell’Etna; oppu ­re ancora immaginavano sto ­rie sulla brevità della vita, su ragazzi tredicenni che ritor ­navano vecchi cadenti nel paesetto dei loro amori tro ­vandovi delle vecchine cente ­narie diafane e tremolanti che erano le tredicenni di un tem ­po ridotte così. Il pensiero della vecchiaia e della morte sfiorava senza turbarla, quasi piacevolmente, la mia grande voglia di vivere.

Ogni tanto alzavo lo sguar ­do sull’ampia sala deserta che mi dava un senso di si ­curezza e di protezione come se mi trovassi in un castello tutto mio con quel vecchio cameriere che forse mi aveva visto nascere; e qualche clien ­te e qualche coppia che co ­minciavano ad apparire verso le dieci e si siedevano laggiù lontani non mi davano nessu ­na noia mentre continuavo a scrivere a cancellare e a ri ­scrivere a quella blanda luce di via Vittoria Colonna nel 1922.

Quando il caffè cominciava a riempirsi dopo le undici uscivo e allora cominciava la mia lunga giornata romana fra osteriole a prezzo fisso, passeggiate al Pincio, soste nella terza saletta di Aragno a guardare da lontano Carda ­relli, Spadini, de Chirico, Sof ­fici, Barilli, Bartoli.

Nel tardo pomeriggio e tal ­volta a notte alta rientravo al vicolo del Piombo le cui stan ­ze e l’ingresso erano sempre impregnate del pungente e colpevole profumo della pa ­drona bionda la quale se og ­gi è ancora viva non può ave ­re meno di 81, 82 e forse an ­che 87 anni.

 


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