LETTERATURA: I MAESTRI: Virginia Woolf e la lingua americana7 Marzo 2019 di Edmund Wilson Un articolo di Virginia Woolf apparso nella New Republic del 13 febbraio 1929, dette l’avvio a una polemica sulle differenze fra l’inglese parlato in Inghilterra e quello de gli Stati Uniti; nella rubrica della posta dei lettori la po lemica si protrasse per mesi. Le prime tre lettere furono pub blicate nel numero del 24 aprile di quello stesso anno: Signor Direttore, nel suo articolo On Not Knowing French, Virginia Woolf scrive: « Così uno straniero che possieda quella che noi chiamiamo una perfetta padronanza dell’inglese, potrà scri vere in un inglese grammaticalmente corretto e armonioso â— anzi il suo inglese, com’è nel caso di Henry James, sarà non di rado più elaborato dell’inglese nativo â— ma non po trà mai scrivere in quell’inglese inconscio nel quale coglia mo il passato della parola, con le sue associazioni e connes sioni. » Per pura curiosità, mi interesserebbe sapere che cosa ella intenda per lingua nativa di Henry James, visto che questo scrittore proviene dalla selvaggia regione di Boston: forse la lingua Choctaw! Conosco bene quella « certa condiscendenza » che gli in glesi ostentano verso di noi, poveri ottenebrati americani, ma mi stupisce adesso apprendere che siamo considerati dei novellini nella lingua inglese. Cannes, Francia Harriot T. Cooke La Woolf così rispondeva: Signor Direttore, mi affretto a sottomettermi alla rettifica del suo corri spondente e a ritrattare la mia opinione che, essendo nato a Boston, Henry James non avrebbe scritto l’inglese di un vero inglese. Farò del mio meglio per credere che la lingua di Tennyson e quella di Whitman siano la stessa cosa. Ma mi è concesso di spiegare che la responsabilità del mio er rore ricade sullo stesso Walt Whitman, e su Ring Lardner, Sherwood Anderson e Sinclair Lewis? Nel leggere questi autori ho avuto modo di considerare che magnifica lingua sia l’americano, e come differisca materialmente dall’ingle se, e quanto ne sia da invidiare la capacità di esprimere parole nuove e nuove locuzioni di straordinaria efficacia. Sono addirittura arrivata a formulare la teoria che lo spi rito americano è uno spirito originale che ha dato e da frutti diversi da quelli che crescono in Inghilterra. Ma per defe renza verso il suo corrispondente mi affretto a cancellare queste mie opinioni e prendo buona nota per l’avvenire che tra Inghilterra e America non c’è differenza; clima e abi tudini non hanno prodotto mutamenti di sorta; l’America non è altro che una più grande Inghilterra al di là del l’Atlantico; e la lingua è talmente identica, che quando in contro parole come boob, graft, stine, busher, doose, hobo, shoe-pack, hiking, cinch (1) e via dicendo, il mio ignorarne il significato va attribuito alla negligenza di chi non mi ha insegnato quella che evidentemente è la mia lingua nativa. Così ammesso il mio errore, potrei, « per pura curiosità », chiedere lumi su un altro punto? Perché, mi domando, quando dico che Henry James non scriveva l’inglese di un vero inglese, le mie parole vengono scambiate per un insul to? Perché il suo corrispondente ne deduce seduta stante che io accuso i bostoniani di parlare Choctaw? Perché allude alla « condiscendenza » e fa riferimento ai « poveri ottene brati americani » e suppone che io li consideri dei « novel lini nella lingua inglese », mentre io non ho detto niente di simile? Che cosa ho fatto da irritarlo tanto? Il saggio di Lowell On a Certain Condescension in Foreigners (come tali egli intende evidentemente gli inglesi) dovrebbe, credo, avere per contraltare On a Certain Touchiness in â— posso osare dirlo? â— Americans. Ma posso supplicarla, signor Di rettore, di credere usando questa espressione non ho voluto dire che lei porta il codino e si tinge la fronte di rosso? (2) Se parlo di « americani » è solo perché alcuni secoli fa i no stri comuni antenati, per ragioni meglio note a loro, decisero di comune accordo di essere diversi. Londra, Inghilterra Virginia Woolf Reduce da un viaggio a Londra, Elinor Wylie mi aveva parlato di un suo incontro con Virginia Woolf che doveva essere stato piuttosto sgradevole, anche se forse Elinor esa gerava un po’. Mi disse che la Woolf le aveva domandato come mai si sforzasse a scrivere nell’inglese letterario; e le aveva detto che sarebbe stato assai più interessante se si fos se affidata al suo americano nativo, cercando di fare qualcosa sul tipo di Ring Lardner. Ne fui indotto, anch’io, al seguente intervento: Signor Direttore, io deploro il tono di questa polemica. È vero che il si gnor Cooke è suscettibile, ma è anche vero che la tesi della signora Woolf è piuttosto errata. Nessuno mette in dubbio che l’inglese parlato e scritto in Inghilterra è diverso da quello degli Stati Uniti, ma l’inglese-inglese e l’inglese-americano non sono così diversi come la signora Woolf â— e an che taluni scrittori americani â— amerebbero farci credere. Se lo fossero davvero fino a tal punto, New Republic non avrebbe mai potuto pubblicare gli articoli della signora Woolf. In realtà gli scrittori americani scrivono altrettanto « inconsciamente » che gli scrittori inglesi (la signora Woolf crede forse che Walt Whitman abbia imparato la lingua in cui scriveva così come il latino?), e in ciò che essi scrivono « si coglie il passato della parola… con le sue associazioni e connessioni ». La differenza è semplicemente che negli scrittori americani le associazioni e le connessioni sono, in parte, quelle che nel corso degli ultimi due o trecento anni sono state acquisite nell’America del Nord anziché nelle Isole Britanniche. Ma sia dietro all’inglese-inglese che all’inglese-americano sta il ben più lungo passato della letteratura e del l’idioma inglese, che americani e inglesi hanno in comune. Così, ad esempio, benché nel tono e nel vocabolario di Emer son ci sia tanto di yankee, c’è perlomeno altrettanto dei poeti elisabettiani, che egli non cessò mai di leggere; e nello stesso H.L. Mencken, il nostro più eminente assertore di una « lingua americana », certi sapidi umori si devono in gran parte alla sua mescolanza di slang americano con un curioso vocabolario letterario che sembra come derivato dalle commedie della Restaurazione e dai romanzi del Settecento. A che serve sostenere che l’inglese parlato dagli inglesi e quello parlato dagli americani sono in pratica due lingue di verse? Di lingue diverse ce ne sono già abbastanza, e hanno causato già abbastanza disturbo. La cosiddetta lingua ame ricana è costituita in parte di slang americano (in molte cose accolto anche dagli inglesi, come gli americani accol gono molte cose del loro), e in parte di inglese familiare scritto negli Stati Uniti. Ring Lardner, ad esempio, non è altro che un esperto dei diversi generi di parlato familiare e di slang americano, e nei suoi racconti di attori newyor kesi o di giocatori di baseball del West, egli fa esattamente quello che ha fatto Kipling in certi suoi racconti dove il per sonaggio che dice io è un soldato irlandese o un ingegnere scozzese. Non so se la signora Woolf supponga che i perso naggi e gli autori dei vari libri americani da lei letti parlino tutti una stessa pittoresca lingua, e che questa sia appunto l’« americano ». Ma posso garantirle che negli Stati Uniti, come in qualsiasi altro paese, c’è una grande differenza tra Nord e Sud, Est e Ovest, ricchi e poveri, città e campagna; e che la parlata di una certa categoria di americani può spesso sembrare ad altri americani altrettanto strana che Robert Burns o William Barnes agli orecchi di un londinese. Ma intanto c’è anche un inglese corrente comprensibile in tutti gli Stati Uniti e comprensibile, evidentemente, anche per gli inglesi, tanto è vero che la signora Woolf e il signor Cooke riescono a mantenere una corrispondenza senza dover fare ricorso né a una grammatica né a un dizionario. (Det to per inciso, Henry James non nacque a Boston, ma a New York, e si risentiva terribilmente quando lo scambiavano per uno della Nuova Inghilterra.) A questo, la Woolf si limitò a replicare, in una lettera non destinata alla pubblicazione, che per lei quello che Whitman scriveva era americano e che preferiva chiudere la di scussione. Delle diverse lettere che seguirono, riporto quella del professor George E.G. Catlin apparsa nel numero dell’8 mag gio, perché sottolinea un aspetto della questione che io ave vo omesso, richiamando l’attenzione sul fatto che le diffe renze tra l’inglese-inglese e l’inglese-americano sono proprio dovute al fatto che il « passato della parola », bene o male che sia, in molti casi è stato conservato più a lungo negli Stati Uniti che non in Inghilterra: Signor Direttore, nella mia qualità di inglese residente per parte dell’anno in America, mi consente di commentare la tesi della signora Woolf che l’inglese e l’americano sarebbero due lingue di verse e che gli americani dovrebbero soffrire di un complesso d’inferiorità, quando non siano orgogliosi di questo fatto? Tranne che nel caso dello slang, che è non di rado incom prensibile anche per molti miei amici americani, ma la cui origine è spesso da ricercare nei giornali sportivi inglesi del secolo scorso, non mi è mai successo di non capire quel che mi dicevano in America. L’uso di « guess » può suonare nuovo, se non si ricorda Chaucer; e così di «some », se non si ricorda Aubrey; o di « candy » se non viene in men te la « candie shoulder » di Giacomo I; o di « sure » se non viene in mente Milton; o di « gotten », se non si ricor da la Bibbia. Invece, nel Yorkshire solo qualche volta riesco a capire i discorsi della gente; nell’Ayrshire li capisco di rado; mentre in nessun posto come a Londra le mie orec chie sono aggredite da un inglese così corrotto. C’è maggior differenza tra i dialetti di due contee inglesi che non tra la parlata degli studiosi di Oxford e di Harvard, di Ely e di Seattle. E tutto questo, ovviamente, la signora Woolf lo sa bene. Se la sua tesi fosse giusta, non solo avremmo una lingua americana, ma anche una canadese e un’australiana. Vi so no ad ogni modo parecchi sudditi britannici della sezione europea dell’Impero, i quali sono disperatamente ansiosi di prendersi il brevetto della lingua inglese. La ragione della loro evidente irritazione allorché tale brevetto è violato, la lascio scoprire a qualche psicanalista curioso del significato simbolico di « parlata corretta ». Ma non dubito che a un gruppo letterario debba riuscire di estremo fastidio che una viva corrente di linguaggio popolare travolga le decrepite dighe del purismo. Sono pienamente d’accordo col signor Wilson quando di ce che di lingue ce ne sono già abbastanza; non c’è davvero bisogno di moltiplicarle nel mondo di lingua inglese. Anzi non è affatto escluso che il primato in questo campo spetti at tualmente alla sponda americana; chissà. Kant (un liberale all’antica) poneva la diversità delle lingue tra le cause di guerra: se sia vero, non so. Ma vorrei suggerire alla signora Woolf (con tutto il rispetto dovuto a una così illustre e affascinante scrittrice) di riflettere se il suo punto di vista non sia insostenibile in letteratura, pernicioso in politica e dan noso nelle sue conseguenze culturali. Cornell University Ithaca, New York George E.G. Catlin Ma questo carteggio non toccò il grosso problema del fu turo dell’inglese nei paesi di lingua inglese. A quell’epoca e anche dopo, l’inglese degli Stati Uniti era in un continuo stato di crisi. Non avevamo, e non abbiamo neanche adesso, alcuna norma generale di lessico, di grammatica e di orto grafia della lingua in cui scriviamo. Ogni scrittore americano deve decidere per conto proprio quanto conservare del l’inglese accademico tradizionale e fino a che punto permet tersi di utilizzare questa o quella forma del vernacolo ame ricano. Intanto gli inglesi, per la prima volta nella storia della loro letteratura, hanno elaborato una serie di regole sull’uso corretto della lingua. Il loro testo più autorevole, il Modern English Usage del Fowlers, difficilmente avrebbe po tuto esser concepito da un Ben Jonson, autore della prima grammatica inglese. Malgrado la sua preoccupazione per le lingue flessive classiche, Ben Jonson scriveva abitualmente, come gli altri elisabettiani, frasi come « between you and I », scorrettezza, questa, condannata come americanismo in un articolo inglese citato da uno dei corrispondenti di New Republic, e, nel suo capitolo sulla flessione dei pronomi, non solleva nemmeno tale questione. In Inghilterra questo processo ha avuto il risultato (anche se non nel caso di Vir ginia Woolf) di indebolire e impoverire la lingua, presup ponendo come ideale di una buona prosa un semplice collegamento di formule accreditate. Di questo stesso argomento ho trattato anche in un altro mio articolo: Talking United States. (3) Allora, né il professor Catlin né io affrontammo radicalmente il problema dei particolarismi americani che non rientrano né nel parlato familiare né nello slang, e che si trovano già numerosissimi nel Dictionary of American English e nel Dictionary of Americanisms, entrambi pubblicati dall’università di Chicago. (1) Boob sta in americano per l’inglese booby (stupido); così graft è il vocabolo americano per « concussione »; hobo è il bracciante sta gionale, il girovago; hiking facendo un’escursione; cinch, una cosa si cura, facile. Stine, busher, doose, shoe-pack sono vocaboli gergali an cora più ristretti e non accolti, per esempio, dal Webster’s New Collegiate Dictionary o dal Dictionary of American Slang di Harold Wentworth: c’è evidentemente una sforzatura polemica nella lettera della Woolf. (N.d.t.) (2) L’uso del codino a treccia era caratteristico di molte tribù pel lerossa; altrettanto dicasi dell’uso di tingere con colori diversi a se conda delle tradizioni e delle circostanze il viso e altre parti del cor po. (N.d.t.) (3) Sta in The Shores of Light, pp. 630-639.
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