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LETTERATURA: Il volo libero delle sensazioni

10 Gennaio 2014

di Fabio Strafforello

Quel che dirò in questo racconto sa di verità profonda, quanto sono profondi e comuni i sentimenti umani, per coloro che si avvicinano al bisogno d’esser capiti ma mai fraintesi.

Per me scrivere racconti o romanzi in senso generale credo non sia il modo migliore per esprimere quello che sento dentro, nel profondo dell’animo, o quanto fa parte della mia esperienza di vita, mi scuso così in anticipo con voi se non mi saprò dimostrare all’altezza del compito che ho accettato volontariamente di fare. Quando Emilia Amirante Ferrari mi fece la proposta di aderire a questo gruppo di autori, e fu in prima occasione alla fiera del libro ad Imperia nel mese di giugno scorso, ne fui subito allettato e mi venne in mente un episodio che cade in questo contesto, e fra i tanti che potrei citare, in modo quasi perfetto. La mia è una storia vera, non perché quelle che racconteranno gli altri autori di questa pubblicazione non lo siano, ma perché l’ho vissuta in prima persona e non molto tempo fa rispetto a quanto esporrò ora alla vostra attenzione. C’è un’immagine, fra le tante e bellissime copertine create da Cristina Berardi, per presentare il susseguirsi e l’avvicendarsi del New Magazine Imperia, che richiama a pennello a quanto mi è accaduto a dicembre del 2011 e che mi piace collegare ad un significato di proiezione che vada oltre la nostra veduta terrena della vita.

Vi descrivo quel che mi appare:                                                                                                                                                                                                                                          L’immagine di copertina di uno dei tanti e interessanti numeri del New Magazine, adottata da me per parlarvi dell’accaduto, ritrae… sulla sua base un ampio tratto di mare, probabilmente Mediterraneo, sovrastato da un cielo d’azzurro colore e sul contorno di questo quadro alcune finestre di case, da umani abitate e che da esse sembran guardare all’infuori quel che succede.             Al centro del quadro vi è una mongolfiera che pare sollevarsi leggera fra la realtà del mondo e il desiderio di una felicità che ha il volto comprensibile e chiaro di due persone che in quel cestello, addobbato come un salotto, condividono uno dei tanti e ripetuti momenti della nostra comune e sia pur banale vita attuale… pare che a volare, ancor più della realtà umana, sia il desiderio di elevarsi a veder le cose senza sentirne alcun peso!

E’ meglio nascere fortunati che ricchi… così recita uno dei molti detti citati da noi esseri umani in certe occasioni della vita, ed è uno fra i tanti modi di dire che si assomigliano nelle varie culture e che legano gli abitanti di questo Pianeta in “tutta la sua uniforme sfericità,” collegandosi ad una conoscenza reale dell’esistenza sulla quale gli uomini hanno basato per millenni le loro ragioni, i loro interrogativi, le loro incertezze e perfino i loro giudizi, per sembrar talvolta, rispetto ad altri, essi stessi gli individui migliori, costruendone per effetto o per riflesso l’indelebile storia dell’umanità. La ricchezza, sia quella economica che quella personale, conquistate da noi o per avercele qualcuno regalate, ci possono abbandonare in qualsiasi momento, per scelta, per errore nostro o per interazione di altre persone che hanno cambiato, per noi, alcuni elementi fondamentali della vita. E’ rapido a cambiare il senso della vita, se ad abbandonarci è la nostra salute, con essa se ne va anche il nostro miglior umore. La fortuna, invece, per chi nasce con essa come compagno d’avventura, contrariamente alla ricchezza che ci può lasciare come se fosse un mercenario assoldato dal male e per seguire altre persone o altre destinazioni, sembra non abbandonarci mai per   lasciare posto alla disavventura o alla disperazione che talvolta alla porta della nostra casa, mai da sole, sembrano bussare. Parlo di me naturalmente, che fra le tante fortune che mi assistono e che mi hanno assistito nel breve viaggio di questa vita, pare ancora seguitarmi accanto, per dirmi che è nella ragione della vita il significato di quello che lasciamo di noi stessi, scritto con pensieri giusti, con azioni rivolte al bene e con le migliori intenzioni di tutti giorni, atteggiamenti che sono il modo più concreto e vero per colpire la memoria e i sentimenti profondi degli altri esseri umani e da essi poter ricevere un segno positivo anche per noi stessi.

Il lavoro che faccio e cioè quello di guidare i bus della Riviera Trasporti è impegnativo e di grande responsabilità e non pensate, come è sempre stato per cultura che… chi è seduto non abbia molto da fare. Il mondo è cambiato parecchio rispetto anche a questo modo di vedere le cose e sono molti i lavori che nei tempi moderni si svolgono più da seduti che da in piedi, creando anch’essi nuovi aspetti e nuovi tormenti per la nostra salute sia fisica che mentale. Quando sei sulla strada e alla guida di un mezzo così grande,   per misura del veicolo o diversamente per strade impervie e strette, come da noi tante ne puoi trovare, devi tenere l’attenzione e i tuoi riflessi sempre ad una soglia di concentrazione che ti consenta di intervenire nel migliore dei modi e in un tempo molto breve, per evitare danni a persone o cose che potrebbero essere gravi e difficili poi soggettivamente anche da dimenticare. E’ portandoti avanti ad osservare quel che accade intorno a te, per prevedere il comportamento degli altri e con l’esperienza acquisita, che puoi attutire e ridurre la possibilità di incidenti, per i passeggeri e per gli utenti della strada. Il crescente traffico che intasa le nostre vie, congestionato anche da un comportamento poco attento e non meno scorretto di tanti automobilisti e soprattutto dei motociclisti che si sentono i padroni della strada, e a volte ci si mettono in modo disattento anche i pedoni, rende maggiormente difficile da affrontare e da superare il rischio costante di urti, sia pur gravi, fra cose e persone. Gli utenti della strada, e in senso più generale coloro che frequentano i luoghi comuni dove si concentrano tante persone e di fatto anche per chi fruisce del bus come ogni giorno accade, vivono così una situazione di pericolo costante per ogni loro ovvio e necessario spostamento. Il buon senso, e un comportamento civico adeguato, sembrano essere le uniche vie percorribili per riportare questa nuova realtà nella normalità e questo caos nella giusta vivibilità per i nuclei urbani, che sovente sono inadeguati a sopportare tanto movimento di merci, di mezzi a combustione e di persone, perché costruiti con criteri ben diversi centinaia di anni prima e proporzionati alla realtà tecnologica di quel momento. Pur lasciando dietro alle nostre spalle quel che sono i problemi personali, per noi autisti in senso generale non sempre è la giornata giusta, sia per umore, per salute o per fatalità delle cose, per esprimere al meglio quello che sappiamo fare e che coscientemente ci suggerisce il nostro miglior modo per portare a destinazione chi col mezzo pubblico si deve o si vuole organizzare. E’ proprio all’improvviso che tutto pare accadere, sia sulla strada che a bordo, in mezzo alle persone, tanto che il nostro intervento assume un significato molto più ampio rispetto alla sola conduzione del torpedone. Vi dico questo per prepararvi con maggior apertura mentale e ragione al fatto di quel che fra gli umani accade, portandovi a conoscenza diretta che in ogni mondo, sia pur piccolo che sia, dove le persone si incontrano con gli altri e con essi si confrontano, sembra sorgerne una forma di energia che si sprigiona poi con attrito oppure con simpatia, mostrando quanto l’uomo si muova su un equilibrio personale fatto di necessità indispensabili a se stesso, ma non meno di osservazione verso gli altri esseri umani, e dal contatto fisico trae la principale fonte di raffronto e di riferimento per mantenersi e per evolversi nel suo percorso, fino alla sua destinazione.

L’inverno che abbiamo trascorso a cavallo fra il 2011 e il 2012 è stato in questi luoghi molto mite, con poche piogge e con temperature decisamente gradevoli, escludendo naturalmente quei terribili dodici giorni di febbraio nei quali giunse sulle nostre terre un vento dal nord   Europa freddissimo e penetrante fino nelle ossa. Eravamo, per quanto vi racconto e come riferimento di tempo, in prossimità del Santo Natale, forse una settimana prima del giorno citato e così tanto atteso dai bambini, ma probabilmente un po’ meno desiderato da alcuni genitori che si trovano ad affrontare un Babbo Natale, spinto dal consumismo, ad elargire doni piuttosto costosi, doni nati da liste che per i ragazzi non finiscono mai, continuazione di ciò che già nell’arco dell’anno, a volte inconsapevolmente, ricevono generosamente dalle loro famiglie, che li sostengono negli studi e nella vita in senso generale. Anche in questa direzione il mondo è molto cambiato rispetto ad una volta e se il Santo Natale si attendeva con desiderio e gioia per portare ai giovani quei pochi regali che non ricevevano per tutto l’anno intero, per povertà d’averi naturalmente, ora tutto pare dato per scontato sulla certezza, sull’ovvietà e sull’insindacabilità di doverlo avere. Per quell’evento di natività che durava pochi giorni, ma tanto atteso fra i cristiani di tutto il mondo, ne venivano coinvolti emotivamente e nell’impegno pratico ed affettivo nonni e genitori, che ne sentivano con umanità la comprensibile e giusta ragione, sacrificando se stessi a togliersi dalla propria bocca i loro desideri personali per donarli ai figli con amore. Per quel periodo specifico l’uomo cercava fra se stesso e nell’armadio dei suoi averi e delle sue intenzioni, quale miglior vestito poter indossare per quella speciale occasione, così d’esser buono e bello almeno per un giorno, condividendo altresì un commensale molto più ricco del solito, che solo a pochi avvenimenti, nell’arco dell’anno solare, gli veniva riservato. Ora pare esser diventato un luogo comune e un arco di tempo prolungato, il fatto che condividere oggetti e cene possa essere il modo per dimenticare la povertà dalla quale arriva la nostra razza, in un luogo non solo figurato fra la spensieratezza, l’egoismo e il menefreghismo, lasciando al di fuori di se stessi e nella speranza del nulla quel che di peggio non   possa cambiare, in una identità   che si basa sul valore di dare valore alla sola soddisfazione umana.

In quel bel e soleggiato pomeriggio del mese di dicembre svolgevo il mio turno di lavoro sulla tratta che va da Andora a San Remo, per poi tornare indietro fino ad Imperia, ed ho ancora oggi immagini molto belle, nella mia memoria, di quella limpida e gradevole giornata. In questo periodo dell’anno le giornate di luce solare sono le più corte, tanto che di mattina, non prima delle sette e mezza, vedi qualche raggio di sole che va poi a tramontare verso le coste francesi, intorno alle sedici e trenta per lasciare posto al sopravanzare della notte. L’effetto ottico che si propaga nel cielo, per la caduta del sole a ponente fra la terra e il mare è bellissimo, di colore rosa prevalente, ma con tante altre tonalità e sfumature, che ne arricchiscono e ne abbelliscono un momento importante di cambiamento del senso della vita, in una alternanza fra gli esseri viventi e la natura, che trovano nella propria luce l’espressione vera e massima delle loro opportunità e nel vivere le loro sensazioni, in quel che vanno cercando per sostentamento o per sola conoscenza, fra ciò che li accompagna nelle necessità della loro sopravvivenza. E’ necessario per me e per il mio lavoro osservare bene chi sale e chi scende dal bus, in modo da evitare incomprensioni o disattenzioni di vario genere che possono dare origine a incomunicabilità o a disagio personale, tanto che dedico uno sguardo a chiunque sale sul mezzo pubblico in questione, attendendo da loro un cenno o un saluto che mi piace contraccambiare con un… buon giorno a lei o più semplicemente con un… salve per chi attende la mia attenzione. Quel pomeriggio di cui vi parlo e del quale ricordo ancor ora mi sentivo felice, fra me e me stesso e a bassa voce cantavo una canzone, fra le diverse che conosco a memoria, di De André o di Celentano per intero, o di altri autori qualche strofa che qua e la mi piace ricordare. Il tono della mia voce era basso da non infastidire, fra chi è seduto ai primi posti del bus, proprio nessuno, ma devo dire ascoltabile ad orecchio per chi lo volesse fare e proprio in quell’occasione mi capitò un fatto inaspettato, intenso e ricco d’emozioni e che rimarrà nella mia memoria per lungo tempo ancora. Ero ripartito alla guida del bus, e da poco tempo, dal capolinea più a ponente rispetto alla tratta che copriamo col nostro servizio e precisamente dalla città di San Remo, in direzione Andora e in prossimità della cittadina di arma di Taggia mi accade questo fatto:

Io no so parlare d’amore, l’emozione non ha voce…. Inizia così una bellissima canzone d’amore interpretata magistralmente da Adriano Celentano e scritta credo da Mogol, ed io l’avevo intonata, sia pur essendo solo un cantante autodidatta e non avendo mai frequentato corsi di canto, in quell’occasione abbastanza bene. Non potendo, da parte mia, usufruire ne seguire il ritmo musicale che accompagna, completa e arricchisce la canzone stessa, diventa quasi impossibile tenere il passo giusto nella ritmica del brano e il suo corretto tempo di esecuzione. Per chi canta una canzone senza essere accompagnato dalle note musicali, molto probabilmente, la durata del brano è anche diversa rispetto a quello che sarebbe stata se cantata in modo   musicato, ma per rendere maggiormente credibile e piacevole il pezzo che si sta interpretando ci devi “mettere del tuo,”   come forma, intensità, tonalità ed espressione umana. Terminata la mia interpretazione canora mi sento dire in modo inaspettato da una voce femminile proveniente da una Signora anziana seduta nel primo sedile, alla mia destra lì accanto…: bravo mi è piaciuta, me la canta ancora! Si signori qui non occorre un punto di domanda, ma un esclamativo, perché non era interpretabile come una semplice richiesta quello che ella mi voleva dire, ma come un incitamento chiaro a ripeterlo di nuovo, ed anche se di un ordine vero e proprio non si trattava, il tono e la decisione con la quale la Signora formulò il suo desiderio non lasciò molto spazio per poterglielo negare… era veramente decisa, e direi anche piena di fervore e con tanta ferma gentilezza la voleva da me, in qualche modo, riascoltare. Io le dissi, molto sorpreso e anche un po’ colto in viso di vergogna…: Signora mi scusi non so cantare, ma se questo brano per lei è così significativo e bello da sentire lo rifarò, sia pur rischiando di non fare una bella figura per nessuno.

Una bella e anziana Signora mi sedeva accanto ed io fra tanta gente che quel giorno si alternava sul bus fra salita e discesa non l’avevo ben notata, di bell’aspetto, vestita con gusto nei particolari, fra accostamenti delle forme e dei colori, di biondo colore erano i suoi capelli e non importa se appositamente tinteggiati per una occasione, gentile anche nei modi, che è poi quel che più conta per parlar a fondo di cose comuni con gli altri esseri umani.

Fra le varie forme di bellezza artistica e di ricchezza interiore umana c’è il canto, quell’espressione autentica e schietta che esce dall’ugola, vibrando l’aria fra le corde vocali per emetterne i suoni più disparati, di felicità e per contrasto di disperazione, d’amore e di rabbia, per non poter tacere quel che dentro di noi cresce e matura senza fine e che in qualche maniera deve uscire, sfogando in attività fisica una energia emozionale che lì dentro di noi si trova e che è il motore trainante della vita e delle nostre motivazioni… a volte le più strane. Non occorre molto all’uomo per sentirsi felice e più sono le cose che possiedi e minore è il senso e l’orientamento di doverle desiderare e anche cercare, creando una sorta di abitudine e di demotivazione alla forma incostante dell’esistenza immateriale, portandoci quindi di riflesso verso una maggiore volontà di conservazione e di attaccamento nei confronti degli averi terreni, finendo per macerare noi stessi nel turbamento della prospettiva della povertà e nella perseveranza dell’egoismo di ogni nuovo giorno. Il senso immateriale della vita è fra i sentimenti umani che inizia e culmina la propria avventura emozionale, attraverso le sensazioni, lasciando sempre nell’uomo una traccia sufficiente per consentirgli di non perdere e di avvertire come vivo e sensibile un bisogno di comprensione che va oltre le proprie conoscenze… è il senso del vuoto quello che stimola a cercare, fra il culmine del sapere e del dubbio, l’incertezza di noi stessi.    

Convinto dal tono rassicurante e affettuoso col quale la Signora Lucia, la chiamerò così per l’occasione, mi richiese una nuova interpretazione del brano iniziai a cantarlo, con timidezza e un po’ di paura, subito, che poi svanirono col proseguo dell’esecuzione, fino a darne per le sue orecchie ben spalancate, la completa esposizione. Terminata la mia performance vocale e forse ancor più emotiva, ella mi gratificò con un grazie il cui tono e la cui intensità affettiva superavano di gran lunga le mie aspettative ed anche la mia improvvisata e profana interpretazione. A questo punto, incuriosito da tanta passione e fervore da ella manifestata, le volli chiedere che cosa rappresentasse per lei questo brano in particolare, che cosa di importante vi fosse legato nella sua vita reale e che cosa le ritornava in mente da volerlo ancora immaginare o anche solo dentro se stessa risentire.

Lucia rispose alla mia domanda con un tono di voce rotto dall’emozione e completato da suoni onomatopeici di difficile riproduzione, la cui origine è nel profondo dell’uomo che pone le sue radici, in una espressione mista fra il dolore, l’amore, la solitudine, la voglia di ricordare, il bisogno di dimenticare e desiderio di rivivere certi momenti di vita suoi particolari, che attraverso quella canzone in lei rifiorivano…  Mio marito me la cantava… ancor prima che mi lasciasse sola…!

Per me, come uomo, ancor più che come autista in quel momento, questa era stata la prima, vera e significativa apertura emozionale della Signora Lucia, per un discorso fra di noi che sarebbe andato avanti per alcuni chilometri ancora, e mentre io guidavo il bus lei mi parlava di quel che sul cuore e da dentro il cuore, con forza le premeva, da doverlo così apertamente manifestare!

… Mio marito era all’ospedale ricoverato e sapeva di morire… ma fin che ha avuto voce mi ha donato questa canzone per ricordare il nostro amore, dicendomi anche queste parole: < Un giorno, mia cara, io non sarò più accanto a Te, dopo tanti anni nei quali ci siamo amati, ma se la canterai con passione io ritornerò sempre al tuo fianco… nel tuo pensiero>.

L’avvenimento prendeva ora un altro tono, non più di spensierata canzone, ma di dramma umano ancor più si trattava, ed io a quel punto non mi potevo più tirare indietro da quell’impegno, anche perché mai lo avrei fatto per il mio modo di pensare, di sentire e di rispettare i sentimenti umani. Quel che in quel momento mi piaceva e mi premeva fare, era di trovare il modo di consolare la malcapitata che da un evento gioioso, forse per colpa mia, era passata a risentirne un profondo dolore… quel che l’uomo prova come un conforto è aver posto dinnanzi al pesante carro del dolore il desiderio d’esser spinto dalla speranza a volerlo sorpassare.

…Siamo stati insieme più di cinquant’anni… mi dice ora Lucia, attraversando periodi belli ed anche, come per ognuno di noi accade, periodi forse da dimenticare, ma sempre legati da un amore, da un rispetto e da un affetto che nei tempi moderni è difficile da far capire. Lui era un uomo molto buono e comprensivo e che mi sapeva cogliere nei momenti di rabbia o di sconforto, sia pur essendo molto impegnato nel lavoro faticoso che doveva fare.

Ancor prima di morire mi disse…: Lucia fatti forza e non pensare a me, chissà che un giorno non ci ritroviamo assieme per poter continuare il nostro amore, ma ora devi pensare ai nostri figli o ancor più ai nostri nipoti che devono crescere con equilibrio e con buoni sentimenti, che fra gli altri li sappiano nella vita, nel modo migliore accompagnare.

Lucia era visibilmente scossa da profonde emozioni nell’avermi confessato fatti così personali, ma sempre decorosa nel suo dolore e nella sua tristezza; l’ho vista altresì più sollevata e d’uno sguardo luminoso per aver rievocato, in un momento così inaspettato, un sentimento tanto importante e forte che è parte integrante della sua persona e che dentro di lei vive ancora con fervore e intensità.

Pensavo:

Che cosa posso dire ora a Lucia, così che ella si senta compresa, amata e non tradita nei suoi sentimenti e non ingannata dalla vita o con la sensazione d’esser presa in giro dal mio tentativo di giustificare l’azione esercitata da un destino avverso e difficile da accettare?

… Lucia lei vive sola? Intravidi nel nostro colloquio questa breccia comunicativa, così utile da potermici infiltrare con le parole, approfittando della sua voglia di parlare e nella speranza di cogliere qualche motivazione utile da portare alla sua attenzione, così da spingerla al di fuori di un tunnel di tristezza e di sola sterile rievocazione.

…No! Ho figli e diversi nipoti che mi danno tanta gioia, ma nulla di tutto questo può coprire e riempire quello che mi manca dentro e poi voglio vivere da sola per non pesare sulle loro scelte, sulla loro libertà… nessuno mi può dare più l’amore che ho provato a vivere con quell’uomo!

Fra di me riecheggia ora un ricordo, ed è legato all’amore, alla comprensione e a all’immensa ricchezza spirituale che ho ricevuto dalla passione a cui nonni hanno dato il loro significato per la vita, esercitata in una fase culturale in cui la struttura della famiglia vedeva, per ogni età di ogni singola persona e per ogni specifica caratteristica ad essa collegata, una relazione pratica, affettiva, di rispetto e di valore umano, che coinvolgesse ogni componente di questo piccolo nucleo costituito di individui senza alcuna numerazione. Non che tutto fosse così facile e felice come lo descrivo, ma da quel che è necessario per tanti, se ne può trarre per lezione che sia giusto vivere senza pretese. Allora gli individui erano assoggettati alla comune necessità di sostentarsi reciprocamente nell’esistenza e collaboravano al meglio nell’ambito famigliare per rendere meno difficile la loro presenza,   nell’espressione, nell’immagine e nella concretezza delle azioni nel loro insieme, racchiudendo in idee e in veduta di prospettiva il tessuto culturale e sociale di un paese che dalla morale del piccolo borgo converge, in aspettative e in regole sicure, nelle dimensioni di un grande agglomerato urbano popolato da tante persone.

In una speranza di libertà che vive da sola, l’uomo sembra aver lasciato nel dimenticatoio il suo bisogno di comprensione.

Ora la strada era chiara, e sapevo con veduta onesta che cosa poterle al meglio consigliare, ammiccando qualche sorriso per stemperare un po’ di quella tensione.

…Vede Lucia, nel bene e nel male quello che è passato, per l’uomo, non può più tornare e occorre guardare avanti, consapevoli di quello che è stata la nostra esistenza e le opportunità che con essa se ne sono andate, così da poter trarre e trasmettere i migliori frutti della nostra esperienza per chi ci circonda. Ritengo già fortunati e credo che lei sia una fra queste persone, coloro che in questo passaggio hanno conosciuto il loro vero amore, e ancor più chi con lui ha generato altra vita, nell’opportunità reale di vivergli accanto ogni giorno, anche se talvolta con disperazione, ma uniti fino alla morte e fin che ella con la forza non li abbia separati. Ci sono anime gemelle e viaggiando col mio lavoro qualche caso mi è capitato di poter ascoltare, che pur riconoscendosi fra tanti individui e con grande emozione, non hanno potuto poi, in alcuni casi, unirsi in una sola sensazione, dovendosi incontrare ed accontentare del sol loro reciproco pensiero, ma d’aver visto, come la luce di un sole che sorge, a chi riferirsi nello sguardo per sperare nell’occasione di una nuova era. E’ un devasto quello del tempo attuale, dove molte copie si separano, per non voler più tollerare nulla di quello che non gli fa piacere, io lo vedo, colpite non si sa bene da quale male oscuro, a cercar con nuove storie dove si nasconda una felicità che sia forse in un luogo lontano dal sacrificio quotidiano, dall’impegno e dalla sopportazione… sembra quella per loro la più facile soluzione… A ritrovar tanti figli con due padri, l’uno naturale e l’altro adottivo o come se fra queste prove esistesse il bisogno di conoscere, avanti tempo, per un piccolo uomo, una verità nascosta sull’amore. Non giudico in nessuna maniera e con nessun polemico tono, quel che potrebbe colpire ognuno di noi, come un fulmine improvviso o derivato da un semplice tuono…!

… E’ vero autista, o ancor meglio come si chiama per nome? Annuisce ora con piglio ed energia la cara Lucia.

… Il nome che m’ha dato mia zia Elma e Fabio, Fabio Strafforello e sono felice d’averla conosciuta… E’ quel che più prontamente mi è venuto da dire.

… Caro Fabio quello che lei ha detto io condivido, anche se con grande sofferenza, anche se non lo do a vedere, e cerco sempre di dare una immagine vera e giusta ai miei nipoti, i quali, io lo so, guardano con attenzione ed interesse al comportamento di ognuno di noi, per trarne importanti insegnamenti ed esempi utili ad orientarsi nella vita, tanto che il mio ruolo di nonna diventa particolarmente delicato   e di grande responsabilità. Guardando avanti, e col passar degli anni, talvolta me ne accorgo, vien meno il ricordo di mio marito, al quale non vorrei mai rinunciare, ma so che egli stesso si annullerebbe per dare il meglio della sua esperienza a queste giovani vite, così che possano procedere con ottimismo, decisione ed equilibrio nel percorso ad ostacoli dell’esistenza. Talvolta mi sembra di sentirlo molto vicino, vicino a me, ed è come se qualche cosa mi sfiorasse per darmi questa sensazione, ma so che oltre quel che spero e ciò che ricordo, nulla potrò più ripetere di così bello senza di lui al mio fianco, abbandonandomi dolcemente a questa soddisfazione .

Ora che il nostro viaggio volge al termine…

… Son felice più di lei caro Fabio, nell’averla conosciuta, e ritengo per me questo giorno fortunato, nel quale prima di Natale mi è giunto un messaggio d’amore così gradito, cantato da un messaggero improvvisato e in un luogo inaspettato, ma che ha dato voce all’uomo che per una vita ho amato e che spero ancora di poter incontrare.

… E’ un regalo anche per me, quello che so d’averle inconsciamente fatto Signora Lucia, cantando questa bellissima canzone e ritengo questo giorno fortunato per entrambi, per aver sentito in una unica emozione un sibilo comune, per quel che ci ha percorso dentro come un fulmine e razionalmente senza alcuna altra ragione.

“Questo è il mio regalo, cari lettori e a voi con piacere lo voglio donare, sperando, per ognuno di noi, in un riscatto che vada oltre la ferma convinzione di una fine senza appello, consapevole di aver elevato un interesse e una attenzione che si staccano, come la mongolfiera disegnata da Cristina, dalla consuetudine e dall’oblio umano, verso il cielo”.

Bellissimi   di   Dolcedo  


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