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LETTERATURA: STORIA: La guerra lampo

4 Aprile 2012

di Mario Camaiani

      In attesa dell’importante discorso del Duce, piazza Cavour si stava riempiendo fino all’inverosimile: io mi trovavo, con altri balilla, presso la statua del grande statista Camillo Benso conte di Cavour, mentre dai discorsi concitati della gente emergeva la certezza che Mussolini avrebbe annunziato alla nazione che l’Italia era entrata in guerra contro l’Inghilterra e la Francia. Ed infatti,   poco dopo, dai grandi altoparlanti posti sull’alto di vari edifici della piazza, in collegamento via radio dal balcone di Palazzo Venezia in Roma, il Duce annunciò questo evento in modo trionfale, sì da suscitare esplosioni di applausi e di consensi, sia dalla piazza di Roma, sia in tutte le altre d’Italia, come questa a Livorno, nelle quali veniva trasmesso a tutto il popolo l’annuncio dello stato di guerra. Era il 10 giugno del 1940 ed anche questo conflitto, come i precedenti, sembrava dovesse   risolversi in breve tempo, praticamente una guerra lampo, come veniva preannunciata, con la nostra vittoria totale: infatti la Germania, con la quale eravamo alleati, era già in guerra da nove mesi: aveva occupato la Polonia (spartita con l’URSS), la Danimarca, alcuni porti della Norvegia,  tutti i Paesi Bassi; stava per infliggere la sconfitta totale alla Francia, mentre con l’aviazione bombardava pesantemente l’Inghilterra preparando così un prossimo sbarco nella sua isola… Ma l’  Italia tergiversava e non si decideva ad entrare in guerra; epperò ora che sembrava si trattasse di un conflitto ormai all’epilogo non c’era più tempo da perdere,   per cui la decisione di entrarvi a farne parte fu presa, altrimenti non avremmo potuto sederci al tavolo della pace come vincitori. Ho suaccennato di altri precedenti conflitti: infatti dall’ottobre 1935 al maggio 1936 ci fu la campagna dell’Africa Orientale con la conseguente nostra vittoria per la quale il Re d’Italia (Vittorio Emanuele III) fu proclamato anche imperatore d’Etiopia; poi nel triennio 1936-1939, durante la guerra civile spagnola vi partecipammo, insieme con la Germania, a   fianco delle forze nazionaliste del generalissimo Francisco Franco, favorendone in modo decisivo la vittoria, contro i repubblicani ed i comunisti sostenuti dall’Unione Sovietica; infine nell’aprile 1939 occupammo l’Albania, ed anche qui il nostro Sovrano ne assunse il trono. La propaganda del regime dittatoriale fascista era intensa, specie nelle scuole, e si articolava con argomenti semplici e comprensibili, apparentemente giusti.   Ricordo che al tempo della guerra in Spagna un giorno giunsero al nostro porto alcune navi italiane, anche da guerra, cariche di frati, suore e religiosi in genere, in fuga dalle zone spagnole dove comandavano i “rossi”, per fuggire dalle loro angherie: questa notizia fu diffusa pure dalla stampa, con il relativo commento che dove si instauravano regimi comunisti, atei e oppressivi dei popoli, la Chiesa veniva perseguitata. A tal uopo fecero molto scalpore i racconti dell’uccisione di molti religiosi e religiose durante la guerra civile spagnola: uno per tutti: Padre Garcia Mendez, poi beatificato. E   durante la campagna dell’Africa Orientale, noi studenti ci fecero andare   più volte al porto mediceo a salutare i nostri soldati che partivano per l’Etiopia dove, ci dicevano, avrebbero portato la nostra italica civiltà, togliendo la schiavitù, evolvendo quei popoli africani; mentre invece gli inglesi, per loro profitto, nelle proprie colonie mantenevano regrediti gli abitanti locali. E, sempre secondo le direttive del potere imperante, la guerra soprattutto contro l’Inghilterra era necessaria perché gli inglesi dominavano nel Mediterraneo, che noi chiamavamo “mare nostrum”, occupandone la porta naturale, Gibilterra; quella artificiale, Suez; ed al centro l’isola di Malta, dove stazionava una formidabile squadra navale britannica. Quindi la conclusione era che per colpa del predominio inglese noi eravamo schiavi nel nostro mare… Ma la propaganda fascista non si limitava all’indottrinamento ideologico, bensì si articolava coinvolgendo tutti i ceti popolari con adunate, marce, canti: in specie il sabato e per i giorni festivi in città era tutto un susseguirsi di gruppi di figli della lupa, di balilla, di avanguardisti, di giovani fascisti, di miliziani, di piccole italiane e giovani fasciste; che cantando e marciando con fiera energia ostentavano forza e fierezza. E molta ginnastica, che ogni anno culminava con l’esecuzione del saggio ginnico sportivo, partecipato da tutti i giovani della G. I. L. (Gioventù Italiana del Littorio), che, a Livorno, si svolgeva al nuovo stadio intitolato alla figlia del Duce (Edda Ciano Mussolini), alla presenza di un folto pubblico che gremiva le gradinate. Ma il sottoscritto non partecipava con entusiasmo alle adunate più marcatamente politiche; anzi, al contrario, spesso le evitava, tant’è che ad una valutazione scolastica, alla voce   “cultura fascista”, mi venne annotato: “scarso spirito fascista”, per cui rimasi balilla semplice, mentre c’era la lotta per divenire balilla scelto, o moschettiere, o tamburino, o capomanipolo… Però, dato che a scuola ero abbastanza bravo, questo non impedì che quando ci fecero fare, come tema, una “lettera al legionario”, da spedire al fronte in Spagna, la mia fu prescelta a tale scopo e nell’aula magna della scuola ebbi una menzione benevola da parte del direttore alla presenza di tutti i dirigenti ed alunni. Qui voglio ricordare il mio maestro delle elementari, Garibaldo Tevenè, figura ottocentesca, munito di grossi baffi spioventi: sembrava un personaggio uscito dalle pagine del libro “Cuore”: egli ci insegnava anche a crescere come cittadini esemplari, come da direttive scolastiche; ci invitava ad aiutare gli anziani quando ce ne fosse bisogno, come cedere a loro il nostro posto sul tram; a tenere puliti i giardini pubblici che, diceva, nel momento che si usano sono nostri, come di casa nostra; ad essere rispettosi verso chiunque; ad essere sempre leali, anche contro il nostro interesse; e così via… Poi, giunto al termine   del quinquennio della scuola primaria, ricevetti un premio, per la buona votazione conseguita, al dopolavoro dello stabilimento “Società Metallurgica Italiana”, dove lavorava mio padre, consistente in un libretto della Cassa di Risparmio di Livorno, con un accredito di cinquanta lire, più un bel libro riguardante Leonardo da Vinci. Il dopolavoro era una buona istituzione dove i dipendenti delle varie ditte con i loro familiari si ritrovavano come in una grande famiglia: c’erano gli impianti sportivi, il teatro, la filodrammatica, il varietà, la biblioteca; le colonie marine, montane, alle quali ho partecipato anch’io;   venivano organizzate gite; e tanto altro.

    Tornando ora all’origine della narrazione,   la sera di quel 10 giugno entrò in vigore l’oscuramento e la notte di due giorni dopo ci fu l’allarme aereo: le sirene con il loro stridulo e lugubre sibilo svegliarono la città e tutti corsero verso il rifugio antiaereo più vicino. Ed anch’io, con i miei   genitori ed i miei nonni, ci recammo alla svelta nei rifugi costruiti in piazza della Vittoria e   lì dentro, in un ambiente surreale, con persone vestite alla meglio, tutte sedute sulle panche lungo i corridoi del rifugio, con poca illuminazione, in apprensione si ascoltavano gli scoppi della batterie antiaeree ed anche quelli delle bombe, alcune delle quali caddero su edifici nei pressi della suddetta piazza, senza però determinare grossi danni. Poi, il frastuono delle deflagrazioni cessò, mentre fra le persone rifugiate c’erano molti che pregavano, altri che imprecavano, altri che cercavano di parlare con i vicini: io mi recai in una sala, al centro dei corridoi, dove c’erano tante persone che conversavano animatamente: in quel momento stava parlando un signore anziano con una coperta addosso, e riconobbi che si trattava del nostro parroco, don Giulio, il quale stava dicendo: “Mi accorgo che nessuno di voi sa, o non si ricorda, che il nostro Papa (Pio dodicesimo), nel radiomessaggio del 24 agosto 1939, quindi alla vigilia dell’ inizio della guerra, affermò: ‘Nulla è perduto con la pace: tutto può esserlo con la guerra!’   Magari ciò fosse stato ascoltato e messo in pratica”, concluse il sacerdote. Allora prese la parola un piccolo gerarca fascista locale: “Mi meraviglio di lei, don Giulio, perché questa guerra è più che giusta: è il compimento del nostro risorgimento, per cui le sue affermazioni sulla pace stonano, dato che criticano il regime artefice dell’accordo fatto fra lo Stato e la Chiesa con i patti Lateranensi del 1929,   mediante i quali la pace religiosa è tornata in Italia e la Chiesa può esercitare la sua missione in tutta libertà”.   “L’unità d’Italia è stata fatta quasi esclusivamente in chiave anticlericale – riprese il prete –   per cui l’accordo Stato-Chiesa è stato un toccasana per tutto il popolo italiano; ma affermando che la pace è la civile antitesi della guerra, che di per sé è barbarie, intendevo risaltare il messaggio cristiano, apportatore di pace fra i popoli”. In quel mentre l’ ululato della sirena lungo e senza interruzioni, annunciava che l’allarme era finito ed allora il rifugio si svuotò rapidamente ed ognuno ritornò alla   propria casa. L’incursione era stata operata da aerei francesi provenienti dalla Corsica, ma si trattava di un ultimo colpo di coda: infatti pochi giorni dopo, il 25 giugno, la Francia si arrese, firmando l’armistizio.

      Ma l’Inghilterra tenne duro, vinse la battaglia (aerea) contro l’aviazione tedesca e mantenne la supremazia navale per cui la Germania dovette rinunziare al tentativo di sbarco e di invasione dell’isola britannica e la guerra ora si preannunciava come molta lunga (altro che “lampo”!). Per questo, dato che non ci era stata preparazione per questo siffatto tipo di guerra,   le scorte alimentari finirono presto, per cui, con la situazione alimentare che peggiorava giorno per giorno, tutti gli alimenti furono messi a razione, regolati con le “carte annonarie”, personali; e perfino il carbone, che era il combustibile usato normalmente nelle cucine, era pure questo razionato e la gente era costretta a fare code per ore in fila, onde arrivare al turno per comprarlo! Ricordo che quando le persone si rivedevano dopo un certo tempo, era tutto un esclamare: “Ma come sei dimagrito! Sembri un’ altra persona!”.   “Anche tu sei la metà di quella che eri! Speriamo che questa maledetta guerra finisca presto, altrimenti si muore tutti di fame!” Ma ad un certo punto cominciarono a circolare dei generi alimentari, a prezzi altissimi, al cosiddetto “mercato nero”, che poteva essere anche nei negozi regolamentari, ma in segreto; ma il mezzo più usato per la diffusione di questo mercato era costituito da singoli emissari che con la roba nascosta addosso, o con borse, si recavano dagli acquirenti, ben conosciuti, nelle loro case: anche in casa mia ogni qualche giorno, con precedenti ordinazioni, veniva una donna, di mezza età, forte come un uomo, a smerciare vari prodotti commestibili, come farina, olio, fagioli… di tutto, insomma.   E tutto veniva eseguito con la massima attenzione affinché la polizia annonaria (ed anche quella ordinaria) non scoprisse detto smercio, ché ci sarebbe stata una grossa multa ed anche la galera. Comunque, diciamo pure   grazie a questo siffatto mercato clandestino per mezzo del quale qualcosa in più si mangiava, anche se non ancora a sufficienza e pur rimanendo con le tasche vuote!

    Intanto, fra il ’40 ed il ’41, le forze dell’Asse invasero i Balcani conquistando la Jugoslavia e la Grecia; e dopodiché, nel giugno ’41 , attaccarono la Russia, sperando in una rapida vittoria onde rifornirsi di materie prime, di prodotti petroliferi e di derrate alimentari di ogni genere; ed inoltre poter attaccare l’Egitto da Est (ed è per questo che l’Italia inviò gli alpini in Russia perché, essendo truppe da montagna dovevano operare nel Caucaso, per poi scendere in Medio Oriente)… Ma le   operazioni belliche non andarono come previsto; e nel frattempo, nel dicembre. ’41, entrarono nel conflitto anche il Giappone, al nostro fianco (asse Roma- Berlino- Tokyo), e   gli Stati Uniti d’America, a fianco dell’Inghilterra. Nel frattempo, nel febbraio ’41, una grossa e inaspettata azione navale britannica ci   fece capire di come gli inglesi stavano prendendo il sopravvento nei nostri confronti. Infatti una potente squadra navale inglese, composta anche da una portaerei, raggiunse indisturbata l’alto Tirreno e nella notte operò un violento bombardamento aereo-navale su Genova che, cannoneggiata dalle artiglierie   delle navi, subiva contemporaneamente l’incursione aerea. Nella stessa notte una squadriglia di suddetti bombardieri si diresse su Livorno: udimmo nuovamente, dopo diversi mesi, il sinistro,   reiterato sibilo delle sirene che rompendo il silenzio della quiete notturna davano l’allarme: tutti noi della famiglia ci precipitammo giù dai letti e coprendoci alla meglio corremmo verso il rifugio, insieme a tanti e tanti altri concittadini che si erano riversati per strada verso i rifugi   e lì, trepidanti, udimmo gli scoppi delle bombe e delle batterie antiaeree. Dopo qualche ora ci fu il cessato allarme e tornammo alla nostra casa, ma stravolti ed impauriti come eravamo non riuscimmo a dormire ammodo. Il mattino seguente venimmo a conoscenza che era stato colpito l’Albergo Palazzo (un’ala del cui edificio era stata distrutta fino ai piani bassi), prospiciente la terrazza Costanzo Ciano, sul lungomare; ed inoltre erano state colpite le costruzioni dei bagni Pancaldi. E’ evidente che l’obiettivo dei bombardieri era la sede dell’Accademia Navale, la cui struttura era simile a quella del detto albergo, situata non lontano, per cui i piloti, pur avendo lanciato con gli appositi paracadute i “Bengala”, torce luminosissime che illuminavano la zona sottostante, avevano scambiato l’albergo per   l’Accademia. Nel pomeriggio i miei genitori ed io ci recammo presso le zone colpite: c’era una folla di curiosi enorme, sembrava che tutta la città si fosse lì riversata, ma la gente era triste e preoccupata e commentava sommessamente l’accaduto. Anche noi incontrammo dei conoscenti con i quali scambiammo qualche opinione in proposito. Poi, verso sera, c’incamminammo verso casa e, giunti in città, ci fermammo da un tortaio e lì si cenò con torta (di ceci), pan francese e castagnaccio, bevendo aranciata; poi in un bar prendemmo il caffè (io un cappuccino) e si proseguì verso casa: era molto tardi, la strada deserta, tutto buio per l’oscuramento, il tempo piovigginoso; tutto ciò procurava tristezza, ed acuiva il malessere che era dentro di noi… Che ci   avrebbe riservato il prossimo futuro, con la guerra in atto che ormai, smentendo la faciloneria e la superficialità dei nostri strateghi, non era più da definire “lampo”?   Purtroppo non c’era da presagire niente di buono…


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1 commento

  1. Commento by Mario Camaiani — 4 Aprile 2012 @ 22:05

    Anche per questo mio racconto, l’amico Gian Gabriele mi ha inviato questo bellissimo
    commento: “Ecco come si possono raccontare avvenimenti storici con puntualità, con onestà intellettuale, senza travisare i fatti, senza esasperare appartenenze ideologiche e soprattutto evidenziando forti e sentiti accenti emotivi.

                          La terribile realtà della guerra viene rievocata attraverso episodi locali ed eventi internazionali, con testimonianza precisa, quasi certosina, nella loro concretezza fisica e nel loro collegamento storico, nonché come espressione dello spirito di chi ha vissuto certe realtà.

                          Privo di alcuna esasperazione, dunque, e dietro un resoconto attento ed equilibrato, l’autore, in una consolidata tradizione narrativa e con partecipazione viva, ci sottopone, oltre, ovviamente, alle precise circostanze nazionali ed internazionali dell’epoca, stimolazioni riflessive, dalle quali non possiamo sottrarci. Le stesse stimolazioni, pertanto, si fanno messaggio autentico, sostanziale, indelebile, per non dimenticare, ma anche per non falsificare la memoria.

                                                          Gian Gabriele Benedetti.”

    Ti ringrazio, Gian Gabriele, e ti saluto caramente.
    Mario.  

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