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LETTERATURA: “La resistenza spiegata a mia figlia” di Alberto Cavaglion, L’ancora del Mediterraneo (2008)

23 Maggio 2008

di Francesco Improta  

Probabilmente non sono la persona più indicata per analizzare il libro di Alberto Cavaglion, non essendo uno storico, ed essendo per natura e for ­mazione più propenso a vagheggiar parole che a misurarmi con i fatti, eppure per la serietà dell’indagine, per il rigore morale, per la qualità della scrittura e più in generale per l’originalità dell’operazione, io credo che il libro di Cavaglion esuli dall’ambito della critica specialistica e finisca per coinvolgere e attirare quanti, indipendentemente dalla loro professione, sono animati da un’istanza morale e da un’esigenza di verità.
Per capire qualcosa di più sull’impostazione del lavoro e sulle motivazioni profonde che hanno spinto lo storico piemontese a scrivere questo libro bi ­sogna, a mio avviso, partire dal titolo e dall’introduzione.
Il titolo “La Resistenza spiegata a mia figlia” individua e fissa alcuni elementi: l’oggetto, il destinatario che sono decisamente espliciti, non di ­versamente dall’intenzione di fondo che potremmo definire informativa e pedagogica, e inoltre l’io narrante che è implicito e che è mosso contempo ­raneamente da un bisogno di chiarezza e da un senso di responsabilità, come genitore, nei confronti della figlia e come professore nei confronti dei giovani in generale.
Fin dalla lettera per un compleanno che funge da introduzione si capisce il tono colloquiale, ma non per questo meno serio e approfondito, del di ­scorso di Cavaglion; egli rinuncia a qualsiasi tentativo di fornire perizie o giudizi di parte non a caso in un passo del libro dice giustamente: “La storia viene meno a se stessa quando prevede fra i suoi fini quello di dare un premio ai buoni e un castigo ai cattivi” L’autore, inoltre, si propone di evitare i toni della rissa, nonché quelli retorici e celebrativi che, in positivo o in negativo, hanno caratterizzato la maggior parte degli studi sulla Resistenza e soprattutto le commemorazioni in favore o a sfavore della stessa. Il suo intento, come sembra suggerire la stessa copertina con il suo bulbo luminoso, è quello di lumeggiare un argomento così complesso e sfaccettato qual è la resistenza e soprattutto presentarlo in maniera chiara e accessibile ai giovani, disorientati dinanzi alle interpretazioni spesso con ­traddittorie che sono state date del fenomeno in questi sessant’anni che intercorrono dalla liberazione, avvenuta non il 25 aprile ma il 10 maggio del 1945. Per fare ciò egli agisce per sottrazione e non per addizione, perché solo in questo modo si può giungere al nocciolo del problema. Solo togliendo il superfluo si arriva alla sostanza, facendo il contrario si co ­struisce un’immagine sfuocata, operazione del resto familiare a chi ha co ­nosciuto e ha letto i romanzi di Francesco Biamonti, perché questo era il suo metodo di scrittura e il suo stile. Solo così si può imprigionare il canto delle sirene e solo così si può cogliere l’essenza delle cose.
Semplificare, comunque, non vuol dire banalizzare ma attribuire ai fatti la esatta prospettiva e ai personaggi di una certa vicenda storica la giusta di ­gnità, indipendentemente dallo schieramento in cui militavano, perché co ­me sostiene Cavaglion, riprendendo un’affermazione di Gaetano Salvemi ­ni, da entrambe le parti vi erano uomini equivoci e persone “da leccarsi i baffi” ciò, tuttavia, non deve far credere che si possano collocare sullo stes ­so piano; esiste, infatti, fra tedeschi e alleati, partigiani e repubblichini un’asimmetria irriducibile, che scaturisce dall’impossibilità di conciliare terrorismo e libertà, gli ideali, cioè, per cui si battono. Così se è vero, come è vero, che non esiste una violenza buona e una violenza cattiva, dal mo ­mento che la violenza è sempre tale e senza aggettivi, è altrettanto vero che dalla parte giusta può essere collocato solo chi abbia inteso favorire la vittoria della civiltà contro il nazismo, quali che siano stati i mezzi da lui adoperati per raggiungere quel determinato obbiettivo.

La resistenza non è stata una rivoluzione, capace di sovvertire l’ordine costituito, ma una rivelazione non diversamente dal fascismo stesso che aveva evidenziato e portato alla luce, come aveva detto Piero Gobetti, gli antichi mali d’Italia: desuetudine alla lotta politica; indifferenza; incapacità o scarsa disponibilità ad assumersi responsabilità; una diffusa propensione al lassismo, al conformismo, alla retorica e alla ruffianeria. Alle rivoluzio ­ni-rivelazioni di segno negativo, come il fascismo, si contrappongono quelle di segno positivo come la guerra partigiana; in altre parole le rivolu ­zioni non rivelano solo mali antichi ma anche virtù sopite. La lotta partigiana fu uno scatto di orgoglio dettato più dalla lezione delle cose che da una consapevole preparazione; ma fu anche un modo e un’occasione di ripensamento della politica e per molti giovani di uscire da un nodo, un groviglio di sentimenti e di idee. Ed è proprio di questi giovani, spesso sconosciuti ai più, che hanno sacrificato la loro vita o sono stati torturati e rinchiusi nei campi di concentramento che Cavaglion si occupa nel suo libro.
Penso soprattutto a Silvia Pons e Giorgio Diena, la prima di religione valdese appartenente a un’agiata famiglia borghese di Torre Pellice, il secondo ebreo e antiborghese, entrambi partigiani ed entrambi morti sui ­cidi in seguito alla delusione per il mancato rinnovamento sociale e civile. Delusione ancora più cocente, come dice Cavaglion, per essere stati ca ­tapultati dalla poesia della Resistenza alla prosa, torbida e confusa, del dopoguerra.
E penso, infine, a Emanuele Artom, nato e cresciuto in una famiglia, di religione ebraica, colta e agiata, il padre era un professore di liceo e il nonno uno studioso della Bibbia. Emanuele frequentava il liceo Massimo D’Azeglio, dove si erano formati tantissimi intellettuali torinesi: Cesare Pavese, Massimo Mila, Norberto Bobbio e Vittorio Foa e dove seguendo le lezioni di quel maestro di vita e di cultura che fu Augusto Monti, si avvicinò alla filosofia crociana e alla cultura classica. Si iscrisse alla facoltà di lettere e seguì i corsi di Santorre De Benedetti e Arturo Rostagni. Successivamente entrò in contatto con la casa editrice Einaudi e con Cesare Pavese che gli sottopose alcuni scritti della giovanissima Natalia Levi Gizburg. Nel ’43 scelse la via delle montagne e si unì ai partigiani. Tenne un diario che è tra le cose più interessanti di quel periodo, in cui dipinge senza fronzoli la vita dei partigiani, con le sue miserie, i suoi eccessi e le sue cose sgradevoli, quasi a voler impedire la nascita di una retorica patriottarda. Ci sono anche alcune considerazioni sulla nascita del fascismo, che non può essere considerato un fenomeno allogeno, e sulle reazioni alla sconfitta delle vittime stesse delle persecuzioni che meritano di essere segnalate e che rivelano lo spessore e l’originalità del suo pensiero. All’indomani dell’8 settembre del ’43 egli dice testualmente: “Papà è un po’ mortificato per la sconfitta” E questa affermazione mi richiama alla mente la reazione del padre di P.P. Pasolini, che comunque non era un ebreo, dinanzi allo stesso avvenimento: egli era avvelenato, come dice Enzo Siciliano nella sua bella biografia di Pier Paolo, dalla sconfitta del fascismo in politica e della lingua italiana in famiglia perché il figlio aveva scelto di scrivere i suoi componimenti “Poesie a Casarsa” in dialetto friulano.
Cavaglion, a mio avviso, ha scritto un libro intelligente, sincero e sofferto che tutti e non solo i giovani dovrebbero leggere.


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