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Rivista d'arte Parliamone
La scampanata, il romanzo di Bartolomeo Di Monaco trasformato in testo teatrale, qui per chi volesse rappresentarlo.

LETTERATURA: La terrazza

10 Dicembre 2008

di Matteo Ongari

Valerio uscì dalla camera, nauseato.
Nonostante i fiori e le bardature viola, ristagnava ancora nell’ambiente l’odore del tabacco di suo padre. Fino all’ultimo non aveva mollato il vizio.
Sulla soglia di casa si fermò. L’aria del tramonto lo investì, solitario, come una pianta abbarbicata sul dirupo.
“L’ultima …” aveva promesso ieri, mentre Cecio tirava le cuoia.
Che soprannome, pensò schifato. Era suo padre, ma non poteva esimersi dal ritenere quell’appellativo ormai di atavica derivazione come una bruttura vernacolare.
Si palpò il taschino della camicia. Tirò fuori la Lucky Strike, eredità della naia, girò deciso la piastrina dello Zippo, regalo di suo fratello, aspirò la prima boccata così catramosa.
“Non ce la faccio a smettere … ” sembrava dirsi. Veramente era come se nelle orecchie sentisse la voce stridula di sua madre che lo rimproverava.
Con tre lunghe boccate fu quasi al filtro. Da dentro arrivava il ronzio del frigo per la bara, e uno sciabordio di parole, di cui non capiva il significato. Sicuramente la madre stava parlando del consorte defunto con qualche comare.
Valerio fumava nervoso, aspettando l’arrivo di Roberto.
Roberto l’operaio specializzato, il fratello partito per la ricca Germania, l’uomo che aveva sposato una valchiria bionda, il padre di due scatenati diavoletti dalla carnagione pallida.
Il figlio perfetto, se non avesse abbandonato Valerio alla fatica della loro terra arsa.
Il paese, tra le cime spoglie, taceva. Le campane avevano suonato a lungo e adesso la gente stava lentamente arrivando a far visita.
Tutti sapevano che Cecio aveva un brutto male. In gola, addirittura. Si sarebbe detto, da fumatore incallito qual’era, che dovesse avere una miniera di carbone nei bronchi.
Invece no, quel tumore bastardo lo aveva azzannato all’esofago.
E quelli sono cani che non mollano, sono mali contro cui non puoi lottare.
Due piccole lacrime gli scesero. Fu costretto, visto che sul vialetto di campagna (il carruggio) stavano avvicinandosi piccole sagome, a spostarsi verso il fienile.
Una volta al riparo, seduto sulla seggiola impagliata di Cecio accanto agli arnesi per la raccolta delle olive, osservò vacuo il fumo azzurro che saliva a spirale dalla sua mano.
Pensarlo adesso, quell’uomo dal fisico vigoroso e guizzante, tutto contorto e rinsecchito come un ramo d’ulivo malamente incastrato in una bara di faggio marrone, gli faceva montare una rabbia disumana.
Aveva cominciato ad andare con lui, per la stagione dei campi alle terrazze, fin da bambino. E come invidiava il padre quando si fermava, stanco e sudato, per farsi la sigaretta.
Prendeva nella tasca dei calzoni le cartine. Ne apriva una, spianandola tra le dita. Dal borsellino del tabacco buono, non quello da masticare, estraeva alcuni ciuffetti che sembravano riccioli di legno brunito e li distribuiva picchiettandoli con i polpastrelli.
Poi con la lingua inumidiva un bordo della carta, la faceva girare tra pollice e indice e magicamente compariva un cilindro bianco da cui fuoriusciva spesso un mazzetto di avana, nemmeno fossero peli di un ipotetico pube.
Quanto le aveva dentro, quelle giornate a faticare tra vigne e ulivi. Ne sentiva perfino il profumo, delle terrazze che baciano il mare all’orizzonte. Immaginava chiaramente, pur standosene seduto all’ombra, la linea tremolante, verdognola, che separa il cielo dall’acqua. Ed era come se gli entrasse nel naso e nelle orecchie il fischio della brezza salmastra.
Ogni cosa lo riportava lĂ , dove nessuno avrebbe continuato a lavorare.
Suo padre ci sapeva fare. Ma come s’era ridotto in poco tempo, da longilineo lo aveva visto avvizzirsi, ingobbirsi e rinserrarsi su se stesso.
Gli solleticavano la memoria fotogrammi delle abili mani di Cecio mentre potava le vigne o tirava le reti tra gli ulivi. Quelle falangi nodose, spesso pronte a fargli del male, lavoravano con solerte maestria.
Ma davvero adesso avrebbe dovuto abbandonare quel loro fazzoletto di terra strappato alla montagna? Eppure negli ultimi sei mesi ci aveva ben pensato, fin dai primi malori del vecchio, fin dal giorno in cui, al policlinico, un medico schietto ma brusco non gli aveva lasciato alcuna speranza.
Spense il mozzicone pestando sul battuto con la scarpa. C’erano cicche dappertutto, giallognole pezzuole di carta. Erano i resti del passaggio di Cecio.
Sempre standosene nascosto gettò un’occhiata alle donne che venivano in processione: una lunga fila di fantasmi neri, fasciati in scialli e foulard pesanti.
“Basta, devo smettere finchĂ© sono in tempo!”. Questa frase gli frullava in testa, ma non era convinto. Veramente non pensava che la malattia del padre fosse da imputare al fumo.
Rimase ancora inerme, sulla seggiola bassa e sfondata, costruita trent’anni prima da suo nonno. Aspettava con ansia un conforto, una spalla su cui poggiarsi, un abbraccio affettuoso e sicuro in cui stringersi. Aspettava Roberto, solo lui poteva dirgli cosa fare.
Lo aveva avvertito giĂ  due giorni prima, quando le condizioni del padre erano disperate.
La ghiaia del sentiero scricchiolò sotto il peso dei pneumatici: una vettura stava arrivando. Valerio si sporse ancora, vide il parabrezza scintillare. Rifletteva il sole basso e arancione, non si capiva chi guidasse.
Lui lo sapeva.
Si alzò a fatica. Uscì, fece due passi verso l’aia. Sul selciato, automaticamente, prese di tasca il pacchetto, picchiettò una bionda e accese.
“Domani smetto” Si disse, per farsi forza.


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6 Comments

  1. Pingback by Oggi segnalo : Oltre l’Argine — 10 Dicembre 2008 @ 10:11

    […] Su Parliamone, la rivista d’arte del mio amico Bartolomeo di Monaco, è uscito stamattina un altro mio racconto dal titolo “La terrazza“. […]

  2. Commento by Gian Gabriele Benedetti — 10 Dicembre 2008 @ 16:59

    Al cospetto della morte e della morte di un padre riaffiorano prepotenti e nitidi i ricordi. Il battito di gesti e di momenti, la nitidezza delle immagini ravvivano l’intensitĂ  del riferimento individuale. Lo spessore riflessivo somministra tensioni e toni, guida pensieri, come pronunciati a voce alta nell’intimo abbandono. La ricerca di un abbraccio o di una spalla su cui posare la guancia si apre alla partecipazione sofferta per non smarrirsi.
    Ma, forse, solo nel fumo di una sigaretta si coglie un segno sia pur minimo di evasione e di conforto?
    Gian Gabriele Benedetti

  3. Commento by marino — 12 Dicembre 2008 @ 18:15

    Matteo ha delle immagini forti, io lessi una sua cosa che mi piacque molto, di boscaioli e boschi, di tagli.
    ma perché carruggio, Matteo, da quando ambienti le tue storie
    in liguria?

  4. Commento by matteo — 12 Dicembre 2008 @ 18:49

    In effetti non sarebbe proprio ambientato in Liguria, ma in una terra aspra e scoscesa assai simile. Ma non c’è un vero perchĂ©, Marino, è solo che la parola “carruggio” che da noi sarebbe “carzada” o “carradone” in gergo vernacolare mi riempie la testa di mille immagini; molte delle quali le ho prese dai tuoi testi. Grazie tante.

  5. Commento by matteo — 13 Dicembre 2008 @ 10:19

    Ah, Marino, dimenticavo. Il termine esatto da noi per indicare un sentiero di campagna è cavedagna. E’ comunque una italianizzazione di un termine dialettale. Carruggio suona molto meglio.

  6. Commento by marino — 14 Dicembre 2008 @ 13:50

    Matteo, vorrei risparmiarti questa lezione di liguritudine, ma insomma devo. Carruggio non significa sentiero di campagna,
    ma vicolo di paese o cittá, stradina incassata tra le case.
    Per dire sentiero di campagna, in alcuni posti si dice creuza.
    Buona domenica.

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