Letteratura: Lassù dove regna il silenzio buono
11 Giugno 2008
 di Gian Gabriele Benedetti
[Oltre a numerosi libri di poesia, ha pubblicato la raccolta di racconti “Paese”, Lalli Editore, 1986] Â
Sulla mulattiera, che si contorceva lungo il colle dietro il paese, si avvertiva lo scalpiccio lento dei miei passi. Era il solo rumore percettibile il quel momento, al lieve movimento dell’aria. A quell’ora del pomeriggio, quando anche il paese, con le case aggrappate, pareva dormisse, voltavo le spalle alla mia ombra. Il sole di maggio si allargava già dritto sulla campagna e a tratti faceva luccicare il fiume, giù in basso, oltre ogni cosa intorno. Ed erano lampi insinuanti, sprazzi di luce improvvisa e a volte passeggera. Sopra, solitario, il volo bianco e plastico di un gabbiano, rimpicciolito dalla distanza. Sembrava immobile, tenuto sospeso come da un filo invisibile.
           Man mano che salivo, andava sparendo il fiume dietro un’ansa stretta e s’aggruppava sempre più il paese, con i tetti di rosso sporco accucciati ai piedi del campanile grigio, nella pace del momento.
           La mulattiera lasciò ben presto la costa quasi nuda e prese ad inoltrarsi nel bosco di castagni, proseguendo aspra e sbilenca, deserta e silenziosa. Il fogliame verde tenero di maggio non era ancora fitto. Impediva completamente, tuttavia, in quel punto, di vedere il fiume, ma l’acqua era di sicuro là in mezzo ad una processione di alberi. Più in alto, si avvertiva la pace di alcune grotte. Le ombre dei castagni erano ferme, come se le avessero lì stampate. Passavano solo lame oblique di sole, che a macchie mi scivolavano addosso e tappezzavano il mare di erica in fiore del sottobosco. Sull’erica si levava, appena percettibile, il ronzio degli insetti, simile ad una brezza leggera, che andava crescendo quasi per magia, o simile ad acqua sottile che scende dal cielo. A momenti pareva cessasse. Ed era allora il silenzio ad allargarsi smisurato intorno a me. Farfalle a vari colori balenavano sghembe tra le chiazze di sole ed ombra.
           Un grido improvviso d’un grosso uccello si spense presto dietro gli alberi. Trasalii un poco, guardando curioso. Non vidi alcun volo. Ripresi a salire nella sonnolenta immensità del luogo, fino a trovarmi ancora più solo. Provai a gridare, per sentire l’eco rimbalzare. Sembrò che quel silenzio non fosse preparato ad accogliere il mio grido. Poi arrivò il rimando dell’eco: una, due, tre volte, sempre più lontano, sino a smorzarsi del tutto.
           Stavo per raggiungere il ruscello che lento scendeva a valle, a trovare ed a prendere a braccetto il fiume. Percepivo il rumore gentile dell’acqua, già prima di arrivare al ponticello di tavole. Lì mi fermai un poco a guardare. Le effimere sfioravano piccole pozze d’acqua più ferma. Una trota luccicante pareva sospesa nell’ombra di un’altra pozza più vivace, che risucchiava uno scampolo di cielo. Prese a fischiare un piccolo uccello, perduto tra la frasca. Era il suo un gorgheggio che aveva un senso, ma con una troppa rapida troncatura nel finale, come tagliato. Tacque un po’, poi riprese sempre uguale.
           Attraversai il ponticello, che si allungava sopra l’acqua basso e lento. Ormai ero vicino alla casa di Olinto, il contadino. Lì era la meta dei miei passi, quel pomeriggio, per assaporare una manciata di genuinità , per rinfrescare l’animo spesso offuscato, per allontanare un poco spazi e tempi confusi, per respirare un’atmosfera diversa a rigenerare, un’atmosfera che sapeva dell’uomo più vero, più sano, più vicino alla sua umanità .
           In quel punto la mulattiera tagliava la collina senza più affanno. Procedeva quasi piana e permetteva al respiro, ora puro, di farsi meno pesante. Ad un tratto l’acciottolato prese a costeggiare un muro, da dove sporgevano diversi alberi a pezzature tremule di sole. Poco dopo s’aprì di colpo il piccolo cortile a piastre ed una casa modesta si affacciò alla vista. Una casa ad un solo piano, col tetto a due spioventi assai ripidi e le finestre e le porte più strette del normale. I muri erano rigorosamente di pietra a vista. Sul grigio annoso batteva un sole variegato. Pareva una casa delle favole antiche. Sulle piastre del cortile piovevano pochi raggi per via di rami più fitti e le piastre erano fresche: si sentiva bene, passandovi sopra. Più in là , poco discosta dall’abitazione, la capanna col tetto di paglia e grossi travi scuri a sostenerla. Nell’aia sostavano diversi attrezzi agricoli. Alcune galline grasse si sparpagliarono chiassose al mio arrivo. Il gallo, pur in ritirata, manteneva il suo orgoglio di capo e la sua autorevolezza, guardandomi con occhi puntati, minacciosi e chioccolando la sua protesta. Accovacciato all’uscio della capanna, Olinto, un uomo robusto e saldo come una quercia, nodoso come un tronco di castagno. In capo una coppola grigia, che copriva la testa bianca dei suoi settant’anni. In dosso abiti pesanti e dimessi di lana. Ai piedi, robusti scarponi, reduci da tante “battaglie”. Lo sguardo che si leggeva su quel volto rugoso era dolce e umile, proprio di chi respira l’umore buono della terra. Era accovacciato con le gambe incrociate. Lavorava intorno ad una “capagnata”1 di giunchi. Le sue mani enormi, avvezze alla fatica, erano incredibilmente abili e leggere all’intreccio, simili a quelle di una donna che ricama. Fu sorpreso dalla fuga precipitosa delle galline. E quando mi riconobbe,  mi accolse con un sorriso largo ed un saluto quasi gridato. Si alzò e mi porse la mano callosa, calda di lavoro.
           Nel frattempo sull’uscio di casa s’era fatta la moglie, la Nena. Un enorme grembiule bianco le cingeva il globo del ventre, portato con disinvoltura. Quel bianco spiccava ancor più sul vestito di lana nero che la ricopriva dal collo fin quasi ai piedi. Un fazzoletto marrone al capo, con le cocche alla nuca, sovrastava  il viso rubicondo, aperto ad un grande sorriso.
           Entrammo in casa, in una cucina assai grande dal soffitto basso a travicelli, affumicato, come, del resto, i muri intorno. Non v’era tanta luce nella stanza, per via anche delle finestre strette. Tuttavia un po’ illuminava il fuoco di un ciocco, che sfrigolava nel buio del camino. A fianco del fuoco un grande pentolone di rame, nero all’esterno per l’uso, attaccato ad un bastone girevole. Era lì che si preparava il formaggio. Faceva piacere vedere la fiamma inquieta di quel fuoco, anche se non in tono con l’affacciarsi del primo caldo. Più in là non mancava il vecchio televisore.
           La donna, movendosi agile per la sua stazza, senza frapporre tempo, si chinò all’antica vetrina e tirò fuori il fiasco ed i bicchieri. Facemmo festa al vinello bianco, allegro e dissetante, nato in quel luogo dal lavoro delle loro preziose mani. A me tolse l’arsura dalla gola e mi ritemprò dalla fatica.
           Fummo fuori dell’uscio a respirare l’aria aperta. Odore di gelsomino ora sfiorava il viso e penetrava dentro. Tutta l’aia era intrisa di quel profumo, che proveniva da un angolo della casa, e risuonava dello stridore continuo dei grilli nel prato vicino. Ci inoltrammo, Olinto ed io, in quel prato. Mentre passavamo i grilli tacevano. Sopra di noi il cielo pareva così basso e chiaro che tutti gli odori e i lievi rumori parevano ammassati come sotto una tenda cerulea, immensa. Un po’ più su biancheggiavano inclinate le sagome di due mucche e d’una decina di pecore al pascolo. Qualche suono di campanaccio giungeva fino a noi portato dalle dita sottili e leggere dell’aria.
           Olinto mi invitò a vedere i  piccoli campi terrazzati e l’orto. La sua terra aveva una magra fertilità , aspra e quasi violenta. Era terra di lunghi silenzi. Ogni rumore un po’ più forte si spegneva quasi subito, inghiottito in quell’aria, che pur non pareva stanca. Tutto era coltivato ed in ordine, fin nel più piccolo angolo. Si vedeva ovunque la mano maestra e amorosa  del contadino: gli spazi della semina uguali, come misurati, le viti incolonnate ai pali di sostegno simili a tanti soldati, in riga, sull’attenti alla rivista dell’ufficiale. Il tenero verde dei pampini, una trina sul nero del tralcio. I meli e i peri, qua e là disseminati, macchie bianche e un po’ rosa, ben acconciate, per un’infinita danza d’insetti. Ed era ancora la brezza a portare i mille odori della primavera, seminati in quella campagna.
           Parlammo a lungo, Olinto ed io. Il contadino mi spiegava i modi e i tempi del suo duro lavoro. Traspariva in lui, con la saggezza e l’esperienza, tutto l’attaccamento viscerale per la sua terra, che non di rado si mostrava ribelle e avara. Ma lui non smetteva di amarla, quasi morosa piacente, anche se talvolta un po’ avversa. Ma soprattutto erano le sue bestie, che, solo a nominarle, gli facevano brillare lo sguardo, come se si trattasse di sue creature. Sarei rimasto a lungo ad ascoltare il suo parlare schietto e convinto, un po’ grezzo, scarno, senza fronzoli; sarei rimasto lì chissà quanto a saporare i suoi detti popolari, i suoi proverbi, i suoi aneddoti saggi, tanto quel proporre genuino, onesto, solare faceva germogliare pace e serenità nell’animo. Ma il tempo se ne andava in fretta. Me ne accorsi dalle ombre corrose degli alberi. Il sole si stava immergendo nella coppa del sonno, mandando luce più fioca e bassa. Nell’allontanarmi, mi voltai e salutai con la mano Olinto. Dietro di lui si affacciava il tramonto. Oltre cantava ancora un uccello. Le mucche e le pecore, accompagnate da Nena nella stalla, reclamavano la cena. Anche la donna mi salutò con la mano e col suo sorriso allargato di luna piena, finché riuscì a vedermi.
Mi allontanai sollecito sulla mulattiera del ritorno e mi fermai un attimo, prima del ruscello. Pareva che il tempo ora si fosse fermato con l’ultima luce rosea sul nero dei monti lontani. Oltre il crepuscolo sentivo l’acqua gorgogliare tranquilla a pochi passi da me. Qualche rana prendeva a gracidare insistente. Forse avvertiva vicina la pioggia. Quando mi apparve la massa un po’ scura del paese, giù nel fondovalle, si levò inatteso il suono della campana, portato dalla brezza, fattasi più fresca e vivace. I suoi rintocchi si allargavano nell’aria allo stesso modo dei cerchi in uno stagno. Si tacque, lasciando un sapore umido a chiudersi in gola.
Ripresi il passo con i pensieri buttati là nel silenzio rinato e nel mistero sospeso tra cielo e terra
in quell’ora che si apre alle stelle.
1Nome con cui in terra garfagnina i contadini chiamano un grosso contenitore rotondo con bordi, costruito rigorosamente a mano, usando giunchi intrecciati con grande abilità . Serve per il trasporto dell’erba e del fieno, caricato tra la testa e le spalle.
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