LETTERATURA: L’ultimo strappo
20 Gennaio 2008
racconto di Gian Gabriele Benedetti
[Oltre a numerosi libri di poesia, ha pubblicato la raccolta di racconti “Paese”, Lalli Editore, 1986]
Gli pesava essere costretto a ritornare al paese, anche se solo per sbrigare affari urgenti. Da quando era morto suo padre, Luigi non vi aveva messo più piede, e ne era passata di acqua sotto i ponti da allora!
Lassù non esisteva alcuno cui sentirsi legato: soltanto qualche vecchio conoscente rimasto a consumare i suoi giorni tra quelle poche case grigie, stancamente affastellate l’una all’altra in una rassegnata desolazione.
          Il tempo, con la sua lima infaticabile, aveva sfumato anche il ricordo, che pur si tingeva ancora inesorabilmente di pena confusa e di uno strano senso di nostalgia. Eppure erano nati lì, e lì cresciuti, tutti i sogni che alimentavano la fiamma della sua giovane età ; ed era lì che la speranza di un domani migliore aveva posto le sue radici. Ma poi gli anni avevano portato pagine di delusione, e battiti diversi erano volati incontro a nuovi orizzonti. Il desiderio di fuga prese il sopravvento sul disperato tentativo di coltivare vane illusioni, e si trovò a ricostruirsi una vita ed a cancellare un passato che si era affacciato solamente su porte chiuse.
          Rientrare ora in questo spicchio di mondo, per lui ormai perduto e vuoto, dove frammenti labili di memoria si affannavano a sopravvivere; riaffacciarsi, sia pure per poco, sull’argine di una realtà che non aveva voluto possedere e che gli pesava come ferita remota, pronta però a gemere dentro, lo stringeva in una morsa di oscuro sgomento. Tuttavia bisognava andare e, forse, quello sarebbe stato l’ultimo viaggio verso un angolo della sua esistenza che aveva cercato di seppellire.
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          La strada, stretta, ancora sterrata, s’inerpicava arditamente, con curve impervie e malagevoli, in mezzo a due alte frange intricate di bosco, che le prime voci dell’autunno avevano già persuaso a smarrirsi tra brividi accesi di colori. Nel groviglio, secolari castagni avevano spalancato i cardi a mostrare il lucido frutto maturo. Qualche foglia, che pareva ancora viva, al messaggio di un limpido soffio di tramontana, lasciava l’albero e affidava all’aria l’intreccio ansioso dell’ultimo suo volo. Lontano le cime più alte dei monti, a corona, accennavano la bianca magia del loro travestimento invernale.
          Il paese sul colle, solitario e raggrinzito, si stringeva sempre più nella sua tristezza opaca. E neppure il sorriso di un sole, tuttora legato all’ultimo bacio dell’estate, riusciva a cancellare lo sguardo smarrito che trasudava dalle finestre spente. I tetti di ruggine invano si tuffavano nel calice perlaceo a dimenticare l’affanno del tempo. Solo il chiasso di passeri indifferenti sulle gronde spezzava l’indugiare di un silenzio sempre uguale.
          Le vie solitarie, intricate, tra muri rigonfi ed umidi, apparvero a Luigi ancor più strette e soffocate di come gliele riportavano alla mente i ricordi di ragazzo. E non bastavano cortiletti, di antica grazia, che si aprivano di tanto in tanto, inaspettati, a dar sollievo ad una immobilità di secoli. Il selciato sconnesso impediva al passo di procedere agevole.
          Rivide la chiesetta screpolata, il tozzo campanile dalle cui crepe spuntavano ciuffi scomposti di erbe, la volta arcuata di mattoni, sicuro rifugio, con la sua penombra complice, quando fanciullo si perdeva a giocare a rimpiattino (e gli parve, per un momento, di riudire le grida dei compagni ed il veloce calpestio della corsa)…
          Gli apparve, quasi all’improvviso, l’angolo della sua vecchia casa, al cui fianco languiva il piccolo orto, arruffato di sterpi, con il forno cadente che un tempo mandava il profumo di legna arsa e di pane buono.
          Si trovò davanti all’uscio stinto: rughe profonde segnavano il legno incurvatosi in più punti nella sua tenace resistenza al logorio delle stagioni. Luigi si fermò un attimo prima di introdurre la grossa chiave. Sentiva, non previsto, il cuore balzargli nel petto ed avvertiva il passato, fin allora per lui così lontano e velato, cadergli quasi di sorpresa addosso con la pesantezza di un carico di piombo. Ebbe paura persino del silenzio che alitava intorno. Trattenne per un po’ il respiro e rimase come inchiodato. Cercò invano un raggio di sole a smorzare il marcato tormento che attanagliava ormai i suoi pensieri.
          Si scosse. E prese più volte a lavorare di chiave nell’ampia serratura. A fatica l’uscio pesante e sconnesso, cigolando aspro sui cardini, si spalancò. Entrò nell’ingresso. Sulla sinistra la porta della cucina, sulla destra quella del salotto erano serrate: macchie lievemente più chiare nella semioscurità . In fondo, più con la memoria che con l’occhio, intravide la ripida scala che conduceva alle camere. Le pareti scortecciate sudavano un’acre umidità che percepiva fin sulla pelle. L’odore di muffa soffocava le narici.
          Salì malsicuro i gradini della scala, con un’angoscia che sempre più bruciava nell’intimo, e si trovò nel pianerottolo dove una piccola finestra, dai vetri sudici e con arabeschi di ragnatele, disseminava la debole luce di un cortiletto, stretto da antichi muri in rovina. Dinanzi si apriva la camera che fu di suo padre. Il letto, con le alte spalliere ornate di riccioli e foglie in ferro battuto, occupava gran parte della stanza. L’annoso armadio dalla vernice scura, che si staccava a scaglie, portava lo specchio ricamato da striature rugginose. In un canto, lì da sempre, il bianco ingiallito del lavabo di lamiera sorretto dal treppiede. Sopra il letto il quadro tarmolito che a malapena faceva scorgere l’immagine scolorita del Sacro Cuore di Gesù. Una cornice d’argento, annerita, sul comodino, sosteneva una foto d’altri tempi, sbiadita e contorta. In posa stereotipata vi si poteva distinguere suo padre, ancor giovane, a fianco di sua madre, una donna dal volto triste, di una tristezza senza nome, che il cieco destino gli tolse non appena venne alla luce.
          In quella stanza, su quel letto disfatto, aveva visto per l’ultima volta suo padre, quando il fiato della morte si aggirava gravido in attesa dell’estremo respiro.
          Suo padre… Adesso gli appariva di nuovo come allora, lì disteso col volto affilato, estremamente pallido, gli occhi semichiusi senza più lume, la fronte imperlata di sudore, le braccia stancamente abbandonate lungo il corpo, che era mosso solamente da un lento penoso ansimare.
          Quella misera creatura sfigurata e vinta, quella povera cosa rimpicciolita e perduta tra le coperte, quell’essere così spento, che neppure era riuscito a vederlo, era stato proprio suo padre? Che cosa avrebbe potuto ferirlo di più di quell’immagine inerte, sofferente, umiliata che solo gli procurava lacrime di pietra?
          Gli tornava alla mente l’uomo nato con la terra e come terra generosa pronto ad offrire tutto se stesso. La sua figura robusta, forgiata dalla fatica e dalla povertà , il suo fare schietto, quasi scontroso, il suo caparbio attaccamento al nido avaro, come l’aria alle cose, si erano perduti in quel letto di morte.
          Era rimasto lassù tra quei monti, ma lui non era venuto al mondo per vivere altrove.
          “Sono come il castagno che ha posto le radici nel proprio terreno: guai a sradicarmi!” soleva dire.
          Si sentiva libero simile alla lepre dei suoi boschi, e lì aveva imparato a respirare, a muoversi, a pensare, a lavorare, a sapersi un tutt’uno con quella natura povera.
          Ora se n’era andato per sempre, senza esser venuto meno ai tenaci voleri personali e senza aver tradito il più intimo sogno. Invece lui, il figlio, aveva rinnegato la sua origine, aveva soffocato il richiamo di quella stessa terra e si era arreso alle lusinghe di un’altra esistenza sicuramente più allettante, forse più comoda, ma modellata su altri ritmi, più arida e spesso basata su trame di sabbia.
          Soprattutto gli si affacciava con prepotenza il rimorso struggente di aver abbandonato il padre.
          Come su uno strumento di tortura si piegava il suo animo, investito da una infelicità mai provata così prima. Era vissuto per tanti anni nella dimenticanza di quel passato, che pareva definitivamente sepolto, e al momento tutto gli si apriva dinanzi e lo faceva pietosamente prigioniero.
          Sentì mancargli il respiro. Ebbe terrore dell’imbrunire dell’aria, nello spegnersi lento delle ore, e prese a soffrire maledettamente quella stanza, a soffrire l’intera casa, come se l’avesse sulle spalle con tutte le sue strutture malandate.
          Lo vinse di nuovo una gran voglia di fuggire, di allontanarsi il più possibile a interrare profondamente le spine che gli seviziavano il cuore.
          E fu fuori a farsi rianimare dalla fresca quiete del buio recente. Il cielo si era vezzosamente ingemmato di stelle ancora incerte e pudiche, e la luna, pallida e stupita,  sembrava, sospesa nel nulla, essersi arrestata a guardare la sua pena nell’ordito di mestizia e di solitudine che lo circondava in quella terra dissanguata.
          Se ne andò, deciso a non far più ritorno, portando con sé il bruciore dell’ultimo strappo.  Â
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